03 Agosto 2020

“Non ho paura dell’amore o della sua conseguenza di luce”. Joy Harjo, guerriera, poetessa, il primo nativo americano a diventare “Poet Laureate”

Come sempre, compio efferati errori di valutazione. L’anno scorso, era agosto, il “New Yorker” esce con un pezzo firmato da Maya Phillips. Il pezzo s’intitola Joy Harjo, the Poet of American Memory ed è il ritratto dell’attuale “Poet Laureate” degli Stati Uniti. Joy Harjo, appunto. Al di là delle parole di circostanza – “Sento una potente responsabilità nei riguardi di tutte le mie fonti, le mie identità: gli antenati passati e futuri, il mio paese d’origine, le voci, le tribù, la terra, gli inizi e la fine” – contava la ‘notizia’: Joy Harjo, nata a Tulsa, Oklahoma, nel 1951, è il primo poeta nativo americano a ricoprire l’aureo incarico, che fu, tra i tanti, di Robert Lowell e di Robert Frost, di Mark Strand e di Iosif Brodskij, e più recentemente di Charles Simic e di Charles Wright. La carica è biennale, l’alloro poetico può farci sorridere – ci sfugge, forse, che il primo poeta moderno coronato d’alloro fu Petrarca, nel 1341, in Campidoglio, dopo essere stato valutato dal re di Napoli Roberto d’Angiò – ma sancisce una importanza pubblica – ‘magica’, direi – del poeta nella storia. Un po’ come il buffone a corte, il poeta dovrebbe dire l’inatteso, l’inattuale. In ogni caso, la notizia non mi colpì se non a contrario. Pensai: ora risarciscono i nativi così, con il lauro poetico.

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Rewind. Dei nativi americani, per decenni defraudati di identità perfino nel nome – indiani non essendo indiani – sappiamo pressoché nulla. Le testimonianze letterarie, spesso sgargianti, scaturite da una mente pronta all’onirico, sono, per lo più, storiche, antiche, defunte, corrotte. Canti di guerra, invocazioni, preghiere. Oppure, tocca sorseggiare le interpretazioni estatiche degli ispirati dell’ultima ora. Anni fa, mi colpirono le poesie di Lance Henson, poeta cheyenne di lingua inglese, di cui un piccolo editore, La Rosa, aveva pubblicato un libro miracoloso, Traduzioni in un giorno di vento. Leggendo Riti e misteri degli indiani d’America, poderosa raccolta costruita da Enrico Comba per Utet (2001), mi domando come i canti Navajo e Apache – rituali, ripetitivi, dove la parola non è lirica ma atto – siano penetrati nel verso ipnotico di Walt Whitman, nelle immagini panteiste di Ralph Waldo Emerson. “Vengo a prendere il mio nome al posto vero dove sta l’essere soprannaturale…/ Tu sei la ragione del grido hap per colui che è l’unico reale nel mondo…/ Mangiando tutto, ti mangio completamente, vero cannibale”, cantano i Kwakiutl.

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Il caso – la spirale affamata del fato – mi ha portato Joy Harjo in casa. È una poetessa possente, per nulla etnografica o nostalgica, che racconta lo sradicamento, la luce scorticata, presa a morsi, l’esistenza lacera (genitori Creek e Cherokee divorziati; violenze subite dal patrigno e poi dai vari compagni; vita precaria da ragazza madre; studi all’Institute of American Indian Arts di Santa Fe; primo libro, The Last Song, nel 1975). Ho conosciuto Joy Harjo per la generosità di Laura Coltelli che ha tradotto la sua opera in Italia, prima la biografia, Crazy Brave. Guerriera folle di coraggio (Ibis, 2014), poi l’antologia poetica, Un delta nella pelle (Passigli, 2017). Negli avvenimenti consueti, nel torbido americano, accade la fiammata del mondo altro, gli dèi, recisi di lingua, tornano, sui cornicioni delle metropoli, come presenze ineluttabili.

Lei è la donna appesa alla finestra
del 13° piano. Le sue mani si stringono bianche al
cornicione di cemento del caseggiato.
Penzola dalla finestra del 13° piano nella parte est di Chicago,
con un turbinio di uccelli sopra la testa. Potrebbero
essere un’aureola o una tempesta di vetri che aspetta di colpirla.

La biografia è crudele e onirica, radicale e ancestrale: “Un tempo ero così piccola che riuscivo appena a vedere al di sopra del sedile posteriore della Cadillac nera che mio padre aveva comprato con i soldi del petrolio indiano. Ogni giorno lucidava e metteva a punto la sua auto. Io volevo vedere tutto”. Questo è l’incipit. Il poeta è la creatura che vuole vedere tutto, occhio panottico. “La mia nonna sognava storie lunghe come romanzi. Le utilizzava la sera per far andare a letto i bambini. Erano eccitanti e drammatiche”. E poi. “Ogni anima possiede un canto particolare. Persino quel luogo chiamato Tulsa ha una canzone che sorge dal fiume Arkansas verso il tramonto”. Di ogni cosa, raspare il canto – per intuirne la direzione, la zona debole, il demone.

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Alcune poesie sono molto belle: un dio in forma di corvo o coyote, credo, è assiso sotto la tettoia del canone americano (da Fenimore Cooper al Libro Appalachiano dei Morti di Charles Wright). Così inizia Anchorage:

Questa città è fatta di pietra, di sangue, di pesce.
Monti Chugatch a est
a ovest balene e foche.
Non è stato sempre così perché i ghiacciai
che sono fantasmi di ghiaccio creano oceani, intagliano la terra
e qui plasmano questa città, col suono.
Nuotano a ritroso nel tempo.

Questa s’intitola Il luogo dove il musicista divenne un orso.

Penso alla lussureggiante immobilità della fine del mondo, condotta alla sua dimensione
da cantori e tintinnio di gusci di tartaruga nel mattino scuro.

Quando le braci del cerchio sacro risalgono all’altro lato delle stelle…

Le nostre anime imitano le luci nella Via Lattea. Da sempre sappiamo dove andare
per diventare di nuovo noi stessi nella commedia umana…

Non è che le stelle ci abbandonino, siamo noi a dimenticarci di loro, o ricomponiamo il disegno
in un campo di cristallo bianco o di qualche altro fato ingannevole.

Non ci siamo mai illusi d’essere altro che umani.

Per un attimo, vedo passeggiare insieme Whitman e un capo sciamano Sioux, corrono, su stoppie di canto, intendendosi sensualmente con il creato, a fare lo scalpo al sole.

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I ‘poeti laureati’ possono farci sorridere perché il poeta non si arrende all’alloro, se ne aliena. “Non ho paura dell’amore/ o della sua conseguenza di luce”, canta, in Storia della creazione Joy Harjo. “Mi chiedo: cosa ha dato slancio al virus, alla sua volontà di governare il mondo? Quale discendenza del pensiero lo ha motivato? Posso vagare lungo i sentieri del ragionamento fino all’infanzia, e farmi spazio nell’appartamento… poi torno a ciò che è indicibile, ciò che è sotto la paura e la rabbia, superficiali, che squarciano il mio sonno. Nulla mi soddisfa”, ha scritto Joy Harjo in un messaggio pubblico. Tornare all’indicibile mi pare un buon proposito per il poeta, per l’uomo – non ne abbiamo altri. “Le stelle che furono create dalle parole/ ruotano sopra questa casa/ fatta di calcio, di sangue”, scrive. Una poesia è battere alla porta, con dedicata forza. Chi ci aprirà, chi è di là, su quale stanza o distruzione sboccia la porta, chi, senza attenderci, ci spia? (d.b.)

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