Una mistica allo stato selvaggio fu Simone Weil, la cui sete insaziabile di Dio fa pensare al verso indimenticabile di Rimbaud in Une Saison en Enfer: “J’attends Dieu avec gourmandise”.
E la mistica, il protendersi della Weil sempre e ovunque verso il trascendente, anche quando pare trattare di temi molto “mondani” e calati nel consorzio dell’umanità, permea ogni aspetto della sua opera e relega nell’ ombra qualsiasi altro aspetto della sua produzione di scrittrice.
La ripubblicazione per Adelphi di quell’“immenso libro”, come lo chiamò Cristina Campo, per certi versi sua consorella in spirito, che è Attesa di Dio (per le cure di Maria Concetta Sala e con un saggio di Giancarlo Gaeta) ripropone in tutto il suo intatto fuoco e la sua straordinaria intensità una delle figure più alte dello scorso secolo. Albert Camus, che non incontrò mai fisicamente la Weil, non esitò a definirla “l’unico grande spirito del nostro tempo” e, in un’altra occasione, accettando nel 1957 il Nobel per la letteratura, citò la pensatrice francese fra le sue maggiori influenze aggiungendo: “A volte i morti sono più vicini a noi dei vivi”. Mirabili parole, che in pochi tratti scolpiscono per sempre la dimenticata verità che, oltre il “muro d’ombra” e l’illusoria barriera che divide i vivi dai morti, le voci di questi ultimi risuonano con tanta maggiore forza e intensità del cicaleccio frastornante del quotidiano.
In queste pagine, talora consegnate alla forma apparentemente più effimera della comunicazione epistolare, la Weil fa sempre risuonare le corde perenni dell’essere umano, nella forma di una sublime frammentarietà, di un pensiero che mai volle assoggettarsi alla gabbia condizionante del “sistema”. Il sistema è un aspetto inaggirabile della filosofia, in quanto ogni singola proposizione deve riannodarsi incessantemente a un contesto più generale e al complesso di interazioni e ramificazioni che riannodano le singole parti all’ insieme. Senza di esso il pensiero si ridurrebbe a una sequela di aforismi, di lampeggiamenti singoli ma slegati da una totalità.
E tuttavia il sistema è un’arma a doppio taglio, una prigione concettuale cui i pensatori si affezionano e che in nome di questa affezione e della conseguenza architettonica fra le parti sacrificano talora l’apertura alla Verità.
Converrebbe parlare di “sistemazioni” più che di sistema, a voler far risaltare il carattere provvisorio e non totalizzante di ogni pensiero, perpetuamente rimesso in discussione dal suo stesso artefice. Nella “sistemazione” della Weil anche la forza del concetto si piega sempre alla bellezza della tensione ascensionale verso l’elemento divino: è la mistica a generare e improntare in lei la filosofia, non il contrario. Nel 1937, in visita alla Porziuncola di Assisi, rimane soggiogata dinanzi alla spiritualità primigenia che emana da essa, a quella piccola chiesa, custodita come entro uno scrigno nel ventre della basilica di Santa Maria degli Angeli, dove San Francesco maturò la sua conversione e che egli elesse a propria dimora, dando vita al più alto e universale messaggio della Cristianità. Dinanzi a quella “incomparabile meraviglia di purezza”, pura come la pittura dei nostri grandi Primitivi del Due e Trecento, la Weil è per la prima volta obbligata a mettersi in ginocchio, trascinata da qualcosa di più forte di lei.
È l’inizio della sua maturazione mistica, un poco come lo fu per Paul Claudel l’ascolto della messa dentro Notre Dame la notte di Natale del 1886. Il Cristianesimo, cui ella aderì senza mai ricevere il battesimo, fu un Cristianesimo fuori dai sacramenti, in cui mantenne sempre un piede oltre il liminare della Chiesa cattolica, nel senso più libero e più puro in cui si possa abbracciare una fede.
Esso le apparve sempre come la religione degli ultimi, degli schiavi, e la Weil non poteva non aderirvi proprio in nome di questa intima vicinanza e consonanza.
A questa fede lei aderì nella totale incondizionatezza dello spirito, conducendo quest’adesione sino alla macerazione dell’anima e del corpo e all’adottare una serie di pratiche addirittura autopunitive.
È noto che la Weil praticò spesso il digiuno, negli anni della guerra di cui non vide la fine (morirà a soli 34 anni in Gran Bretagna il 24 agosto 1943), per sentimento di vicinanza e intimità con i suoi compatrioti oppressi, riducendo volutamente il cibo che assumeva ai limiti imposti dalla tessera del razionamento. Negli inverni più rigidi, rinunciava a indossare le calze, fino a farsi venire le gambe blu, per solidarietà verso le donne che non se le potevano permettere. La “miserabile carne” cui accenna in vari punti di questo libro andava in qualche modo castigata, con la purezza e la follia della mortificazione di sé, della flagellazione del “moi haissable” di Pascal.
Traluce in ogni riga il trasporto per gli ultimi, per i vinti, quello stesso trasporto che la condusse a sperimentare personalmente la condizione operaia nelle officine della Renault o a partire in aiuto dei repubblicani nella Guerra Civile Spagnola, con slancio eroico pareggiato solo dalla totale inadeguatezza al vivere pratico, come nella commovente goffaggine dell’aneddoto di lei che mette il piede in una pentola di olio bollente.
Pacifista, comprese che tuttavia che anche il pacifismo a oltranza può fare il gioco del nemico e che esso impone delle deroghe, che lo stare semplicemente a guardare dal balcone gli eventi che laceravano l’Europa e che già erano l’anticamera del secondo conflitto mondiale non era più accettabile.
Singolari pagine la Weil dedica qui al disprezzo che gli uomini nutrono verso la sventura, sentita alla stregua di un crimine e di una colpa, e a come questo disprezzo si traduca qui anche nella nozione di pena, nel castigo inflitto dalla giustizia umana. Con il pretesto di disprezzare il criminale gli uomini finiscono col disprezzare in realtà la sua sventura e proseguono quel processo di disumanizzazione che già avviene nell’iter penale del processo e della condanna. Il castigo delle passioni passa, in ultimo, attraverso Dio, e le situazioni più marginali, le condizioni degli umiliati e offesi come i mendicanti o le prostitute hanno il colore stesso dell’Inferno.
Viene da ricordare il potente episodio della sua breve vita in cui Simone, arrestata nel 1942 a Marsiglia per attività contro il regime filonazista di Pétain, venne minacciata dal giudice di essere gettata in cella con delle prostitute. Simone, impavida, ribadisce che sarebbe per lei un onore di essere incarcerata con loro e di condividerne i patimenti, risposta che sconcerta l’ottuso magistrato, mero esecutore della legge umana, che credendo di trovarsi di fronte a una folle la rimette in libertà.
Ripensando alle fonti della nostra sapienza occidentale, Platone (e di platonismo è imbevuta tutta la sua opera, proiettata verso il mondo puro delle essenze) le appare come un mistico e la tradizione greca, al pari di quella egizia, non le appare in conflitto con la cristianità, di cui anzi costituisce per certi aspetti il prodromo. Dioniso e Osiride sono per la Weil in qualche misura il Cristo stesso: nella lacerazione delle membra della divinità greca come di quella egizia già è anticipato il patimento del Cristo, il cammino straziato della Via Crucis.
Temi gnostico-manichei, così ben messi in luce da Augusto Del Noce e dalla sua maggiore biografa, Simone Pétrement, affiorano attraverso queste pagine, in cui l’idea della Creazione, dispiegata attraverso la totalità dello spazio e del tempo, è costituita da materia meccanica bruta (la Weil parla di docilità e passività della materia), interposta tra Cristo e il Padre. L’Eone celeste mantiene una scintilla di luce nell’essere umano, che seguita tuttavia a essere impregnato di tutta la sua imperfezione, della maculazione della materia.
La sublime neoplatonica Simone è tutta protesa verso l’atemporalità delle idee e delle essenze e, in nome proprio di questo platonismo riannodato all’humus cristiano, rivendicò altrove il primato della contemplazione e del soprannaturale, conferimento di senso a un mondo che sarebbe, appunto, materia bruta, contro il primato dell’azione e della prassi sostenuto da Marx. Esattamente come l’altro grande spirito evocato all’inizio e da Simone mai conosciuto, Albert Camus, la pensatrice francese accomunò in un’unica condanna i due grandi totalitarismi del Novecento, il nazifascismo e il comunismo, deuteragonisti apparenti affratellarti in realtà dallo stesso culto della materia.
In un meraviglioso scritto pubblicato nell’ aprile 1937 nei Nouveaux Cahiers, Non ricominciamo la guerra di Troia, Simone giudicò sindrome di una carenza intellettuale la schematica opposizione tra comunismo e fascismo, da lei ritenute concezioni politiche e sociali pressoché identiche e intercambiabili nei fini ultimi.
“In entrambe troviamo il predominio dello Stato su quasi tutte le forme di vita individuale e sociale; un’estesa militarizzazione, lo stesso consenso ottenuto in modo artificiale, forzoso, a vantaggio di un’unica parte che si confonde e si identifica con lo Stato; lo stesso regime di servitù imposto dallo Stato alle masse di lavoratori al posto del classico regime salariale. Non ci sono due nazioni con una struttura più simile di quelle di Germania e Russia, che si minacciano a vicenda con una crociata internazionale e fingono ognuna di prendere l’altra per la Bestia dell’Apocalisse. Per questo si può affermare senza timore che l’opposizione tra fascismo e comunismo non ha alcun senso. La vittoria del fascismo coincide con l’annientamento dei comunisti così come la vittoria del comunismo coincide con l’annientamento dei fascisti. Date queste premesse va da sé che anche antifascismo e anticomunismo non hanno alcun senso”.
La Weil contempla il corso contingente dei sistemi politici e degli accadimenti umani sub specie aeternitatis. La sua integrità senza compromessi e il suo radicalismo splendido, il radicalismo dei puri e degli incorrotti, si rispecchia meravigliosamente nella sua opera come nella parabola meteorica della sua vita.
Alessio Magaddino