Pubblichiamo due lettere di Anne Sexton (1928-1974), la formidabile poetessa americana, finora inedite in Italia. In particolare, la lettera a Charles Newman, responsabile di “Tri-Quarterly”, raffinata rivista della Northwestern University, racconta alcuni dettagli del suo rapporto con Sylvia Plath. Cresciute liricamente all’ombra di Robert Lowell, sono morte, entrambe, per scelta, a dieci anni di distanza, la Plath nel 1963, la Sexton nel 1974. Con una leggerezza che appare paradossale a chi non sa di poesia, le due discutono di suicidio e di letteratura mentre bevono Martini, come se i due elementi – il verbo e la morte – fossero consustanziali. Charles Newman, scrittore pluripremiato, pubblica nel 1970 un saggio su “The Art of Sylvia Plath”; poi i suoi interessi si spostano su Nabokov (1971) e Borges (1974). La seconda lettera è inviata a Stanley Kunitz (1905-2006) grande poeta americano, ignoto sulle nostre sponde, per due volte Poet Laureate americano, riconosciuto con un National Book Award (1995) e il Bollingen Prize (1987; lo stesso che andò a Pound), selezionando tra la folla di onori assegnatagli da un Paese che, nel bene o nel male, continua a venerare i suoi poeti.
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14 Black Oak Road, autunno 1965
Caro Mr. Newman,
Ti prego di scusarmi per i fogli in cui scrivo, ma ho terminato la carta intestata. E ti prego di tenere presente che avrei voluto rispondere con più tempestività alla tua lettera, ma ero impegnata a leggere il tuo numero di Tri-Quarterly su Yeats e inoltre, avendo appena finito un tour di letture, sono tornata alle mie poesie.
Sono proprio contenta che tu stia lavorando a un numero primaverile con una sezione dedicata a Sylvia Plath. Sperando che non ti dispiaccia, mi sono già permessa di trasmettere questa informazione a una ragazza di Chicago che ho conosciuto questa estate, che sta scrivendo un libro sulla vita e le opere di Sylvia e spera di pubblicarlo. Questa ragazza, Lois Ames, magari potrà aggiungere qualcosa, avendo già fatto un po’ di ricerche. Non la conoscevo, ma mi ha contattata appena ha iniziato a lavorare a questo libro. Mi è piaciuta e penso che potrebbe farcela.
Per quel che mi riguarda. Oh cavolo! Non c’è bisogno di altre parole o di altra enfasi. Si potrebbe ben dire che io non abbia alcun contributo da dare… Comunque, presumo che tu abbia visto la poesia, l’elegia che ho scritto per Sylvia in Poetry. L’ho inviata a una rivista americana perché avevo la tua stessa impressione, che qui non l’avrebbe notata nessuno. Spero che tu l’abbia letta e magari ristampi gli articoli inglesi su di lei, quelli di Alvarez, o quelli in The Critical Quarterly. Se non li conosci per favore fammelo sapere. Sono importanti!!!!!!!
È notte fonda e sto scrivendo più che male.
Potrei aggiungere, su Sylvia, solo un piccolo abbozzo, come la mia poesia. La conoscevo da un po’ quando ero a Boston. Siamo cresciute nella stessa cittadina, Wellesley, ma lei è di circa quattro anni più giovane di me e non ci siamo mai incontrate. Ci siamo conosciute solo quando lei ha sposato Ted Hughes ed è andata a vivere con lui a Boston. Dopo di che ha saputo, e George Starbuck ha sentito, che avrei partecipato a un corso tenuto da Robert Lowell alla Boston University. Allora si sono iscritti tutti e due… orbitavamo silenziosamente intorno alla classe e poi, dopo ogni lezione, ci infilavamo nella mia vecchia Ford e sfrecciavamo nel traffico verso il Ritz, o lì vicino. Parcheggiavo sempre davanti a un cartello “Zona di carico” e dicevo loro “Va bene, perché adesso andiamo a caricarci” e ci infilavamo nel Ritz a bere tre o quattro Martini… spesso, molto spesso, Sylvia e io parlavamo a lungo dei nostri primi tentativi di suicidio, a lungo, nel dettaglio, in profondità, tra una nocciolina e l’altra. Il suicidio è, dopotutto, l’opposto della poesia. Sylvia e io discutevamo spesso di opposti. Ignorando Lowell e le poesie lasciate a metà. Dopo uscivamo dal Ritz e andavamo tutti e tre a spendere i nostri ultimi centesimi alla Waldorf Cafeteria, una cena a 70 cents. […] Ted sapeva aspettare Sylvia o non gli importava niente e io dovevo rimanere in città (vivo fuori) per un appuntamento delle 19 con [Dr. Martin]. Un trio curioso. Ho sentito che già da allora Sylvia era determinata a farcela, a essere grande. Al tempo non me n’ero accorta. Ero troppo determinata io stessa. Lowell disse, prima e in seguito, “Mi piace la sua opera. Va dritta al punto”. Non ero d’accordo. Secondo me incalzava il punto con la sua forma e le sue immagini complesse e remote.
Mi sembrava che non stesse davvero creando una sua forma e un suo significato personali. Sapevo che aveva talento. Intensa, perspicace, strana, bionda, dolce Sylvia… dall’Inghilterra all’America ci siamo scambiate qualche lettera. Le ho ancora ovviamente. Lei cita le mie poesie e io le mandavo quelle nuove non appena le scrivevo – non ne sono sicura. I tempi della “zona di carico” erano finiti e noi ci mandavamo aerogrammi da una parte all’altra, ogni tanto. George era a Roma. Non scrisse mai. Divorziò e si risposò lì. Sylvia scrisse di un figlio, l’allevamento di api, un altro figlio, le mie poesie – e poi nel suo silenzio, morì.
Potrei spiegare e scrivere meglio questo abbozzo se vuoi. Aggiungo anche che credo che le sue ultime poesie, il suo secondo libro, sia veramente fantastico. Posso dire che non avrei mai pensato che avesse tutto ciò dentro di sé. Eravamo due compagne di bevute – parlavamo di morte – non di creazione. Le sue ultime poesie, a mio parere, valgono una vita intera.
So che è tutto scritto male, ma ecco a te. Era questo che ti serviva?
Sono rimasta molto colpita dal Tri-Quarterly e non puoi immaginare quanto ti sia grata per avermi spedito quel numero.
Fammi sapere se vuoi che aggiunga qualcosa al racconto dei compagni di bevute… E se ti serve o ti potrebbe servire qualche consiglio. Vorrei aiutare. Mi vergogno dell’America, quando penso alle ultime poesie di Sylvia. Tengo letture a diverse università e mai nessuno accenna alle sue opere. Sono tutti pazzi? Tu no, in ogni caso.
Cari saluti,
Anne
*Da Anne Sexton: A Self-Portrait in Letters. Boston: Mariner Books, 2004
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17 febbraio 1971
Caro Stanley,
Ho una considerazione speciale per le margherite. Sopravvivono e sopravvivono quanto me e te. Sono il mio fiore preferito. Hanno qualcosa di innocente e vulnerabile, come se ti ringraziassero di apprezzarle. Mi dispiace che tu abbia passato un brutto periodo, ma mi fa piacere che ora sei in via di guarigione.
Grazie per quella frase su Transformations. La leggo ogni giorno per mettermi di buon umore e sono sicura che gli editori ne faranno buon uso, anzi ha già placato i loro dubbi sul valore di questa nuova opera. È strano che tu mi dica che sono “troppo forte” per la mia “fretta bruciante” (questa frase non ha senso, ma tu capisci cosa intendo). Mi dicono tutti che sono forte. Forse perché sono sopravvissuta a così tanto. Dentro mi sento come un broccolo cotto, non come un gambo, che di solito è croccante e saporito. Ma come la testa che si sgretola quando la tagli. Sono forte nella mia mente solo quando una poesia mi invade e sono decisa a conquistarla e a lasciarle vivere la sua peculiare vita. Tutta la mia forza finisce nella mia opera. Difficile, davvero, non sembrare una stupida. Va bene, sto divagando… Non avere fretta di rispondere. Fallo quando ti è più comodo.
Tanti cari saluti
Anne il Broccolo
*Da Anne Sexton: A Self-Portrait in Letters di Anne Sexton, Lois Ames, Linda Gray Sexton. Boston: Houghton Mifflin, 1977
**La traduzione italiana delle lettere è di Valentina Gambino