08 Giugno 2022

“Dov’è dunque il dolore?”. Edwin Arnold, il poeta che ha messo in versi il Buddha (e affascinò Gandhi)

Che paradosso: Gandhi fu iniziato alla religione indiana da un inglese. Poco più che ventenne, a Londra, inabissato nei reami della Società teosofica di Madame Blavatsky, Gandhi legge The Song Celestial, la traduzione poetica della Bhagavad Gita, testo cardine dell’Induismo. La lettura, come scrive nella sua autobiografia, lo sconvolge:

“Verso la fine del secondo anno del mio soggiorno in Inghilterra, mi sono imbattuto in due teosofi, fratelli, non sposati. Mi parlarono della Gita. Stavano leggendo la traduzione poetica approntata da Sir Edwin Arnold: mi invitarono a recitarla con loro, in originale. Provai vergogna perché non avevo mai letto prima quel poema divino… Quel libro mi è parso di valore inestimabile, tanto che ora lo considero il testo eccezionale per accedere alla Verità. Mi ha aiutato nei momenti di sconforto. Ho letto quasi tutte le traduzioni in inglese: quella di Sir Edwin Arnold è la migliore”.

Nato nel Kent da un alto magistrato, nel 1832, Edwin Arnold aveva prestato servizio come insegnante a Pune, in India: lo affascinava l’Oriente, il suo sguardo, pieno di abissi, tradisce la tentazione del guru, esasperata dalla lunga barba. Aveva il genio del divulgatore e l’estro lirico, Arnold: ritornato in UK nel 1861, entrò nella redazione del “Daily Telegraph” fino a diventarne caporedattore. Amava le avventure, le città sommerse, le rivelazioni meridiane, i viaggi verso l’ignoto. Dell’inglese aveva la capacità pratica, una cinica sobrietà, il carisma di chi sa soppesare, capire, ingollare ogni cultura. The Song Celestial era stato pubblicato nel 1885, “Per l’Inghilterra; e per la nostra India, che mi è cara quanto lo è un paese natale”.

Per conto del suo giornale, organizzò il viaggio di Henry Morton Stanley in Africa, alle sorgenti del fiume Congo: in cambio, l’esploratore intitolò a Arnold una montagna, presso il Lago Edoardo. Nel 1879, a Londra, aveva stampato l’opera più grande, The Light of Asia or The Great Renunciation, la biografia del principe Siddhartha, che diventò Buddha. “L’esposizione che offro di un pensiero tanto antico è necessariamente incompleta, obbedisce alle leggi dell’arte poetica… Il mio scopo può dirsi raggiunto se sarò riuscito a trasmettere il carattere eletto di quel nobile principe e il senso generale delle sue dottrine”, scrive Edwin Arnold introducendo il volume.

Il poema, suddiviso in otto libri, ebbe un successo clamoroso, testimoniato, tra l’altro, dalle precoci e perpetue traduzioni italiane – nel 1909 per l’editore Bocca in Torino, nel 1926 da Laterza, nel 1928 da Carabba – e dalla confessione, ancora, di Gandhi, il futuro “Mahatma”:

“Mi raccomandarono anche The Light of Asia, dello stesso Sir Edwin Arnold. Lo lessi con interesse. Una volta iniziato, ascendevo tramite i versi, non riuscii a smettere”.

Per anni, The Light of Asia fu la fonte più accessibile, in Occidente, per accedere alla conoscenza del buddismo – e fu libro ‘sacro’ per i teosofi, miniera di dottrine, di estasi metropolitane, proprie di chi cerca l’Oriente nel tinello londinese. Nel 1891 Arnold tentò di mettere in versi la storia di Gesù: gli esiti poetici di The Light of the World (così il titolo dell’opera) sono ritenuti molto più incerti dell’epopea buddista. L’anno prima, in agosto, Walt Whitman aveva inviato un biglietto di felicitazioni al poeta: “è innamorato della gradevole e nuova vita che conduce oggi in Giappone”. La terza moglie di Arnold – le prime due, Katherine e Jennie, lo avevano lasciato vedovo –, in effetti, era giapponese, si chiamava Tama Kurokawa. La ‘fuga’ verso Est aveva portato Edwin Arnold nell’estremo Oriente: naturalmente, scrisse dei libri per descrivere la sua vita nipponica, Seas and Lands (1891) e Japonica (1894); naturalmente, anche quella vita, occasionale, finì, dopo un po’. Arnold restava un giornalista, un poeta, un esploratore, non un mistico. Tra l’altro, era vegetariano: con Gandhi pensò di ideare una società che contribuisse a far mutare i costumi alimentari europei; l’impresa sfinì quasi subito, Gandhi, aveva altro da fare, si trasferì in Sudafrica.

Il figlio, Edwin Lester, prese dal padre il talento narrativo – è ricordato soprattutto per un romanzo di fantascienza, ‘marziano’, Lieut. Gullivar Jones: His Vacation – e la natura vagabonda: ha scritto reportage dalla Scandinavia e dall’India e un libro sulle abitudini degli uccelli britannici. Edwin Arnold morì a Londra, come ogni buon inglese, nel 1904; la moglie usava indossare il kimono camminando nella City, un amico gli sussurrò alcuni versi da The Light of Asia, l’immenso, immaginifico poema dedicato al Buddha; ogni tanto – per curiosità – Edwin andava in chiesa, a St. Paul.

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Da: The Song Celestial

Ti dico: le armi non intaccano la Vita;
la fiamma non la incenerisce, l’acqua non la sommerge,
i venti secchi non la stremano. Impenetrabile,
incontaminata, intatta, illesa, intoccata,
immortale, tutto tocca, stabile, certa,
invisibile, ineffabile, incompresa dalle
parole e dal pensare, per sempre se stessa,
questa è l’Anima! Cosa farai tu, dunque, tu
che soffri quando non dovresti soffrire?
Ma l’uomo che ora è morto
è pari a quello appena nato, che vive,
perché uno stesso Spirito li unisce:
dunque, di che cosa piangi?
Fine del nascere il morire, della morte
la nascita: questo è il ciclo! La nascita
degli esseri viventi è impercettibile, la morte
è impalpabile; soltanto la creatura sente:
dov’è dunque il dolore, caro Principe?

*

Da: The Light of Asia

Dimora serena, vita intrisa d’amore:
al nostro signore il Buddha era sconosciuto il dolore,
la mancanza, e sofferenza, malattia, vecchiaia, morte,
tranne quando dormiva, vagabondo negli oscuri
oceani del sogno: al naufragio sulle coste del giorno
tornava con strane merci, residuo di quel viaggio cupo.
Sul petto di Yasodhara, mani sopra le palpebre
spesse di sonno, piangeva, in piedi: “Mondo, mondo!
Sento! Lo so! Arrivo!”. E lei: “Cosa turba
il mio signore?”, sguardo terrorizzato di sposa.
Orribile a vedersi la pietà:
volto pari a quello di un dio. Musica
oltre le finestre, vento che accorda
nastri d’argento. Il principe Siddhartha
ode il canto dei Deva:

“Siamo le voci del vento errante,
che mormora il riposo, riposo senza fine;
la vita degli uomini è come il vento:
gemito, sospiro, singhiozzo, tempesta, rabbia.

Da dove veniamo non potete saperlo
ignorate dove sorge e dove va la vita;
siamo come voi, spettri insensati,
che piacere ricaviamo dal tuo mutevole dolore?

quale gloria dalla tua immutabile beatitudine?
Nulla: finché l’amore dura, ecco la gioia,
la via della vita è quella del vento, ogni cosa
non è che breve voce su note apparenti.

Figlio di Maya! Vaghiamo lungo la terra
rotta piena di lamenti; non seminiamo
gioia, radici del dolore ovunque
sguardi lacerati dalle lacrime, mani contorte…

Tu devi salvarci, la tua ora è prossima!
Il mondo è triste e lacrima le sue miserie
il mondo è cieco e cade nel giogo del dolore;
sorgi figlio di Maya! Veglia! Non dormire più!

Siamo il canto del vento errante
seguici, o principe, vaga con noi, anela al riposo
lascia l’amore agli amanti, scegli la pietà
abbandona la dimora del dolore, liberati.

Sospiriamo su questi interstizi d’argento,
il nido del sonno: non sai le cose terrene
tutto passa come un flebile gioco
ombre abbaglianti intorno a te”.

*

“Oh Chitra! Tu conosci i regni ulteriori!
Darei un palazzo per stare sulla tua schiena,
per guardare la vera estensione del mondo!
Una carogna eredita un regno più vasto del mio –
Non posso sporgermi più in alto dell’Himalaya
luce che ramifica radici rosa sulle nevi:
perché non ho mai visto né cercato?
Rivelami cosa c’è oltre questi cancelli”.

*

Meditando, si ritirò nella corte
il malinconico Siddhartha, triste a vederlo;
non assaggiò le bianche focacce, ignorò
i frutti del banchetto serale, e mentre
i giocolieri tentavano di incantarlo, ma egli
stava zitto, perla di tristezza conficcata in cuore.
“Il mio signore non ha conforto” gli disse
Yasodhara, irritata dal pianto. “Il dolore
non avrà fine”, rispose lui. “So che
invecchieremo entrambi, Yasodhara!
Privi di amore, deboli, vecchi, sconfitti.
Abbiamo rinchiuso la vita in una mandorla
di labbra, ma il tempo si è intromesso
e ci sottrae passione e grazia. Questo ho scoperto.
E il cuore è cupo di orrore – il cuore pensa
come Amore possa sovrastare il Tempo
che tormenta gli uomini”. E restò insonne, sconsolato.   

Edwin Arnold

Gruppo MAGOG