“Un amore grandissimo”. L’amicizia tra Eugenio Montale e Sergio Solmi
Letterature
Giovanni Pacchiano
Diversi anni fa, padre Antonio, un frate servita dall’illuminazione docile e scostante, micidiale nell’intuire, mi donò il Salterio corale “nella proposta poetica di David M. Turoldo”. Lo avevano pubblicato le Dehoniane nel 1978; il frate lo sfogliava per trarre la preghiera comune, durante il pasto.
Indurre la bocca al canto, a ruminare versi, prima della masticazione. Dare ai denti nitore di fiammella – apice di prece.
Di Turoldo – confratello di padre Antonio – conoscevo la traduzione dei Salmi e le poesie, naturalmente. Mi pareva, il suo, un dire, al contempo, tenero e spudorato – di una fede fondata sull’abisso. Nel Salterio corale, Turoldo raccoglie la propria personale innografia: oltre ai salmi e ai canti della tradizione, infatti, spiccano le preghiere, scritte di suo pugno. È, insomma, un “libro d’ore”. Diversamente dai libri di poesie che prendono spunto dai testi liturgici – Il libro d’ore di Rilke è forse il testo più noto, di spiazzante sapienza – il Salterio corale di Turoldo si usa per pregare. Il Salterio corale, cioè, non è un libro come gli altri: non si legge – meglio: quello non è il suo scopo primario – ma si recita.
La differenza è la stessa che c’è tra una Pietà appena scorta in una chiesa e una ammirata in un museo. Davanti all’icona di Cristo, qualunque essa sia, in chiesa, ci si inginocchia per pregare; in un museo, ne giudichiamo la forza pittorica, l’eventuale raffinatezza estetica. Nel tempio, l’arte non è il fine, ma il mezzo. Potremmo dire: la bellezza è il miglior viatico verso le altezze. È certamente così. Ma a Dio si arriva anche pregando attorno a un Cristo di modeste fattezze, di imberbe fattura.
In sostanza: la cultura è poca cosa, perché il principio è la spoliazione. Ad esempio, liberarsi dei propri convincimenti estetici, di ciò che sappiamo del bene e del male. Abbandono – mollare gli ormeggi del giudizio – obliare il sé.
Il tema è devastante perché riguarda l’intenzione dell’artista e il luogo in cui si radica l’opera. Un Crocefisso assume un valore diverso – opposto, a tratti – se è appeso in un museo o sospeso sopra un altare (su questo, ha scritto pagine decisive Edgar Wind in Arte e anarchia, stampa Adelphi). Allo stesso modo, un conto è una poesia di Turoldo che leggo sul divano di casa, per il gusto, un conto l’inno di Turoldo usato per recitare Mattutino o Compieta.
Tra cembali e cetre, d’altronde, si spiana la storia della salvezza. Il grande canto di Mosè dopo aver varcato il Mar Rosso, un canto di ira, di tremore e di trionfo, viene “eseguito” da “Maria, la profetessa, sorella di Aronne” e dal suo stretto tiaso, al suono dei “tamburelli” (toph; tamburi o timpani), danzando. Mentre Davide conduce l’Arca a Gerusalemme, danza come un ossesso, invitando al ballo i suoi (“Davide e tutta la casa d’Israele danzavano davanti al Signore con tutte le forze, con canti e con cetre, arpe, tamburelli, sistri cembali”). Parola e corpo vanno all’unisono: salmeggiare significa intonare il corpo alla poesia. Che Mical, la moglie di Davide, ritenga sconcezza l’ebbro ballo del re, seminudo (“Davide danzava con tutte le forze davanti al Signore” 2 Sam 6, 14), identifica, forse, una diversa mansione femminile nel culto originario. Maria, la profetessa, è consacrata al canto; Mical, la moglie del re, lo oltraggia. Entrambe non avranno figli: l’una per scelta l’altra per celeste punizione.
Anche Gesù – nuova Arca, Arca carnale – è accolto con giubilo quando fa ingresso a Gerusalemme. In quel caso, la folla grida Osanna; al posto di suonare i cembali sventola rami di palma. Il Pater, l’antica preghiera, va detta in canto, dacché tutto, nell’evangelo, è incanto.
Nell’introduzione al Saltero corale, Turoldo invita i cristiani alla scrittura e al canto. Gli Inni, in particolare, sono “momento privilegiato del popolo che crea, fantasioso e libero”.
“Questo dovrebbe essere il momento più nostro, tutto il resto è tempo di Dio. per questo la chiesa dovrebbe segnare con il suo canto, con inni e salmodie proprie, ogni sua epoca; e ogni generazione dovrebbe esprimere la sua fede con inni nuovi e salmodie nuove… Cioè: chiesa sostenuta dal canto”.
Questo tipo di creatività è venuta meno. Sfuma la tradizione innografica: segno di un popolo che non prega se non per mute formule. Peggio ancora, la creatività cristiana si risolve nelle “intenzioni”, nella stantia “Preghiera dei fedeli”, spesso inutile, segno di codardia spirituale, per non dire ipocrisia. Fatta salva l’imponderabile onniveggenza dei Testi sacri, se l’opera del canto non procede, il cristianesimo si fa stagno, imputridisce in palude, in parola pia, di pura inutilità. Impoverito di poeti e visionari, del cristianesimo rischia di restare l’inessenziale: il codice ‘morale’, mortale – per quello, meglio confidare nello stoicismo e leggere Seneca.
Chi segue la liturgia, modella il fare in quel dire, sfrangia le ossa a seconda del suono di quei versi, libagione di lame. Fare delle proprie ore “un piccolo poema”, scrive Turoldo, che spiega come l’innografia debba installarsi “in giusta simbiosi di tradizione e di creatività”. Gli inni di Turoldo, in particolare, si costruiscono in stampi sempre uguali; questo è un esempio, dalle preghiere del Venerdì santo:
“Ha le mani aperte sul legno,
è il corpo un grumo di sangue,
sono un urlo di sete le membra:
il suo grido riscuote la terra!
Non lasciamolo solo a patire,
continuiamo in noi la passione:
la giustizia divampi dal cuore
sia lo strazio più forte del mondo!
La giustizia del Regno promesso
a chi arde di sete con lui:
è la sete che incendia i cieli
or coverta la chiesa in roveto.
Nostra sete inesausta, o Cristo,
per noi prega il Padre e lo Spirito:
che ci liberi da ogni ingiustizia
per cantare coi santi all’Amore”.
Sentiamo forse, a tratti, odore di sacrestia, incenso lirico che poco ci confà, confetteria pretesca? È proprio quella la sfida di Turoldo: far rifulgere la poesia al contatto celeste; dare alla giaculatoria intima vigoria di coro. Onorare l’ornato in urlo.
Esiste, in fondo, compito più importante dell’inneggiare, dell’istoriare inni? Parola tratta dal fango che tende all’angelo.
Inno non è per forza innestarsi in devozione – a tratti, ha i ricami dell’ira, il richiamo del sangue, secondo tradizione giuntaci da Qoèlet e Giobbe.
Innografia significa cucire la nostra lingua a Dio. Fare della lingua una macchina cucitrice. Senza inni, il corpo odierno di Dio si scuce, acquazzone di viscere ci costerna, interiora senza interiorità. Divoriamo frattaglie. Il Dio d’oggi non gorgheggia, s’insinua nei gorghi, non feconda, è in fuga.
Necessità di un nuovo salterio; di poeti transfughi dall’io, finalmente inebetiti dal balbettio, inerti, erma del verbo. Questa è la Nona tra le Horae canonicae di Wystan H. Auden:
“Ciò che sappiamo impossibile
benché predetto di tempo in tempo
da selvaggi eremiti, dallo sciamano e dalla sibilla
barbuglianti nei loro sogni,
o rivelato a un bambino in qualche rima casuale
come volere e uccidere, sta per passare
prima che ce ne rendiamo conto. Siamo stupiti
dalla disinvoltura e dalla rapidità del nostro atto
e a disagio: sono soltanto le tre,
è metà pomeriggio, eppure il sangue
del nostro sacrificio è già asciutto
sull’erba; non siamo preparati
al silenzio così improvviso e così sùbito;
il giorno è troppo caldo, troppo splendente, troppo tranquillo
troppo sempre, il morto rimane troppo niente.
Cosa faremo fino a notte?”
Cosa rende una poesia, preghiera? Ogni smanacciare del verbo non è forse preghiera – e la sua minaccia?
Frutto di ogni verbo: il silenzio. Ne dice così Turoldo:
“Dopo, di più radioso non c’è che il silenzio: il momento apofatico, ineffabile; labbra che si chiudono, appunto adorazione pura; ferite che si rimarginano, il tempo della mistica, quando e ragione e mente e sensi sono come ubriachi, naufragati nel grande mare di Dio. Ma questa è grazia ultima, da chiedere sempre, pur senza pretesa di ottenerla e senza scoraggiamento se non viene. È già dono per molti che sia data a qualcuno e che questi la custodisca e la goda a nome dell’intera creazione. Vetta della vita monastica: garanzia che il mondo continuerà a sopravvivere”.
Ciascuno si scriva il proprio Libro d’ore, si conformi a quel canto, fino a sfoggiare il silenzio, e sfolgorarne. Lingua che si fa candela, iride di drago, rondine – di ogni parola, scorgere il nido, l’uovo, il crollo.
*In copertina: Alessandro Magnasco, Eremita nel deserto, XVIII secolo