“Esistono spiriti liberi e coraggiosi a cui piacerebbe non ammettere che hanno un’anima a pezzi, tracotante, incurabile. A volte, impazzire è un travestimento, per chi ha certezze troppo infelicemente sicure”.
Di Bhartrhari sappiamo pressoché nulla; così conviene alle opere spiazzanti, speciali per audacia: l’autore rimane velato in una nebulosa di congetture e leggende. Bhartrhari è nato in India, in un’area cronologica che va dal I al VII secolo dopo Cristo; i più ipotizzano sia vissuto nel V secolo. Di certo, la sua opera è stata discussa, trascritta, bestemmiata, setacciata.
Il suo libro più noto, almeno in Occidente, il Śatakatraya, ci è giunto tramite un pastore protestante olandese, Abraham Roger, che avrebbe reperito il manoscritto nelle Indie Orientali, nel 1640. Con l’aiuto di un bramino, il pio pastore voltò nella sua lingua le stanze estrose dell’impavido maestro d’India raccogliendole in due tomi: Sulla condotta ragionevole dell’uomo e La via che conduce al Cielo. Dimenticò – diciamo così – le stanze dedicate alla passione amorosa, di materico erotismo, in cui Bhartrhari si dimostra smaliziato esegeta dell’arte dell’amore. (Quasi a dire che la condotta ‘morale’ è iniqua senza la sapienza d’amore, che la via verso il Cielo è impensabile se si ignorano i sentieri della carne).
Una leggenda fiorita come edera nei vuoti biografici narra che Bhartrhari si sarebbe convertito almeno sette volte al buddismo: ogni ingresso in monastero terminava in tradimento, nella caduta nel ventre di una femmina; l’impegno contemplativo si disfaceva in impeto erotico, dalla cella al postribolo la capriola era, per il gran maestro, comune. Scandire scaglie dell’altro mondo nel mondano, diciamo così. La versione di Roger fu tradotta in francese da Thomas Lagrue; la prima traduzione completa dall’originale è stampata a Berlino nel 1833, per la cura di Peter von Bohlen. In Italia Le tre centurie di Bhartrhari escono un secolo dopo, nel 1933, grazie a Umberto Norsa. La traduzione di Alessandro Passi per Adelphi (1989) segue la dizione tripartita del testo: Sulla saggezza mondana, sull’amore e sulla rinuncia. Noi, per movimentare le vette e ardire ad altro, abbiamo deciso di riferire la traduzione di Paul Regnaud (1838-1910), indologo di genio, già traduttore, tra l’altro, dei Veda. La sua versione dal sanscrito de Les Stances Érotiques, Morales et Religieuses, stampate a Parigi da Ernest Leroux éditeur nel 1875, hanno la freschezza di una chiacchiera dotta, una sagacia brillante priva di manierismi, sfrontata e senza fronzoli, secondo gli intenti dello studioso, “unire il piacevole con l’utile”.
Il ritratto letterario che Regnaud ci offre di Bhartrhari avvince:
“Le tre categorie in cui è suddiviso il libro, che testimoniano i tre grandi aspetti della vita umana – piacere e amore, condotta civile e relazioni sociali, speculazione religiosa e preoccupazioni per gli affari dell’aldilà – sono disseminate di concetti spesso profondi, a tratti sublimi. Bhartrhari non è meno notevole per la varietà di trucchi linguistici di cui riempie il suo libro. Cosa rara in India, il poeta obbedisce ai moti spontanei del pensiero, l’emozione e la passione guidano la sua penna oltre il mero gioco retorico. Calore e naturalezza traspaiono dalle sue strofe. Questo maestro prendeva sul serio la vita terrena e non disdegnava di osservare con arguzia i suoi simili. Se la maggior parte dei poeti sanscriti sacrifica tutto all’ideale o all’immaginazione, egli si preoccupa dell’uomo, del mondo e del mondano. Leggendolo, ci facciamo una idea precisa e piuttosto diversificata sui costumi dell’India durante i primi secoli del Medioevo. Il suo lavoro è così prezioso perché tali informazioni sono rare nella letteratura indiana dell’epoca”.
Il genio di Bhartrhari, per così dire, è saggiare – senza soggiacere ad alcuna gerarchia – ogni aspetto della vita umana. Alla passione d’amore non si deve resistere perché è il pasto che ci porta a comprendere la vanità del tutto. Un corpo è bello perché è qui-e-ora, memorabile perché soggetto a corruzione, e occorre contemplarlo fino al più profondo – non proficuo, per fortuna – struggimento. Non esiste arte amatoria capace di schermarci: la carne ci getti pure in un baratro di follie clandestine, da cui è alieno il virtuosismo della virtù. La ‘morale’, invece, è la strategia della faina: il maestro indiano, però, non è un Machiavelli, non intende redigere un manuale per stare nel mondo. Egli si pone sempre di lato, non ha l’ambizione dell’eroe non conosce il gergo della vittima: osserva, si prende in giro – gioca con la sua stupidità –, polemizza con i potenti del tempo, vili perché incapaci di riconoscere le fonti della sapienza – i poeti – e l’autenticità del bello.
In Bhartrhari le immagini non sono mai fini a se stesse – pietosamente ‘poetiche’ –: riconosciamo la belva in caccia, in lui, l’uomo che ama e che soffre, calcificato nelle sue irrigue, assurde passioni. Se nelle stanze dell’amore furoreggiano le immagini di elefanti e fenicotteri, in quelle ‘morali’ è il leone la figura centrale – quasi che l’etica sia misura del morso. La rinuncia, invece – meta estrema del maestro – è sintetizzata dai raggi lunari, dal corso del fiume, dalla voce che sfiorisce. Tutto è intangibile, è intoccabile: al distacco si accede dopo aver sperimentato ogni cosa, con ancora il sapore del sangue tra i denti.
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L’amore
Con il loro sorriso, la grazia, il pudore miliare, la timidezza, gli sguardi obliqui gettati da occhi appena velati, i pettegolezzi, i litigi, le giocose celie: per tutto ciò che sono le donne ci incantano.
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Il viso di loto delle nuove spose, i cui occhi vivaci sono spezzati, ogni tanto, dalle sopracciglia aggrottate, a volte intimiditi da una paura improvvisa o da rattenuta modestia, talvolta sfiancati dal desiderio… splendono come i campi di loto blu che vediamo all’orizzonte.
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Ornamento naturale delle giovani donne: un volto che rivaleggia con la luna, occhi che ridicolizzano la beltà del loto, un incarnato che sovrasta lo splendore dell’oro, capelli boschivi pari a uno sciame d’api, fianchi leggiadri e voce dalla squisita dolcezza.
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Qual è lo spettacolo più bello? Una giovane donna dagli occhi di gazzella che ansima d’amore. Qual è il più dolce profumo? Il suo respiro. Qual è il suono indimenticabile? La sua voce. Qual è il sapore più squisito? La rugiada sulle sue labbra, pari al bocciolo di un fiore. Qual è il tocco più caro? Quello che proviene dal suo corpo. Qual è la sola immagine su cui mi soffermo? Il suo sorgivo fascino. Tutto in lei mi attrae.
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Esiste un uomo sulla terra che possa resistere al corpo di una donna cosparso di zafferano, sui cui seni trema una collana di perle e che, come il fenicottero, ha anelli tra i piedi che paiono fiori di loto?
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I poeti dicono di continuo che le belle donne sono deboli. Si sbagliano. Indra stesso e nugoli di dèi sono stati sconfitti dallo sguardo luminoso di una donna. Come potremmo dire che sono deboli?
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Il dio dell’amore è il lacchè di quella bellezza: si muove dove i suoi sguardi gli indicano di andare.
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Qual è il tuo nome, mia bella sconosciuta? Trafiggi i cuori con gli amuleti, non hai più bisogno di frecce…
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I venti che soffiano d’inverno trattano le donne come se fossero le loro amanti: baciano le guance, si scontrano rovinosamente sulle labbra, giocano coi ricci che incorniciano il loro viso; scostano la loro veste sul petto, fanno tremare il corpo; solleticano le cosce, slacciano i pantaloni raccolti ai fianchi.
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La morale
Mi inchino al cospetto della luce della candela, pacifica, la cui forma, spirituale ed eterna, non è limitata dallo spazio né dal tempo, il cui pensiero costante è prendere coscienza di sé.
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Lei, l’oggetto costante dei miei pensieri, non risponde al mio amore: desidera un altro, incatenato da un’altra. Per parte mia, sono amato da una donna che non amo. Maledetti siano colei che amo, colui che ama, quella che ama me, il dio dell’amore e me stesso!
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Con la forza puoi strappare la perla dalla bocca di uno squalo; puoi varcare il mare anche se un turbine lo scuote; puoi sollevare il cranio di un serpente rabbioso, come se fosse un fiore… ma non puoi vincere l’ostinazione di uno stolto.
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Attraverso bei discorsi e auree parole, convincere i malvagi a seguire la retta via: è come cercare di incatenare una turba di elefanti rabbiosi con gli steli del loto, spezzare un diamante con un petalo, dissipare la salinità del mare con una sfera di miele.
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Fino a poco fa, vivevo da insipiente, accecato dai pregiudizi: credevo di sapere tutto e il mio cuore era gonfio di orgoglio. Da quando frequento i saggi, sono certo della mia stupidità, ho curato la presunzione come fosse una febbre.
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Meglio vagare per i passi montani, tra le feroci bestie, che abitare nei palazzi del signore degli dèi in compagnia dei vili.
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Un principe si rivela vile quando, nel suo impero, si incontrano poeti celebri in povertà, che con voce eloquente pronunciano parole adorne di scienza, i cui insegnamenti sono degni di passare ai discepoli. Pur senza ricchezze, un uomo dotato di sapienza è potente: gli ignoranti che non comprendono la lucentezza del diamante meritano la più feroce punizione.
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Né i bracciali né le collane di perle che splendono come la luna sono l’ornamento di un uomo vero; non lo distinguono le lozioni, gli oli, la cura con cui deterge i suoi capelli. Solo l’eloquenza è l’ornamento perfetto.
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La sapienza per l’uomo è la bellezza suprema; la sapienza, tesoro protetto in segrete profondità; la sapienza, strumento di potere, gloria e felicità; la sapienza, maestra dei maestri; la sapienza, compagna dei nostri viaggi; la sapienza, la più potente divinità; la sapienza, degna degli onori maggiori, superiori a quelli che si tributano ai re. Privo della sapienza, l’uomo è una bestia da soma.
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La pazienza è una corazza, la collera il più temibile dei nemici. I parenti sono fuoco che divora, gli amici sono divini rimedi; i malvagi sono serpi, la sapienza è la sola ricchezza; la modestia è il più bello tra gli ornamenti, la poesia è un trono.
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Gentilezza verso i propri pari, misericordia verso gli inferiori, severità nei riguardi dei malvagi, amicizia concessa ai buoni, prudenza nel trattare coi principi, rettitudine con i saggi, coraggio di fronte al nemico, pazienza nel fronteggiare il padrone, malizia con le donne. Chi pratica questi precetti vive bene in questo mondo.
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Acconsente forse il leone, tra le belve il più fiero, benché sfinito dalla fame, roso dall’età, sfiancato, nella situazione più miserabile, anche quando la sua forza è svanita, perfino sulla soglia dell’ultimo respiro, a nutrirsi di erba secca, lui che aspira a mordere a denti pieni l’emblema reale che l’elefante reca in fronte?
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La rinuncia
I sapienti sono corrosi dall’invidia, i principi sono contagiati dall’orgoglio: gli altri soccombono sotto il peso della loro stupidità. Come posso estorcere un segno di lode dalla mia gola?
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Niente di ciò che accade in questo mondo mi pare vantaggioso: le conseguenze delle buone azioni mi fanno tremare, quando ci penso. I grandi piaceri conquistati grazie ai grandi meriti portano, a lungo andare, le più potenti pene, dovute all’abbandono di sé nel piacere.
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Ho viaggiato lungo un paese circondato da vaste montagne senza trarre alcun profitto; mi sono spogliato dell’orgoglio legato al mio lignaggio, ho scelto di servire il prossimo, ma non ne ho tratto alcun frutto; mi sono seduto spudoratamente alla mensa degli sconosciuti in preda a continue preoccupazioni, come la gru. Oh ambizione, tu che rotoli nel male, continui ad aprire la mascella, pur da sconfitta, e non ti sazia nulla!
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Ho sopportato ogni cosa: le invettive dei malvagi, perché mi giungesse un ringraziamento. Ho ingoiato le lacrime e cercato di sorridere, ma il mio cuore era vuoto. Ho chinato con umiltà il capo davanti agli ignoranti. Oh concupiscenza, frivola concupiscenza, continui a farmi danzare…
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La nostra vita dura quanto il battere di un occhio e non sappiamo cosa farne! Indulgeremo nelle penitenze sulle divine rive del Gange? Circonderemo i fianchi della moglie virtuosa con la nostra rispettosa amabilità? Berremo alle fonti della sapienza o alla coppa d’ambrosia che riempiono i poeti?
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Il padrone è difficile da accontentare, il principe ha pensieri più rapidi dei cavalli. Pieni di ambizioni temporali, abbiamo come scopo il raggiungimento di una posizione elevata. Nel frattempo, la vecchiaia fiacca i corpi e la morte pone un termine alla nostra vita.
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Bellissimi i raggi della luna, le foreste, le radure; bellissime le storie dei poeti, il volto dell’amato su cui rotola una lacrima, il parto del piacere; ma tutte queste cose belle svaniscono appena ricordiamo che sono fugaci.