La capacità di osservare mi ha sempre accompagnato, fin da bambino. Tutto quello che incontro e scorgo assume, a seconda delle tonalità di realtà e fantasia, toni e umori diversi. A volte può essere la gioia a prendere il sopravvento; altre volte sarà la distorsione di un’arrabbiatura a modificare ‒ in meglio o in peggio, questo non saprei dire ‒ la trama di una storia. In realtà, è quando sto con i miei colleghi, che smetto di osservare e riprendo prepotentemente a vivere. Qui, non porterò mai con me il taccuino, compagno fedele, quaderno dove appunto parole che, un giorno, forse prenderanno significati differenti di fuoco e pioggia.
Allora, per quale spinta, raccontare verosimilmente una parte intima di me? Se mi son messo a descrivere quasi minuziosamente il mio studio (nel quale leggo, e scrivo), l’ho fatto unicamente per amore smisurato verso i quadri di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio.
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Della malinconia, ne porto il tatuaggio in fronte. Colpa di una nascita piena di stelle in cielo, nella gelida e imbiancata notte dicembrina. Nella nostalgia, la malinconia sguazza come una sorella fin troppo legata a me. A volte mi sento come un eroe in mezzo a tanti eroi. Se dovessi fare un paragone azzardato e impossibile: beata la balena, beata l’orca che ancora si slanciano verso il cielo e s’inabissano nelle acque più profonde del mondo. Se non siamo ambìti da nessuno, cosa crediamo davvero di essere? Ovviamente balene, orche, delfini, padroni del mare, amici dei tuoni.
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La prima volta che vidi M, di sfuggita, non sapevo nemmeno che quello fosse il suo nome. Ero alto poco meno di un metro, avevo suole come il vento e sfrecciavo sul marciapiedi davanti all’ingresso di un cinema. Lui, ballava come un farabutto che si era appena scolato qualcosa di buono, mentre la madre fumava e non lo lasciava mai solo. Io vivevo incosciente una delle mie prime spensierate vite, mentre lui mordeva voracemente tutto quello che gli capitava a tiro, come un leone affamato nel buio della savana, dedito a sbranare. Più tardi ‒ dove per ‘più tardi’ intendo decenni dopo, anni luce e esperienze di ogni genere e tipo ‒ mi si para davanti proprio dove avevo iniziato a fare il tirocinio. Com’è buffa a volte la vita, vedi? Come se Dio fosse il gran umorista ‒ e giocasse con le nostre proprie vite, facendoci presentire cose, fatti, persone, che col tempo, probabilmente e a nostra insaputa, ci faranno compagnia. Così è stato per me e M. È vero, in quei giorni avevo timore di lui. Perché non l’avevo mai conosciuto di persona. Lui, sempre energico e feroce e brutale: «Ciao, come stai?». M esordiva immancabilmente a tal maniera, quando ti compariva davanti. E poi mi chiedeva una sigaretta, o un caffè. Non ha mai conosciuto la moderazione. Ma in cooperativa si tentava il più possibile di stargli dietro. Il fatto è che col tempo abbiamo imparato entrambi a conoscerci, a cercarci, a parlare del più e del meno, di come si stava, e di cosa si sarebbe fatto nei giorni a venire. Anche di quello che era accaduto in precedenza. M mi voleva bene. Era spesso arrabbiato col mondo. Quante volte l’ho sentito dire che voleva andarsene dalla cooperativa, solo perché aveva bisticciato con qualche collega; se non addirittura dalla casa dove viveva, poiché forse lì in passato veniva curato male. Almeno, queste erano le voci che giravano da noi, al lavoro. La verità non la saprà mai nessuno. Fatto sta, che anch’io volevo bene a M, nonostante il suo scherzo preferito fosse quello di stringerti fortissimo la mano, o di abbracciarti all’inverosimile, accompagnando la morsa a un gridolino di battaglia. In realtà, se ti andava bene, la sua era solo una finta. Voleva che gli altri stessero al gioco, che una volta capita la mossa, anche noi dovessimo stringerlo forte, e così via. M ci teneva a tutti, e lo dimostrava cercandoci. Non avrebbe mai alzato sul serio le mani contro di noi. Era capace, se voleva, di stendere tre persone in quattro e quattr’otto. Spesso gli venivano affidati lavori di forza e fatica fisica, perché lui appunto ne aveva talmente tanta di forza, che in qualche modo doveva scaricarla.
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A un certo punto, non è stato bene. Si è assentato per parecchio tempo. Quando è tornato, non era più lui. Si trascinava. Era brutto vederlo strisciare i piedi, e barcollare, quasi cadere. Per non parlare del resto. Non parlava, biascicava. Noi gli si faceva ugualmente compagnia. Per quel che si poteva. Fino a quando, è scomparso ancora, per poi tornare come nuovo un giorno a settimana. Finalmente adesso è seguito da persone competenti (mi auguro che sia sempre così, e non solo per lui, per tutti). M ha una malattia degenerativa. Ma quello che mi frega di lui, è che è con me sempre. Nonostante non lo veda quasi più, e nonostante lui ormai non mi cerchi più come una volta. Non importa. Quei pochi attimi condivisi, che ci hanno accompagnato da ragazzi fino all’età adulta, sono la prova e l’argento che non si vive invano, nel caso fortuito di un incontro, ma la sapienza di non aspettarti nulla, perché tutto comunque accade al momento opportuno ‒ questo almeno lo sai, vero?
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Una volta da noi, in cooperativa, si recitava l’Angelus, prima di metterci al lavoro. Ora non accade più. Questa preghiera è stata eliminata. Non ne capisco il motivo. Quando ho chiesto spiegazioni, mi è stato detto che potevamo dirlo noi, singolarmente, nel nostro cuore. Così facendo, per chi ci crede, si è persa la propulsione importante di pregare insieme.
Ma adesso, sembra che io sia tutto casa-lavoro-chiesa. Quando in realtà, che cos’è un poeta? Chi è quell’uomo, che nonostante una vita avventurosa, non abbia nient’altro che la solitudine infantile del fallimento a fargli ombra? La sua vita ‒ lo hai mai intuito? ‒ potrebbe essere monotona. Se non che, lui ha qualcosa di tremendamente affascinante. Sembrerà strano, ma trasfondere poesie o appunti di diario o chissà diavolo cosa, sulla pagina bianca, fa del poeta un uomo interessante. Perché è il taccuino, oggetto dei desideri più reconditi, uno dei suoi segreti ammaliatori. Il sogno per lui è proprio quel taccuino lì, tutto ciò che esso comporta e quanto ne consegue.
Però il poeta ha sempre qualcuno che lo aspetta, da qualche parte. Se non, quanto meno, qualcuno che lo pensa: per quel che è stato, per quel che sarà. Ci sono persone nelle quali lui ha inciso attimi di eloquente verità, sguardi tremendi, parole di grandine e graffi provvidenziali…
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Da bambino osservavo tutto. Ero fatto di quella curiosità di chi nasce ogni istante al mondo. Con due occhi gonfi come chicchi d’uva, divoravo arcobaleni nei giochi di cortile; delle casette sugli alberi accanto al torrente, cercavo la bellezza che non si consuma in fretta, ma ne traevo il germe feroce del fanciullo, che nella sua innocenza, ne sa più di qualsiasi malandrino. Tutti portavano addosso bagliori, accadimenti, smacchi; ed era così semplice la vita. Non si tornerà più indietro ‒ pensaci, dobbiamo darci da fare…
Giorgio Anelli
*In copertina: Caravaggio, “Cattura di Cristo”, 1598