12 Agosto 2020

Jorge Luis Borges, il geniale mentitore. Gita nella selva di pseudonimi, apocrifi, leggende fittizie

Da buon bibliotecario – era stato eletto direttore della Bilioteca Nacional proprio quell’anno – Jorge Luis Borges sapeva che la verità è la sua contraffazione e che un documento, sempre, è apocrifo, la copia di un autentico sepolto millenni prima, sbiadito fino allo sbadiglio. D’altronde, l’autore sparisce, all’ombra delle parole: siamo tutti lo pseudonimo di un dio decapitato. Adolfo Bioy Casares l’aveva conosciuto più di vent’anni prima a Villa Ocampo, era il 1932. L’amico, indubbiamente bello, più giovane di lui di quindici anni, s’era accasato con Silvina Ocampo – la sorella di Victoria, zarina della cultura d’Argentina – nel 1940. Sapeva tradire e sapeva scrivere, Bioy: quello stesso anno pubblica il libro più grande, L’invenzione di Morel (già in catalogo Bompiani, ora Sur, fu tradotto in film da Emidio Greco, nel 1974). I due – Borges e Bioy Casares – si trovarono: la letteratura è un gioco, una sfiziosa finzione, tra le pieghe dello scherzo, è probabile, vive un dio. Insieme, fecero storia: probabilmente sono il duo più prolifico della storia della letteratura (licenziati Fruttero&Lucentini, fruttuosi per altre ragioni). Forgiarono romanzi e racconti, spesso ‘gialli’ (Sei problemi per don Isidro Parodi), genere di cui erano cultori (Los mejores cuentos policiales è una raccolta organizzata nel 1943 e nel 1956). Per lo più, eccellevano nell’ancestrale arte dell’antologia: ne hanno curate sulla “letteratura fantastica” (1940), sulla “poesia argentina” (1941), sulla Poesía gauchesca (1955). A volte usavano uno pseudonimo, Honorio Bustos Domecq (si vedano le Cronache di Bustos Domecq), che era poi un omaggio al papà di Bioy Casares: Adolfo Bioy Domecq fu Ministro per le relazioni estere negli anni Trenta e presidente della Sociedad Rural Argentina. I Cuentos breves y extraordinarios escono nel 1955 e sono un programma di poetica fin dal titolo: solo il racconto breve ammette lo straordinario; la parabola, l’apoftegma, l’improvviso narrativo sono una sorta di illuminazione. Il romanzo è un tradimento, una perdita di tempo, il demonio dell’intrattenimento. “In questi brani sta, osiamo ritenere, l’essenziale di ciò che è narrazione; il resto è episodio illustrativo, analisi psicologica, felice o inopportuno ornamento verbale”, scrivono i due.

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Pubblicato da Franco Maria Ricci nel 1973, Racconti brevi e straordinari torna per Adelphi: il bello sono le note di Tommaso Scarano, che svelano, tra i testi di Franz Kafka – La verità su Sancio Panza, Quattro riflessioni –, di Martin Buber, Plutarco, Edgar Allan Poe, Henri Michaux (un pallino di Borges), Cocteau, Swedenborg e “le antiche e generose fonti orientali” (nel consueto azzeramento di ogni latitudine cronologica, come se il verbo fosse una torcia lanciata da Lascaux all’apocalisse), il putiferio di ‘falsi’, di riscritture, di pseudonimi improvvisati con un colpo di gesso. “Sarà proprio nei Racconti brevi e straordinari che Borges e Bioy Casares praticheranno nella misura più rilevante e nelle forme più varie il gioco scanzonato delle opere e degli autori immaginari, delle false attribuzioni, delle interpolazioni apocrife” (Scarano).

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Il gioco di Borges è stratificato: il racconto Il risveglio del re (ambientato in Canada, nel 1763), ad esempio, è affibbiato a tale H. Desvignes Doolittle (reminiscenza, forse, di H.D., Hilda Doolittle, poetessa e musa di Pound), ma ha un fondamento bibliografico in uno studio dello storico statunitense Francis Parkman, del 1870. L’Altra versione del “Fausto”, invece, è firmata dal fatidico Fra Diavolo, pseudonimo usato davvero da Evar Méndez, fondatore della rivista “Martín Fierro”, preso in prestito dal duo di giocolieri bibliomantici. Spesso i frammenti, verosimili, reclamano le ossessioni di Borges, di cui si legge in controluce la penna. Ad esempio in L’ombra delle mosse: “Mentre i francesi assediavano la capitale del Madagascar, nel 1895, i sacerdoti parteciparono alla difesa giocando a fanorona, e la regina e il popolo seguivano con più apprensione la partita, che si giocava secondo il rito per assicurare la vittoria, che non gli sforzi delle truppe”. Il brano, affidato a un fittizio Celestino Palomeque, tratto da un fittizio Cabotaje en Mozambique, è esemplare: il gioco (la fanorona, specie di dama) è più importante della realtà (la guerra), perché il gioco influenza la realtà, ne è, in sunto, il simbolo. Così, il dio scrive le cose, e dalla scrittura le cose nascono, il verbo precede la carne, lo scrittore è un contro-dio, che tarocca i Tarocchi.

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Per il lettore estivo, da passeggiata, questi racconti sono stilettate di gioia, proiettili di rubino, sapienza miniaturizzata (in Vite parallele si racconta l’analogia tra Confucio e l’unicorno: la fonte però non è quella denunciata, L’Empire chinois del “missionario cattolico” Évariste Régis Huc, vissuto nell’Ottocento, bensì il Konfuzius di Richard Wilhelm). Insomma, apri il libro, ti folgora la leggenda. Per il lettore che ama Borges, è una festa bibliografica dei sensi. Esempi sparuti. In “Der Traum Ein Leben” un ipotetico Francisco Acevedo (Acevedo è il cognome della madre/padrona di Borges) fa riferimento ad Adrogué, luogo simbolo nell’opera di Borges (in un racconto, 25 agosto 1983, lo scrittore simula lì il suicidio del proprio avatar; ad Adrogué, tra l’altro, dedica un libro, con le illustrazioni della sorella, Norah Borges). In “Omne amirari” un funambolico Estanislao González racconta di Macedonio Fernández, pensatore anomalo e mentore di Borges, realmente esistito, mittente di uno dei suoi clamorosi Prologhi (“Macedonio possedeva in grado eminente le arti dell’inazione e della solitudine…”). I continui riferimenti a Nathaniel Hawthorne richiamano, tra l’altro, la straordinaria lezione che Borges dedica allo scrittore americano in Altre inquisizioni. Di quel testo – labirintico, cioè del tutto borgesiano – ho sottolineato questa frase: “Il passato è indistruttibile; prima o poi tornano tutte le cose, e una delle cose che tornano è il progetto di abolire il passato”. Oggi però preferisco un’altra frase, che descrive il genio di Hawthorne – autore troppo poco letto – e dunque quello di Borges, quasi un cugino: “Morto Hawthorne, gli altri scrittori ereditarono il suo compito di sognare”. Che alcuni di questi Racconti brevi e straordinari tornino, variati o ritradotti, in Libro di sogni, pubblicato vent’anni dopo, non ci sorprenda: un grande scrittore sogna sempre la stessa stanza; lo specchio, però, è inchiodato su pareti diverse, ad ogni sogno.

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In fondo, di opera in opera, Borges non fa che scrivere lo stesso libro, forgiando una immane biblioteca. Il sogno di uno scrittore è scrivere tutti i libri possibili, adottando ogni genere, ogni linguaggio, esaurendo tutte le identità.

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In Un mito di Alessandro il fasullo Adrienne Bordenave attacca così: “Chi non ricorda la poesia di Robert Graves nella quale si sogna che Alessandro Magno non morì a Babilonia, ma che smarrì il suo esercito e si addentrò nell’Asia?”. Borges amava Robert Graves, che andò a trovare, malridotto, nei primi anni Ottanta, a Maiorca, dove s’era ritirato, antico monarca della poesia. Amava, altrettanto, costellare la Storia di enigmi, fratturare i miti, disporre tarme nel legno della leggenda. L’Alessandro che si perde nei turbini dell’Asia scopre se stesso in “una moneta d’oro che gli avevano dato: riconobbe l’effigie e pensò, ho fatto coniare io questa moneta, per celebrare una vittoria su Dario, quando ero Alessandro di Macedonia” (lo stesso episodio, lietamente riscritto, torna in Atlas, libro estremo di Borges). Soltanto Borges sapeva fornire al caso una geometria euclidea e un goniometro. Lo scrittore, come Alessandro, deve preferire lo smarrimento alla grandezza: si scoprirà, molto dopo, altro. Solo quando si è scissi da ciò che si era, identità in ceramica, possiamo scegliere se essere indulgenti con la nostra giovinezza – o sperperarla in libri. (d.b.)

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