Giorgio Vallortigara è un accademico di lungo corso e di prestigio internazionale. Già direttore del Centre for Mind-Brain Sciences dell’Università di Trento, oggi vi insegna neuroscienze, dividendo tempo addietro questa attività con la presenza presso la School of of Biological, Biomedical and Molecular Sciences dell’università del New England (Australia) ed è inoltre Fellow della Royal Society of Biology.

È tra i pochi scienziati europei ad avere ottenuto per due volte il prestigioso erc Advanced Grant e, se non bastasse, è stato insignito del premio internazionale Geoffroy Saint Hilaire per l’etologia e d’una laurea ad honorem dall’Università della Ruhr. Tutto questo meritato soprattutto per gli oltre trecento articoli, apparsi su molteplici e prestigiose riviste specialistiche di mezzo mondo occidentale.

La sua notorietà in Italia fuori dall’àmbito accademico la si deve in particolare a due libri di buon successo e dai titoli sapientemente creati dall’Adelphi: Il pulcino di Kant e Pensieri della mosca con la testa storta, opere alquanto significative non solo per le ricerche nel vasto e combattuto campo della coscienza, ma perché dimostrano la sua capacità di Vallortigara di uscire dal dominio specialistico e di spiegare ai non addetti ai lavori i resultati di studi lunghi e complessi.

Lo scrivente, tuttavia, è stato mosso all’intenzione di intervistare Vallortigara non per il suo curriculum poderoso e internazionale, che ignoravo da cima a fondo, ma per la tesi innatista del Pulcino di Kant, una sorta di ”apriorismo naturalistico” che potrebbe dimostrare, direi per l’ennesima volta, quanto la filosofia veda in anticipo ciò che la scienza, influenzata o meno da essa, solo parecchi decenni o addirittura secoli dopo riesce a dimostrare. Ed è anche su questa posizione che il dialogo, avviato con un vento in poppa fresco e pacifico, quasi subito si è tramutato in una tempesta che ha costretto il professore e l’intervistatore a rimpallarsi la bozza per ben quattordici volte, sino a quando, ambedue esausti ma molto divertiti (credo di poter parlare anche a nome del docente) abbiamo deciso di mettere il punto e di mandare il dialogo al suo destino. La turbolenza atmosferica non ha tuttavia sottratto uno iota ai contenuti, i quali anzi sono emersi in maniera ancor più perspicua. Buona lettura e soprattutto: mettetevi comodi e allacciate le cinture. (Luca Bistolfi)

Immagino che Il pulcino di Kant sia un titolo redazionale, ossia imposto dall’editore; infatti nel suo libro compare solto due volte il nome del filosofo. Immagino però anche, che se lei ha accettato di mandare nel mondo il suo libro con questo titolo ci sia una ragione fondata. O mi sbaglio?

Abbiamo discusso e lavorato assieme con l’editore, come sempre. Il titolo dell’originale americano del libro era Born Knowing (mit Press), e io avevo pubblicato anni prima un libro con Vittorio Girotto e Telmo Pievani in cui c’era già in uso un «nati» (Nati per credere, Codice Edizioni). Abbiamo considerato qualche variazione sul tema «statu nascenti», ma poi ci è venuto in mente che era il nome di una famosa teoria del sociologo Alberoni. Così alla fine abbiamo scelto Il pulcino di Kant. Il filosofo è menzionato esplicitamente all’inizio, quando si parla dell’affermazione di Lorenz che «l’apriori kantiano è un a posteriori filogenetico» e alla fine, quando è il momento di trarre le fila di un lungo discorso: riassumendo, la tesi del libro, assai kantiana, è che affinché l’apprendimento sia possibile ci devono essere delle strutture innate della mente.

Anche se, come abbiamo detto, nel Pulcino di Kant, quest’ultimo è assente, è evidente che lei sostenga una sorta di innatismo fondamentale, tanto negli animali quanto negli esseri umani. Insomma, Kant ha torto o ragione?

Non c’è bisogno di menzionare troppo spesso uno studioso perché permei di sé un libro o un’idea. Io sono pervicacemente e ostinatamente innatista, certo. So che in questi tempi di accentuazione retorica della «plasticità del cervello» questa posizione non gode di buona stampa, anche se è molto ben rappresentata nella scienza, ad esempio in questo paese dal mio grande amico linguista e neurolinguista Andrea Moro, e negli Stati Uniti da Iris Berent, altra grande amica e insigne scienziata cognitiva.

A proposito di filosofia, secondo William James bisognerebbe disfarsi della parola «coscienza». Cito: «Intendo solo negare che la parola indichi un’entità, mentre affermo invece nel modo più deciso che essa indica una funzione (…). Non esiste alcuna materia originaria o qualità dell’essere di cui sono fatti i nostri pensieri diversa da quella di cui sono fatti gli oggetti materiali o i nostri pensieri su di essi; e che invece c’è una funzione che i pensieri svolgono nell’esperienza, per lo svolgimento della quale si invoca questa qualità dell’essere. Tale funzione è quella del conoscere» (Saggi sull’empirismo radicale, Mimesis). Commenti a piacere, prego.

Ho detto la mia sulla coscienza in un altro libro Pensieri della mosca con la testa storta, che uscirà tra breve anche in inglese (da Routledge, London, con il titolo “The Origins of Consciousness”). Riassunto molto in breve, come le dicevo prima, credo che la coscienza sia una specie di attività motoria.

I suoi esperimenti sugli animali le hanno dato riscontri circa l’inconscio? Insomma, esiste un inconscio in queste creature?

La gran parte dei processi mentali sono inconsci. Ogni giorno noi agiamo in larga misura con il pilota automatico. Accade anche per attività che consideriamo assai sofisticate, come fare dell’aritmetica o condurre delle inferenze logiche. Il problema è quindi capire come mai negli animali – che siano esseri umani o d’altra specie – accade a volte, ma non sempre, che le funzioni cognitive siano accompagnate da un’esperienza cosciente, dal fatto di sentire qualcosa.

Vale davvero la pena sacrificare – ossia uccidere, questo è il verbo giusto – animali, ossia creature senzienti, per aumentare di qualche metro lo spettro delle nostre informazioni?

La storia della scienza ci insegna che la ricerca fondamentale nelle scienze biomediche ci ha fruttato enormi conoscenze e benefici. Le neuroscienze non esisterebbero senza la ricerca sui modelli animali: non puoi capire il comportamento e le funzioni cerebrali senza studiare l’organismo come un sistema intero e integrato. Stimo che più del novanta per cento di ciò che sappiamo del sistema nervoso lo sappiamo grazie alla sperimentazione animale. Il nostro rapporto con gli altri animali ovviamente non si pone in termini di bianco e nero, ma di sfumature di grigio: degli animali ci nutriamo e li alleviamo, li curiamo e li sfruttiamo, li amiamo e li usiamo. Quale che sia la posizione di ciascuno di noi su quali creature siano senzienti, l’atteggiamento degli scienziati e della legislatura che regola in modi assai severi la sperimentazione animale è in ogni caso improntato a un principio di prudenza: tutte le sperimentazioni e le osservazioni vengono condotte minimizzando ogni possibilità di sofferenza, fisica o psichica, degli animali.

“Minimizzare” non significa eliminare o non causare, ciò che sarebbe preferibile. Mi pare che a essere minimizzato qui sia più tosto il fatto che gli animali soffrano.

L’obiettivo è certamente eliminare e non causare sofferenza. Ma viviamo in un mondo imperfetto in cui tutti dobbiamo cercare di fare del nostro meglio, lasciando ai talebani delle diverse specie le affermazioni assolutistiche e i paradisi ideali. Immagino che anche lei si gratti l’epidermide quando sente prurito e che qualche volta abbia fatto uso di un lassativo, ma che non si sia sentito per questo di aver commesso un genocidio. Eppure…

Capisco stare sulla difensiva e anche un po’ contrattaccare, ma converrà che prendere un lassativo o grattarsi un braccio sia un po’ diverso da impiantare marchingegni nel cervello o asportare pezzi dell’encefalo. Lei se lo farebbe fare in nome della scienza?    

Dipende dall’obiettivo. Certo che mi farei impiantare marchingegni se questo aumentasse le mie capacità intellettive o la mia memoria. Perché no? Ma ovviamente il punto è più generale: mi convinca, suvvia, rinunci agli anestetici tutte le volte che andrà dal dentista…

Ahia, professore. Giochiamo corretto: lei sa benissimo che gli animali non sono nei vostri laboratori per farsi curare una carie. Gli animali sono lì a vantaggio (così si dice) della specie umana, non di loro volontà e con sofferenze “minime”, come dice lei, ma pur sempre sofferenze, che talora non portano ad alcunché. Quanto poi a farsi impiantare ordigni nel cervello, si accomodi. Elon Musk sarà felice di averla tra i primi italiani a sottoporsi a questa nuova forma di eugenetica. Yuval Noah Harari sarebbe il suo interlocutore privilegiato. Eppoi, scusi: non le suscita un brivido di repugnanza che un miliardario, peraltro non l’unico, intervenga così massicciamente nella vita delle persone, con l’avallo della politica? Chi glielo ha chiesto? La scienza? Ma la scienza non è la comunità o la società.

Si sbaglia, sono nei nostri laboratori per consentirci di scoprire fondamentali leggi della natura, che avvantaggiano anche loro (medicina veterinaria) oltre che noi. Gli ordigni, poi, sono impiantati nei cervelli già da un sacco d’anni, e quella di Musk è solo fuffa. Non è fuffa invece quello che si fa per i pazienti epilettici o malati di Parkinson che, appunto, ricevono da anni tali ordigni nei loro cervelli.

Parlando della coscienza, lei non fa mai riferimenti a emozioni e sentimenti, i quali tuttavia, secondo Antonio Damasio (vedi ad esempio L’errore di Cartesio e Lo strano ordine delle cose, Adelphi) rivestirebbero enorme importanza anche per la creazione del cervello sociale, di cui lei pur parla. Non credo sia una casualità. Giusto?

La ragione è che nella distinzione tra sensazione e percezione – che prendo da Thomas Reid – è insita l’idea del carattere edonico della sensazione, la sua valenza, che corrisponde a quel che menziona lei, emozioni e sentimenti, la quale però deriva dall’origine motoria della sensazione: gli stimoli che giungono sulla superficie dell’organismo sono per l’organismo piacevoli, spiacevoli o indifferenti ed esso reagisce con una risposta corporea adeguata. Proprio quella risposta corporea, riformulata in una copia efferente, secondo me, è ciò che chiamiamo esperienza cosciente.

Ho vieppiù l’impressione che la così detta scienza, come la intendiamo oggidì e da circa due secoli, sia di fatto e in gran parte soltanto quella porzione di conoscenza immediatamente utile allo sviluppo economico e non certo ambizione alla conoscenza tout court. Non è un’idea originale, lo so: a meno che non consideriamo che essa, benché nota più o meno a tutti, è largamente sottaciuta oppure del tutto ignorata. Non crede anche lei che conoscere il mondo sia passato in secondo piano a petto della utilità pratica ed economica dei resultati scientifici?

Non credo sia così. Certamente non è così nell’accademia, che è l’ambiente che conosco meglio. Tutti gli scienziati che ho incontrato – giovani o anziani che fossero – mi sono parsi mossi nel loro agire, come me del resto, dalla curiosità e dalla sete di conoscenza, non dalle possibili ricadute economiche delle loro ricerche.

Quindi, secondo lei, la scienza non è nemmeno influenzata da pregiudizi ideologici, politici o di fede?

La scienza non lo è per nulla: la scienza è un metodo ed è auto-correttiva nel suo divenire. Gli scienziati, invece, sono esseri umani e nulla di ciò che è umano è loro estraneo, inclusi i pregiudizi o l’ambizione.

Mi permetta di dissentire sia sulle dinamiche del trattamento animale, sia sull’esenzione delle scienze da condizionamenti. Ho tanto l’impressione che le scienze così dette esatte siano animate da una volontà di potenza e di appropriazione; che seguano il paradigma pratico per cui dobbiamo stare per forza bene e, per farlo, è necessario anzi obbligatorio vivere secondo parametri scientifici che poi sono di una “certa” scienza, non “della” scienza, che peraltro non esiste (altrimenti siamo nella metafisica platonica). Inoltre la scienza ignora – tra le altre cose – la lezione di Paul Feyerabend, per cui, in estrema sintesi, gli individui possono condurre la loro vita come meglio aggradi loro, e che niente e nessuno ha mai stabilito se non con un atto di autorità, che debba essere la così detta scienza a stabilire le regole, private e pubbliche, di condotta. Ci sono molti modi di vivere e quello edificato sul paradigma scientifico è uno dei tanti, e peraltro non è detto che sia il migliore.

Ma infatti la scienza è descrittiva, non prescrittiva. Noi cerchiamo di descrivere il mondo (e di questo mondo fanno parte il sistema nervoso e i suoi prodotti, le funzioni mentali). Quello che le persone fanno – e quel che fanno o vogliono eventualmente fare delle conoscenze scientifiche – è affar loro. Questa faccenda della presunta «volontà di potenza e di appropriazione» davvero non la capisco. O fai lo scienziato o fai il missionario, il capopopolo, l’ideologo… Tutti i mestieri e i tipi di gioco sono accettabili e commendevoli per quel che mi riguarda, quello della scienza si basa su regole che lo distinguono però nettamente dalle prediche del vescovo dal pulpito o dalla relazione di un segretario di partito. Tutto qui.

A me (e non solo a me) la scienza pare prescrittiva eccome, come tutta la tecnica. Dirò di più: in moltissimi casi è persino autoritaria. Se non bastassero due anni e mezzo di pandemia, in cui la scienza ha imposto determinate misure (prescindiamo dalla loro efficacia e dalle analisi scientifiche alternative), c’è tutta una serie di regole e scelte inderogabili per il cittadino che costellano la storia. Più di uno psichiatra, ad esempio, mi ha detto di avere in un’enormità di frangenti più potere di un militare: basta una sua parola e ti becchi il trattamento sanitario obbligatorio, che non mi pare, appunto, “descrittivo”. Quale spazio c’è per il dibattito sulle teorie alternative, ad esempio ipotesi di cura? I finanziamenti vanno in una certa direzione, seguono paradigmi precisi, i quali non sono affatto neutri, ma fondativi e ineludibili. E anche fuori della scienza medica gli esempi si sprecherebbero, senza contare i toni profetici e categorici di certi scienziati.

Quanto a Feyerabend, vorrei che lei non lo ignorasse come ahimè hanno fatto in troppi, purtroppo anche tra i filosofi. Egli pone, tra gli altri, una questione ineludibile, che è quella del metodo.

Lei è in errore. Gli scienziati non prescrivono le misure sanitarie, si tratta di una prerogativa dei nostri rappresentanti politici, nello specifico della maggioranza di governo. Inoltre, la scienza e la tecnica sono cose diverse. E la medicina, com’è noto, è un’arte non una scienza, un’arte che si basa su una varietà di scienze che si chiamano anatomia, fisiologia, patologia etc etc. Gli argomenti del tipo «più di uno psichiatra» o simili confondono le responsabilità individuali con la natura del metodo scientifico. Io non ignoro Feyerand o chiunque altro abbia cose da dire, però le ricordo che da molto tempo noi scienziati ci siamo liberati del principio di autorità, a me non importa chi l’abbia detto, bensì se quel che si afferma abbia contenuto fattuale (e regga logicamente) e sia confutabile empiricamente. Non mi risulta che Feyerabend abbia messo in dubbio i fondamenti del metodo scientifico.

È vero: sono i politici a compiere le scelte, ma su tassative indicazioni scientifiche. Ripeto: se ci fossero stati dubbi, due anni e mezzo di pandemia li hanno spazzati via tutti. Ma poniamo pure che quanto lei sostiene sia vero, resta però che la prescrittività esiste almeno per gli operatori: esistono protocolli e regole da cui non si può derogare e tenuti per sacri. Che poi la medicina sia un’arte, sono d’accordo. Peccato solo che spesse volte rassomigli più all’arte astratta che non a un Rembrandt.

No, noi descriviamo com’è il mondo, come debbano andare le cose nel mondo lo decidono i cittadini, sulla base, anche, delle informazioni che fornisce la scienza.

Proprio non le riesce di ammettere che noi cittadini non decidiamo un fico secco. Quando e come ciò avverrebbe? Non mi pare che durante quella maledetta pandemia abbiamo avuta molta scelta. Eppoi lei crede davvero che se l’Oms o anche soltanto l’Istituto superiore della sanità avessero accolto il virus in maniera più blanda, la politica avrebbe impresso un’impronta così dura e netta sulle decisioni pubbliche?

Quanto alle informazioni, sarei molto cauto. La scienza fornisce informazioni di due tipi in generale: o divulgative oppure altamente specializzate. Nel primo caso esse sono insufficienti per decidere, nel secondo inarrivabili per la stragrande maggioranza delle persone. Quando leggi un così detto “consenso informato” puoi avere anche dieci lauree e dieci master, ma se non hai solide nozioni di medicina, firmi per fiducia e ti attacchi al tram se lì dentro c’è qualcosa che va a tuo danno. E ciò avviene anche per un semplice referto medico oppure per una diagnosi informatica. La scienza ha sempre un linguaggio esoterico, che non mi pare sia stato inventato in buona fede.  Quindi qui non si decide un bel niente. Ci si affida, se si vuole, e basta. E ciò senza tener in conto un altro aspetto: che la scienza, davanti a scelte differenti da quelle “proposte” da lei, si rivolta.

Pensavo di essere intervistato come scienziato, non come privato cittadino. Io non credo di usare un linguaggio esoterico, e lo stesso credo valga per tutti i miei colleghi. Cerco di spiegare, per chi vuole ascoltare. Altri usano un linguaggio esoterico, non gli scienziati.

Circa il condizionamento economico, le vorrei portare qualche rapido dato che lei potrà commentare liberamente. Di recente, l’interessante libro Ricchi e buoni? di Nicoletta Dentico (Emi), una ricercatrice serissima e aliena da ogni “complottismo”, ha ampiamente dimostrato che di fatto l’Oms è di proprietà privata, nella fattispecie di Bill Gates, il quale se ne è impossessato, riferisco alla breve, attraverso la beneficenza. I documenti parlano chiaro. Qualche anno fa un medico di lunga esperienza, parlando davanti a una vasta platea di studenti universitari e ricercatori, ha chiesto se coloro sapessero davvero per chi e per cosa svolgessero le loro ricerche, se davvero per il bene pubblico o solo per qualche lobby privata non certo filantropica. Anni fa, durante una conferenza pubblica presso uno dei più importanti laboratori mondiali di ricerca, uno scienziato interno all’istituto, dichiarò in tutta serenità che lui e i suoi colleghi gettavano letteralmente nella spazzatura interi terabyte di dati, taluni anche sorprendenti se non di più. Un ascoltatore intervenne per chiedergli conto di quella dichiarazione, assai impegnativa: lo scienziato rispose con altrettanta tranquillità: «Noi facciamo ricerca sulla base delle richieste, quasi sempre private, di chi ci finanzia. Quindi non possiamo perdere tempo a registrare e lavorare su dati non interessanti per costoro».

Debbo ripetermi: tutto questo attiene alla responsabilità personale. Il fatto che un singolo ricercatore si comporti da malandrino non tocca il punto: il metodo della scienza. In generale, poi, io non sono molto interessato ai pettegolezzi, se non per il fatto che sono un aspetto interessante, dal punto di vista della biologia del comportamento, della natura umana.

In verità qui non si tratta di un singolo ricercatore, che in ogni caso sarebbe da ascoltare perché parlava in veste ufficiale, ma di un intero istituto di ricerca (senza contare altre realtà). Io poi non definirei «pettegolezzi» i documenti ad esempio portati da Nicoletta Dentico sull’Oms o quelli che chiunque può reperire – su siti ufficiali e affidabili, beninteso – o nella letteratura critica. Suvvia: non è più possibile negare che la scienza è grandemente condizionata tanto da paradigmi rivedibili, quanto dalla sua funzione ed efficienza economica giudicata tale dai privati.

Bene, mi fa piacere confermarle che siamo in disaccordo. Il metodo della scienza è immune dai fenomeni che lei menziona. Per questo è diversa dai predicozzi ideologici.

È la prima volta (da dopo l’adolescenza) che mi accusano di fare «predicozzi ideologici», soprattutto quando adduco qualche carta cantante. Tuttavia concordo con lei su un punto: fa piacere anche a me confermarle che siamo in disaccordo. Ora passiamo ad altro.

La vita è piena di sorprese.

Una premessa: i critici intelligenti della tecnica, parola sotto cui ricadono necessariamente anche le “scienze dure”, non predicano un ritorno a nutrirci di radici estratte dal terreno con le nude mani, né il luddismo. L’uomo è infatti anche tecnica. Ma quando essa diventa abitazione esclusiva dell’uomo, un’abitazione coartata, prigione, non è più al servizio dell’uomo, ma il contrario. Detto questo, La invito a commentare il brano che segue. Perdoni la lunghezza della citazione, ma è necessaria. «Rientra in ciò che è degno di essere pensato il semplice stato di cose (…). Lo nominiamo dicendo: l’essere viene esperito come fondamento. Il fondamento viene inteso come ratio, come conto che va reso.

«Di conseguenza, l’uomo è l’animal rationale, l’animale che esige il conto e che rende conto. In base a questa definizione l’uomo è l’animale calcolante, intendo qui il “calcolare” nel senso ampio che la parola ratio – in origine un termine del linguaggio mercantile romano – assume già in Cicerone al tempo in cui il pensiero greco viene trasposto nel modo di pensare dei Romani

«L’essere viene esperito come fondamento. Il fondamento viene inteso come ratio, ragione, conto. L’uomo è l’animale calcolante. Tutto ciò vale in modo unanime, pur nelle variazioni più diverse, lungo l’intera storia del pensiero occidentale. Questo pensiero, in quanto pensiero europeo-moderno, ha condotto il mondo all’odierna età del mondo, l’era atomica. Al cospetto di questo stato di cose, semplice ma al contempo inquietante per l’Europa, domandiamo: La suddetta determinazione, secondo la quale l’uomo è l’animal rationale, esaurisce l’essenza dell’uomo? “Essere significa fondamento”: è questa l’ultima parola che può essere detta dell’essere? O forse l’essenza dell’uomo, la sua appartenenza all’essere, la stessa essenza dell’essere, rimangono sempre, e in modo sempre più sconcertante, ciò che è degno di essere pensato? Se le cose dovessero stare così, potremmo mai abbandonare ciò che degno di essere pensato in favore della furia del pensiero esclusivamente calcolante e dei suoi giganteschi successi? O non siamo piuttosto tenuti a cercare cammini per i quali il pensiero sia in grado di corrispondere a ciò che è degno di essere pensato, anziché pensare senza accorgerci di esso, stregati dal pensiero calcolante?

«Questo è il problema. È la questione mondiale del pensiero. A seconda della risposta che ad essa si dà, si decide che ne sarà della terra e dell’esistenza dell’uomo su questa terra».

Avrà capito che si tratta di Martin Heidegger. È la chiusa della conferenza che egli tenne, a Brema e Vienna, nel 1956 (ora ne Il principio di ragione, Adelphi). Mi pare che la implicita profezia non solo si sia avverata, ma si stia vieppiù avverando, anche oltre l’immaginabile.

I miei amici filosofi mi hanno spiegato che ci sono due ambiti, chiamiamoli così dell’odierna speculazione filosofica, quella continentale e quella analitica. Temo di non essere interessato alla prima. Con buona pace di Heidegger, sono calcolanti tutte le creature biologiche, perché l’attività del “pensiero” è un insieme di computazioni condotte da substrati biologici. Che altro potrebbe essere?

Spero la sua non sia una domanda retorica, perché ho tutta l’intenzione di replicare, non dimenticandomi di ringraziarla per aver provvisoriamente ribaltato i nostri attuali ruoli. Tuttavia se dovessi rispondere compiutamente, lei ed io staremmo qui troppo a lungo. In sintesi tuttavia le posso dire che il pensiero può e deve essere anche – sottolineo l’avverbio – pensiero disinteressato, libero di determinare il pensante senza calcolare, appunto, convenzioni, imposizioni, strutture pregresse, etcoetera. Pensare significa “essere qui” cercando sé stessi. Una poesia è calcolata nella sua forma: grammatica, metrica, eleganza. Ma i suoi contenuti, che sono contenuti del pensiero e secondo me di un pensiero ancora più profondo, non possono né devono essere calcolati: altrimenti da poesia diventa ragioneria. Chi contesta la tecnica lato sensu non nega l’aspetto funzionale del pensiero che dà vita e forma alla tecnica: contesta, tra l’altro, che si possa esaurire il pensiero nella forma che alla sua volta diventa essenza del pensante.

La sua è una versione strana di calcolabilità. In che modo pensa siano rappresentati i “contenuti” nel suo sistema nervoso se non nei termini di quantità calcolabili? Vale per tutti i processi mentali, in realtà vale per tutti i processi della vita.

Mi permetto di correggerla: la mia versione non è strana: è molto strana. Direi persino incomprensibile. Ma solo se ci si attenga a parametri positivistici e addirittura scientisti. Che qualcosa sia calcolabile non significa che sia solo calcolabile o, peggio, debba essere solo calcolabile. La calcolabilità (che mi piacerebbe scrivere “calco-labilità”, ovvero: tendenza al dissolversi dell’impronta epistemica) è, a un dipresso, ciò che ho tentato di esporre poco fa. Ma ripeto: iniziare questo discorso ci costringerebbe a stare qui troppo tempo.

Sono d’accordo. Dissentiamo cordialmente, senza perdere altro tempo.

Poco fa lei ha accennato ad analitici e continentali. La ritengo una categoria vieta, che ha per lungo tempo e in maniera tassativa dominato il discorso filosofico. Se proprio dobbiamo adoperare categorie, io preferisco quella, abbastanza universale e valida, tra filosofi fecondi e sterili. Inoltre una delle più forti critiche ai parametri scientifici contemporanei viene proprio dalla filosofia così detta analitica. Inoltre non mi sbarazzerei così di Martin Heidegger, qualsiasi cosa ne si possa pensare. Anch’egli pone una questione seria che peraltro, mi pare, abbia anche visto parecchio lontano.

Io non voglio sbarazzarmi di nessuno, s’immagini. Semplicemente, faccio un altro mestiere. E penso che sia una buona idea usare il pensiero calcolante. Sempre meglio del pensiero confuso, no?

Guardi che ad Heidegger hanno anche detto di peggio, che non pensiero confuso (al sottoscritto anche peggio, ma non sono ahimè Heidegger). Ma torniamo seri. Quindi – perdoni la semplificazione necessaria – o si è una specie di androide oppure dei rimbecilliti? Mi sembra una visione, oltreché semplicistica, parecchio tendenziosa. Philip Dick (che immagino lei considererà appunto un cretino) ha trascorsa la vita a chiedersi due cose: che cosa è un essere umano e che cosa si differenzi da un androide. La risposta (che pur necessiterebbe di spiegazioni e integrazioni, ma facciamocela bastare) è in sostanza questa: l’empatia. E qui torniamo a Damasio, per il quale sono proprio emozioni e sentimenti a essere fondativi per l’umanità. Togliamo questi e diventiamo dei mostri. Però debbo confessare che negli ultimi anni, e a prescindere dalle innovazioni e minacce tecnologiche, mi pare che la tendenza sia esattamente questa. Ma molti non se ne accorgono perché, appunto, hanno perduto il senso dell’altro e di sé quale essere senziente, nel senso che prova qualcosa, lo comunica, ci lavora, vi abita, lo trasforma, lo nasconde.

Emozioni e sentimenti sono fondativi per la gran parte degli organismi biologici, e in particolare per quelli che hanno una vita di relazione. Mi piace molto leggere Dick. Circa la differenza tra un essere umano e un androide tutto dipende da quale (ipotetico) androide stiamo considerando. Gli organismi biologici sono macchine, macchine di un tipo particolare. Quindi qual è il punto qui? Dobbiamo capire bene come funzionano gli organismi (esseri umani inclusi) se vogliamo riprodurli.

Quanto lontano può arrivare la scienza, teorica e sperimentale, senza il sostegno della filosofia?

Non vedo una distinzione netta. A me pare che il mio lavoro e quello dei miei colleghi sia proprio quello di rimetter mano, con i metodi delle scienze naturali, ai vecchi e un poco incancreniti problemi della tradizione filosofica. Dibattiti come quello tra innato e appreso possiamo riconsegnarli alla riflessione filosofica con degli elementi di novità. Roberto Calasso diceva che gli scienziati sono i filosofi nel mondo d’oggi.

Non credo che i metodi filosofici siano incancreniti, almeno non tutti. Mi pare anzi che qualche filosofo abbia anticipato, e di parecchio, scoperte scientifiche novecentesche e addirittura odierne. Il “suo” Immanuel Kant ad esempio, oppure Spinoza, come dimostra Antonio Damasio. Per non parlare di Giordano Bruno. Proprio di recente è uscito un libro sul rapporto tra fisica quantistica e filosofia, in cui si vede apertamente che la filosofia, dalla più antica alla più o meno recente, hanno antevisto ciò che soltanto nel Novecento i fisici avrebbero scoperto, nella fattispecie il monismo (Heinrich Päs, L’Uno. L’idea antica che contiene il futuro della fisica, Bollati Boringhieri). D’altra parte mi pare che lei stesso nel Pulcino di Kant sostenga sperimentalmente ciò che qualche filosofo ha già detto due secoli fa.

Infatti non ho usato la parola ‘metodi’, ma ‘problemi’. Riconosco l’origine dei problemi che mi interessano nella tradizione filosofica. Penso però che possano essere risolti con i metodi delle scienze naturali.

Perdoni se insisto, ma non mi pare che la scienza (se poi possiamo parlarne al singolare, cosa comoda ma sbagliatissima) si sia mossa sempre in coerenza con sé stessa e soprattutto con la natura. Feyerabend parlava della scienza, che rispettava moltissimo, addirittura come un «cimitero di errori». E se mi concede la battuta, è meglio avere la cancrena che essere morti.

Non capisco il punto, certo che facciamo errori, questo è il fondamento di qualsiasi processo di apprendimento. La vita è così.

Mi fa piacere l’ammissione. Ma entrambi, come tutti, sappiamo che certi errori si pagano a carissimo prezzo, e ciò senza contare l’atteggiamento degli scienziati, che per il solito hanno i medesimi atteggiamenti dei sacerdoti di un tempo. Non voglio essere irrispettoso e sto parlando sul serio, peraltro non dicendo alcunché di originale. La scienza è oggi la nuova religione. Con in particolare una differenza perspicua: mentre un tempo nel mondo dominavano molteplici religioni, oggi il mondo è dominato da un’unica scienza.

Che posso dirle? Dissento totalmente da ciò che lei dice. La scienza è sapere critico, l’opposto della credenza religiosa.

Teniamo poi conto che ci sono centinaia di scienziati concordi sul fatto che la scienza ha bisogno della filosofia. Ma non solo, la scienza nasce come intuizione e solo dopo trova sviluppo nell’esperimento. Inoltre la parola «scienziato» (e qui ci agganciamo a quanto dicevamo sulla dipendenza sovente ancillare della scienza dal profitto) nasce guarda caso in uno svolto, gli inizi dell’Ottocento, in cui era già ampiamente avviata la rivoluzione industriale; mentre prima essa non esisteva: esisteva invece la parola «scienza», che però accomunava in un’unica attività ciò che dopo l’Illuminismo e la rivoluzione industriale si è separato (a favore della scienza pratica). D’altra parte per secoli essere filosofo significava essere scienziato, e viceversa.

Considero molti filosofi dei colleghi: non mi interesso delle etichette, ma dei problemi.

Allora usi la sua autorevolezza per spiegare a certi suoi colleghi che i filosofi hanno diritto tanto quanto gli scienziati di intervenire ed essere ascoltati. Pare che nel vostro ambiente ci sia un certo sprezzante ostracismo.

Non mi pare proprio: nel campo delle scienze neuro-cognitive i filosofi sono ascoltatissimi. Alcuni di loro di fatto sono dei colleghi per gli scienziati. Nessuno chiede il passaporto o il pedigree nella scienza, contano solo le buone idee, le buone osservazioni, i buoni esperimenti.

Dice di interessarsi ai problemi e non alle etichette, ma non mi pare che lei prima abbia prestato molto ascolto ad Heidegger.

Si inganna, ad esempio ho letto con interesse quel che dice a proposito delle idee dell’etologo von Uexkull, e penso però che l’abbia frainteso. Si può prestare ascolto e decidere che non si è d’accordo.

Anche se ciò viene per lo più taciuto dalla maggioranza degli addetti ai lavori – dagli scienziati, ai divulgatori, ai sostenitori degli uni e degli altri – le scienze così dette esatte sono di fatti il resultato di esperimenti, i quali però alla loro volta confermano o smentiscono intuizioni intellettuali, provengano esse da uno scienziato oppure da chiunque altro, in primis filosofi. Gli esempi sono innumeri. Quindi potrebbe essere falso che la scienza prevalga sotto il riguardo teoretico sulla filosofia: oppure no?

La scienza non è una collezione di fatti, bensì una costruzione teoretica che è sostenuta e può essere confutata dai fatti. Come le dicevo io non sono molto appassionato di etichette. Che m’importa che una persona come, poniamo, Daniel Dennett o Ned Block sia etichettato professionalmente come «filosofo»? Ha delle idee interessanti per i problemi che mi stanno a cuore e tanto mi basta.

Non mi ha affatto stupito non trovare nei suoi libri (almeno in quelli che ho letti) alcun riferimento alla teoria Or-Orch di Roger Penrose e Stuart Hameroff, che certi disinvolti divulgatori hanno definito “la prova scientifica dell’esistenza dell’anima” e altri altrettanto disinvolti scienziati hanno bellamente ignorata. Ma lasciamo stare le banalizzazioni new age e i pregiudizi, e restiamo al fatto nudo e crudo. Lei non ritiene che questa scoperta possa essere utile non tanto a ricomporre il divorzio tra scienza e filosofia (Penrose, matematico e fisico, si definisce platonico), quanto almeno ad aiutare a una visione più sintetica e vasta del problema della coscienza?

Per molti aspetti la fisica dei quanta è ancora misteriosa per i fisici. E indubitabilmente la coscienza è un grande mistero per i neuroscienziati. Non mi sembra una grande idea cercare di spiegare un mistero invocando un altro mistero.

Come è possibile definire «mistero» la teoria Or-Orch. Ammesso che lo sia, qual è la differenza tra questo “mistero”, le Sue scoperte e quelle con cui lei concorda?

Il fatto che si possano condurre esperimenti per confutarla.

È il problema della falsificabilità di Popper. Che però, ahinoi, si è rivelato un metodo molto discutibile e per nulla efficace, almeno non sempre. Quanto alla teoria Or-Orch, è stato tentata una confutazione da parte di Mark Tegmark, matematico e fisico, al quale però Penrose e Hameroff hanno alla loro volta replicato, questa volta senza ricevere controreplica. Io non ho ovviamente gli strumenti per dire chi abbia ragione, da filosofo mi incuriosisce molto solo la questione. Ma una cosa è certa: Penrose e Hameroff da una parte e Tegmark dall’altra a un certo punto hanno dovuto mettere fine alla discussione, magari per riprenderla in futuro. Che ne dice se anche noi chiudiamo qui la nostra? Sarebbe finalmente un punto su cui saremmo d’accordo.

Sono d’accordo.

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