«Oggi il libro è qualcosa che vive sui margini – e quasi di riflesso –, rispetto a un magma in perpetuo mutamento, che si manifesta su schermi. Che si tratti di schermi e non di fogli di carta è una differenza gnoseologica, non funzionale. Occorrerà tempo perché si cominci a capire che cosa ha comportato, nell’apparato della conoscenza, questo slittamento dalla pagina allo schermo. E come questo abbia condotto a una progressiva vanificazione di ogni possibilità di guardare al mondo come a un Liber mundi, anche se appunto quel modo di guardare rimane sottinteso nel nostro passato più illuminante (…). Questo processo globale stinge vistosamente anche sui libri stessi che oggi vengono scritti. Ormai gli scrittori sono considerati come un settore dei produttori di contenuti. Ma questo presuppone l’obsolescenza della forma. E dove non c’è forma non c’è letteratura» (Roberto Calasso, Come ordinare una biblioteca)
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La narrativa come solco dell’immaginario. Squadernatura di universi: sulla carta sorgono mondi, la scrittura invita il lettore a frequentare i luoghi enigmatici dell’immaginazione creatrice, completando con le proprie emozioni, passioni, esperienze, persino con i propri fraintendimenti, la trama che il Demiurgo – incarnato in questo caso dall’autore, con la sua al contempo progettuale, malinconica e onirica vis interiore – ha filato, in-scritto, accresciuto. “Autore” deriva, non a caso, dal latino augeo (“accresco”, “integro”, “implemento”): l’autore non crea ex nihilo, bensì porta in superficie, come ben sapevano i Greci, «superficiali – per profondità!» (Nietzsche), insegna a percepire in maniera rinnovata ciò che gli sguardi comuni non colgono. Re-incanta il mondo.
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In questa ermeneutica del sogno s’inserisce anche, e a pieno titolo, L’invenzione di Casares, la prima prova letteraria di Federico Filippo Fagotto, giovane scrittore (intellettuale? filosofo? attore? Federico è una sola moltitudine), deus ex machina della Corte dei Miracoli, centro culturale meneghino. Il romanzo, evidente omaggio a L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares, può anche essere letto, alla luce della citazione di Calasso in esergo alle nostre brevi note, come un recupero della forma estetica – qui avanguardista, basata sull’analogia e il rimando circolare, a tratti surrealista, labirinticamente borgesiana, sempre colta e stratificata – e, dunque, della letteratura. Un testo inattuale, nel senso di Nietzsche, ed eccentrico, secondo il lessico di Geminello Alvi.
Al centro del romanzo è un enigma che riguarda il già citato Adolfo Bioy Casares (1914-1999), scrittore, giornalista e poeta argentino noto soprattutto per la sua collaborazione col bardo cieco di Buenos Aires, Jorge Luis Borges – si ricordino, fra gli altri, i loro splendidi Racconti brevi e straordinari (editi da Franco Maria Ricci e, quest’anno, ripubblicati da Adelphi).
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La genesi dell’opera la racconta lo stesso Fagotto: «Durante una conferenza su Borges ho parlato di un docente bosniaco, il quale sostiene che Casares non esista ma sia pseudonimo dello stesso Borges. Era falso. Il pubblico in sala non sapeva che mi ero inventato tutto. Il mese dopo ho visitato il Labirinto della Masone, costruito da F.M. Ricci in onore di Borges. Ho incontrato Ricci e mi sono fatto scrivere una dedica su un suo libro di Borges-Casares, facendola intestare al protagonista da me inventato che ha così cominciato a prendere vita». Così nasce il Professore Sergej Boris Ulog, al tramonto di quell’astro indimenticabile che fu FMR, così sorgono le sue avventure umane, letterarie, relazionali che intarsiano un gioco di specchi e rimandi. Anche perché Sergej non è così inventato come si potrebbe pensare, se è attestata un’omonima figura di critico letterario e libero docente di Letterature comparate presso l’Università di Sarajevo, proprio specializzato in studi borgesiani (si veda il suo Die Erfindung con Casares, pubblicato per Suhrkamp nel 2016). Questo Ulog, quello storico, è peraltro autore di una tesi radicale: il Casares collaboratore di Borges non è altro che un eteronimo di Borges stesso.
Il romanzo di Fagotto mette in scena una storia incalzante, ricca di colpi di scena, che mostra come il libro della vita sia narrazione che attende un interprete adeguato a renderla narrazione. Specchi, doppi e alter-ego completano il paesaggio narrativo del romanzo, del suo linguaggio complesso, in cerca di lettori curiosi.
Lo sa bene la notte, luogo per eccellenza delle passioni, a cavallo fra l’autoinganno e l’onestà verso se stessi, che nel rapporto fra Sergej e Doris, sotto gli auspici della Romantik, assurge a scrigno letterario pregno di bellezza: «Non saprei dire come fu quella notte su cui Novalis intonava i suoi inni. Forse piovve, chissà, forse la Miljacka esondò. Forse la mia casella s’intasò di lettere anonime piene dei segreti di quando alloggiavo nell’utero materno, o forse a Locratoža era venuta una dispnea folgorante e Sonia piangeva tutta sola per me. Non m’importava. Non ero in grado di registrare fatti al di là della mia epidermide. Tutti i miei sensi erano racchiusi nel grembo di Doris, smembrati dal piacere e riscritti dalle stelle che, anche se non potrei giurarci, forse stavano osservando».
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L’invenzione di Casares vive tuttora nel Mundus Imaginalis, in uno stato di realtà mediano fra la potenza (il romanzo è concluso, l’autore conserva l’impaginato definitivo: siamo ben oltre la possibilità recondita del suo apparire) e l’atto (non esiste ancora in versione cartacea – e «la forma-libro», come nota Umberto Eco ne La Bustina di Minerva, «è determinata dalla nostra anatomia» –, non esiste ancora nella “storia degli effetti” di un libro, quella che nasce nel dialogo-scontro coi lettori). La pre-ordinazione tramite Bookabook ne potrà permettere la stampa. A ricordare che anche il lettore è, a suo modo, autore.
Luca Siniscalco