“Adoro andarmene”. Ritratto di Blaise Cendrars
Letterature
Marco Settimini
La poesia, si sa, è una zingara. Va dove vuole. Assomiglia all’acqua. E se io non ne scrivo più da un bel po’ di tempo, non me ne cruccio affatto. Non per evitarmi problemi di scrittura, ma per assecondarla, semmai. Giacché la poesia è femmina. Le basterebbe uno sguardo, un sorriso, un lieve ammiccamento, per farmi cadere subito ai suoi piedi. La poesia è donna! Fiera, testarda, imperscrutabile. Imbellettata solo nel momento giusto; è permalosa. Dà e prende; toglie e divora. Dona, e fugge via.
È un baleno. Una carezza. O, un pugno nello stomaco. Di tutto quel che si può raccontare su di lei, a me interessa il guizzo, il riso beffardo nella notte: l’urlo tragico nella commedia.
La poesia s’incontra senza volerlo. Arriva all’improvviso, ti spiazza e scompare. Se non la butti giù sul taccuino, l’avrai persa per sempre. E a volte mi piace appunto negarla. Per alzare il tiro. Sfidarla. Vedere cosa mi combina, mentre faccio finta di niente. Ma proprio quando così la sfido, col suo uppercut mi è già addosso: dovrò faticare questa volta a rialzarmi.
Il suo gioco di gambe, a volte, m’impressiona. Ha un ritmo straordinario, pare quasi una rumba. La sua musica è malandrina, ma non posso farne a meno. Attira, ipnotizza. Schiude il sentiero nella foresta. Vuole essere penetrata: come una vulva.
Chi percorre le sue vie non sa assolutamente a cosa va incontro. È perciò misterica, e il suo mysterion sembra un culto da scoprire. Chi la pratica ‒ o la insegue ‒ è il poeta, questo giuda malandrino. Il poeta, che non sa nulla nemmeno di sé. Perché mentre adesso sta tentando di imbastire un discorso quasi serio, in realtà non si capacita nemmeno di quel che le parole gli doneranno da qui all’istante successivo. E questo appunto è il dono della poesia. Chi lo possiede, sin da bambino ne era permeato e inzuppato come in un mare intrappolato nella conchiglia. Quel che lo perturba, è il suono del destino, che soffia come un vento leggero al di là di ogni nascita e di ogni morte.
La poesia allora è un incanto. Il canto della sirena. La maliarda musa che delizia. Amare lei, significa non amare nessun’altra. Anzi, proprio per questo, le donne, le si ama tutte quante: per poterne cantare ogni singolo battito del cuore.
La poesia è un pendolo che danza. Il cantuccio di un tombino. La mano tesa di tuo figlio. Quell’occasione mancata, e che ‒ forse ‒ mai più tornerà. E il poeta è il suo dispetto preferito: un cowboy che incontra il samurai. Egli getta lo sguardo sull’infinito, che rotea come una marea, aizzato dalla luna.
Senza poesia non si vivrebbe. Nessuno può farne a meno. La sua parola è un palpito, il tamburo che batte dentro al cuore. Sicché lei stessa è quella furia che in certi frammenti ti appartiene, e travolge tutto come un animale imbizzarrito. Sicché lei stessa è quella fiera, la tigre da ammaestrare; prima che tu ti faccia azzannare.
La poesia non ha pose, semmai sorprende. Soprattutto è una responsabilità. T’inchioda alla tua croce. Non la puoi offendere. Va rispettata. Persino temuta. A volte osannata. E il poeta non fa nient’altro che parlare di lei: leggendola, sognandola, ascoltandola. Finché ci sarà qualcuno al mondo che ci lascerà un lascito di poesia, noi avremo sempre un debito nei suoi confronti. Ovvero, quello di custodirne nel tempo le sue parole come fossero diamanti, eccentrici zaffiri, dai colori cangianti.
Il poeta ha la pelle della pantera addosso, o il ruggito della tigre dentro, e sa che ogni parola lasciata al caso ‒ persa ‒ riguarderà la sua caduta; l’attesa di qualcun altro che arriverà, presto o tardi, a stringergli nuovamente la mano.
Giorgio Anelli