Fece di tutto – attraverso una pratica lirica estenuante – per diventare pazzo; ci riuscì. La formula con cui David Gascoyne sancisce la propria esistenza – dacché, in lui, non esiste vita oltre la clausura poetica, il respiro è giustificato dall’ispirazione, tutto il mondo, il tempo, va espiato nel verso – è di cristallina esattezza: a poet who wrote himself out when young and then went mad. Il cartiglio, ovviamente menzognero – Gascoyne reclama la pazzia come sigillo della propria etica poetica: egli è David Gascoyne perché è diventato matto, ma alla follia, autentica, è impedita questa quota di laica lucidità –, dice due cose. Intanto, lo sfarfallio del cliché: la poesia è legata alla giovinezza e dunque alla pazzia. Il poeta non invecchia mai – diventa pazzo, evolve nella follia. Poi: si scrive per espellersi, per cacciarsi via da sé – fino a restare ombra, pallore verbale, balbettio. Si scrive per gettarsi nella giovinezza – perciò, nella pazzia, nel mondo privo di opposizioni, dove bene e male convergono nel medesimo singulto, nello stesso sputo.
Ah, la vita di Gascoyne, emblematica gioventù, precocità aggressiva, talento violento. Nato ad Harrow nel 1916, primogenito di un impiegato di banca, Leslie Noel, e di una donna, Winifred Emery, legata a una famiglia di attori di pregio. Agli studi tecnici, cui era avviato, preferì la bohème, i sublimi bassifondi della poesia: sedicenne pubblica la prima raccolta di versi, Roman Balcony and Other Poems (per consacrarsi, rimbaudiano, alle indecenti leggende giovani); l’anno dopo atterra a Parigi. Sente l’urgenza di rompere con la lingua materna, di investigare l’estraneo. Nelle fotografie ha il viso quadrato, gli occhi enormi e intimiditi, le labbra spesse, di sbieco, di chi ha bevuto il latte della Gerusalemme celeste – è un volto, ecco, di un ragazzo che precipita, che impone la spietata pietà.
A Parigi Gascoyne conosce André Breton, Paul Eluard, Benjamin Péret; scrive poesie per Salvador Dalí, Yves Tanguy, René Magritte; si fa surrealista con l’ansia di esaurire ogni avanguardia, con la foga di chi non ha avvenire. Nel 1935 pubblica A Short Survey of Surrealism, importando, di fatto, il Surrealismo in Inghilterra; l’anno dopo è tra gli organizzatori del London International Surrealist Exhibition. La mostra s’inaugura l’11 giugno, alle New Burlington Galleries; tra i partecipanti si ricordano Brancusi e Giacometti, De Chirico e Marcel Duchamp, Henry Moore, Paul Klee, Picasso, Picabia, Man Ray… L’agone surrealista lo domina per una manciata di mesi folgoranti: Gascoyne, in verità, non si installa in alcun credo; a Parigi frequenta Henry Miller e Lawrence Durrell, diventa discepolo di Pierre-Jean Jouve, che insieme a Pierre Klossowski, nel 1930, aveva tradotto i Poèmes de la Folie de Hölderlin. Intorno al libro, sconcertante, su Arthur Rimbaud, Rimbaud le voyou (1933), nasce il legame con Benjamin Fondane, poeta-pensatore che spiazza le ingenue effervescenze di Gascoyne, e gli è maestro, in un grumo di notti, nel 1937 (da qui, molti anni dopo, la scrittura di quel libro delicato, un amuleto, Rencontres avec Benjamin Fondane).
I ‘modelli’ di Gascoyne, arso da un’alba perpetua e sfrenata, sono proprio quelli: Rimbaud e Hölderlin. Modelli di vita – e dunque di poesia. Gascoyne, cioè, lavora – consapevolmente o meno – per diventare incompreso, irrintracciabile, riconosciuto per evasione, esteta della scomparsa. Fa di tutto per fallire, per smarrire la poesia dopo tanto accanimento. Monco del nome, impotente al proprio tempo, Gascoyne si spalanca un Harar nel petto, devia un Neckar nelle narici. Poco dopo aver pubblicato Hölderlin’s Madness (1938), il poeta s’imbarca come cuoco su un vascello di costa, siamo nella Seconda guerra; con il nome di “David Emery” è arruolato tra gli attori dell’ENSA, la Entertainments National Service Association, nata per dare svago alle truppe britanniche. Frequenta Lucien Freud, per qualche anno vive in Canada, si sposta a Aix-en-Provence; alla protervia lirica di W.H. Auden, che domina, e alle poesie di Philip Larkin, “deprimenti”, preferisce i versi scotennati e ipnotici di Dylan Thomas, che incrocia in uno dei suoi vagabondaggi, negli Stati Uniti.
Attraverso Fondane scopre la filosofia di Lev Šestov, che lo ispira “alla violenza con cui deve essere afferrato il Regno dei Cieli”. È un crocevia di contraddizioni, Gascoyne: comunista a 19 anni, sconfessa la politica dopo aver fatto la canonica gita nella Spagnaribollente di guerra; surrealista, abbandona l’ideologia, “sono i religiosi dell’anti-religione, autentici giacobini”, dirà, mentre Breton lo accusa di essere il “Cristo della rivoluzione poetica”. È ancora un ragazzo, i crolli sono continui, inizia il periplo conventuale nei ricoveri, la vita che si realizza nella nigredo del delirio mentale. Il suo cristianesimo – adattato in versi abili alla profezia – è quello che sta tra Trasfigurazione e Getsemani.
Höderlin’s Madness è l’emblema dell’ascesi nella follia di Gascoyne – programmata, deliberata, specie di obbedienza alla debolezza. L’acribia cronologica, la dedizione acritica, perfino la generosa ingenuità nell’insistere sulla mania lirica di Hölderlin, sono il sintomo di un poeta che preferisce, a prescindere, la notte della poesia. Soltanto l’oscurità – secondo il codice di Giovanni della Croce – consente la luce: crollare nell’infimo è il primo grado della sapienza. Di Hölderlin, a Gascoyne, interessa la pazzia – cioè la continua evasione dal canone – come di Rimbaud la fuga e l’abbandono, che sanciscono la paradossale autenticità dell’opera (la quale, di per sé, non esiste, non può, non ha alcun fondamento intellettuale, defraudata dal destino dello spiritato, al di fuori della sua volontà; bisogna essere dei lirici ordinari per stare nel reame editoriale, per ‘curare’ i propri testi, per commentarli, addirittura: essa, l’opera, spappolata, è un lascito ai posteri, che dovranno ricucirla, ricostruirla, ricondurla all’ordine, installarla nella “storia della letteratura”). Gascoyne ha 21 anni quando pubblica Höderlin’s Madness; pubblicherà altro – Night Thoughts, ad esempio, del 1956, prolunga quel verseggiare nottambulo –; negli anni Sessanta si ritira in un manicomio, nell’Isola di Wight, il Whitecroft Hospital. Ne uscirà grazie a Judy Lewis, che lavora negli istituti per malati mentali e riconosce il genio del poeta: si sposeranno nel 1975, lui ha quasi sessant’anni.
Nell’ultima fetta della sua vita – morirà nel 2001, a novembre –, Gascoyne rivive la propria giovinezza, con nitore da idolatra, da imbambolato: pubblica i Journal scritti a Parigi, traduce Les Champs magnétiques,il libro del 1920 di André Breton e Philippe Soupault, onora la maestria di Fondane. Raccoglie gli ultimi fuochi lirici – sempre fuori dal tempo, per sempre giovane. Le lettere a Meraud Guevara, pittrice, erede dei Guinness, moglie dell’artista cileno Alvaro Guevara, con cui stringe una profonda amicizia dal 1955, descrivono, in chiaroscuro, l’indole di Gascoyne. Londra è “un labirinto umido, grigio, pieno di spettri che ondeggiano” (25 gennaio ’56), il poeta è “paralizzato, inebetito, polarizzato dalle idiozie” (10 maggio ’62); nel 1964, in un attacco di schizofrenia, tenta di strangolare l’amica, è rinchiuso in una clinica a Vaucluse, le scrive,
“…lo immagini, ho un disturbo mentale, permanente, da tempo, non potrò più maneggiare la mia arte, il talento è sfinito, passerò il resto della vita tra un sanatorio e l’altro; nient’altro che un corpo, preda delle istituzioni… ma so che anche questo è un delirio, stimolato artificialmente…”.
(13 maggio 1964)
Alla Guevara descrive gli anni dell’ospedalizzazione sull’Isola di Wight, lettere scritte da un condannato, su cui grava la cupa colpa del nulla:
“David, il poeta, è completamente morto; quando parli di un palo nel cuore, hai ragione: questo è ciò che sento durante la depressione più acuta”.
(1 novembre 1964)
Gascoyne invade Hölderlin, lo tradisce, lo completa, pone un trono nella sua follia. Lo dice, il poeta, le sue traduzioni sono un “libero adattamento”, sono degli “originali”: Gascoyne entra nella notte di Hölderlin con le torce in bocca. È un pirata ragazzino, uno che manovra la fionda, incurante dell’accademia. L’avventatezza diventerà canone (Ezra Pound, il solito pioniere, con Cathay, nel 1915, aveva rifatto, letteralmente, la poesia cinese classica; Pier Paolo Pasolini, nel 1960, riscrive Eschilo, incurante del greco, grave del proprio linguaggio poetico, in quella Orestiade travolta nel sacrilego; nel 1991 Giovanni Testori traduce in versi, con ritmo caravaggesco, la Prima lettera ai Corinzi di San Paolo); Gascoyne è affascinato dai frammenti di Hölderlin, dalle poesie di aurorale innocenza, inebetite, appagate, oltreumane, come se da lì si potesse estorcere il veleno della pazzia, la quintessenza della lirica. D’altronde, è l’opera stessa di Hölderlin, disordinata, incongrua, fitta di frammenti infiniti, di tentativi a tentoni, una vera e propria apostasia della letteratura, a consentire ogni audacia. Anzi, il vero tradimento sarebbe trattare Hölderlin come un poeta qualsiasi, bene insediato nel canone, come Goethe, Schiller, Novalis; altrimenti, l’autodistruzione di Hölderlin, la sua scelta – ben al di là dalla patologia, dai patetici allarmati dal folle – sarebbe invano, lalia che proviene da un inesplicabile altrove.
Predilige il paesaggio, l’illuminazione fulminea, la parola sul punto di svelarsi, la quiete che assembla un sovrappiù di rivelazione – e la Storia appare, d’improvviso, superflua –, Gascoyne, contemporaneo di Hölderlin; queste sono le prime quartine del suo Inverno:
Quando un albume di neve albeggia sui campi e incendia di scintille la pianura infinita, l’estate ci imbambola per un istante, la primavera viva si percepisce mentre il giorno muore.
Tutte le illusioni sono sgargianti, l’aria è leggera, cristallina la foresta; e non c’è umano sulle strade lontane, il silenzio rende sublime ogni cosa che ride.
Che in questo modo, per darci una vaga idea, sono rese da Luigi Reitani – in una versione più corretta:
Quando bianca neve i campi adorna E sulla pianura alto il sole splende, Lontana incanta estate, seducente, E mite già la primavera torna.
Superba è la visione, l’aria è fina, Limpido il bosco, nessun uomo cammina Su strade fuori mano, ove quietamente Tutto è sublime e tutto è ridente.
Gascoyne elettrizza Hölderlin, piazzando la sua Apocalisse nell’era delle metropoli, della statistica, della macchina; nel tempo fatto a strappi da icone di guerra, calcato nell’acciaio. Ogni tentativo sinottico è bieco, non corrisponde al destino di cui Gascoyne impegna questi versi: fatti per la liturgia solitaria, atti a farci sbocciare nella pazzia, alla piccola follia dei balconi aperti, che digrignano gerani. Come benedizione e austero libro d’ore, vanno ripetuti questi versi, caldi alla lingua, evocano mondi su cui piede umano non calca, calcina sia sul regno dei bipedi. Per questo, qui, tradimento al cubo, Gascoyne è passato al setaccio con lo stesso metodo con cui il poeta ha svaligiato Hölderlin: contraffazioni, slittamenti, piccole aporie, contraddistinguono questa traduzione, che è opera di un bombarolo, un guerriero nell’ombra.
Infine, il poeta che desiderava diventare pazzo, riuscì a stanarsi, liberandosi della sua follia. A Meraud Guevara dettaglierà, infine, la sua resurrezione, l’etimo della vita nuova, quella specie di acquario nella nostalgia. “Sono una specie di fenice risorta”, le scrive, il 16 aprile del 1979 – sognava di diventare un’aquila, l’uccello sacro a Hölderlin, che abita “nelle tenebre” e pur moribondo solca gli abissi. Eppure, si sa, la vita è sempre obliqua al sogno, scolpisce il viso con un ago, tradisce le intenzioni in una legione di paludi – eppure, ogni ombra nasconde un dio decapitato.
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ORFEO AGLI INFERI
Cortine di roccia lacrime di pietra, foglie, in alto, tra le crepe del cielo: da lato a lato sipari sollevati da mani impietose.
Venne portando la lira frantumata, indossava l’abito blu di un re, gli occhi come fori su un foglio; si sentiva il mare, lontano, diafano, di tanto in tanto, eletto dal vento improvviso, come una canzone interrotta.
Di tanto in tanto tornava dal sonno, labbra semiaperte, parole confuse che fuggono per raccontare la storia di quella notte sgargiante giorno funestato di ali sopra le isole e i mari e i deserti e i pascoli e le pianure dell’immemore terra straniera.
Dorme con la lira frantumata tra le mani, intorno al suo sonno sollevano drappi pietrificati, le lacrime e le foglie, veli di cruda roccia che nascondono il cielo sfondato, infinito.