«Disordine e corruzione non cercavano più nemmeno di nascondersi, e il regno dell’India, un tempo pacifico, divenne il regno dell’anarchia». Così, con giusta visione, Fakir Kahir ud-Din Illahabadi, storico moghul.
Il cuore della frase sta tutto in una paroletta, fitna, che in arabo, la lingua di Fakir, significa sedizione. Più propriamente essa deriva dal verbo fatana: in origine «distogliere», da «sedurre» (proprio come se-ducere), «indurre in tentazione», «incantare», «affascinare». Quindi il sostantivo fitna assume il valore di «seduzione», «tentazione», «fascino», poi anche «sedizione», «dissenso», «sommossa», che secondo i musulmani di ogni tempo e latitudine è il peggior crimine, tanto da assumere in taluni testi normativi connotati ancor più gravi e irremeabili di ogni violazione della sharia o dei pilastri religiosi. La fitna può sconvolgere sotto ogni rispetto un’intera comunità, un’intera nazione e molto oltre.
Ed è traendo da Fakir Kahir che William Dalrymple trova il titolo, Anarchia, per il suo libro interamente dedicato alla Compagnia delle Indie Orientali della Gran Bretagna (Adelphi, 2022).
«Quasi tutti i testimoni oculari dell’India di fine Settecento ricordano a più riprese gli infiniti disordini e i bagni di sangue di quel periodo, e la difficoltà a viaggiare in sicurezza in vaste aree del paese senza una scorta pesantemente armata. Anzi, furono proprio questi testimoni oculari a far circolare per primi l’idea di una Grande Anarchia».
Fondata sulla soglia del XVII secolo, ben presto e fino allo scioglimento nel 1858, la Compagnia «finì per controllare quasi la metà del commercio mondiale e divenire la più potente società della storia» e secondo uno dei suoi principali attori «uno stato in guisa di mercante». Lo scopo era soltanto uno: arricchirsi, a qualunque prezzo.
Un arricchimento spregiudicato e criminale ma di natura sommamente privata, tanto da presentarsi modello, attentamente seguito e migliorato, delle odierne multinazionali apolidi e onnipotenti. La patente regia infatti «concedeva poteri assai più ampli di quanto i petizionisti si fossero attesi o avessero forse persino sperato», poiché «oltre all’esenzione di tutti i dazi doganali per i primi sei viaggi, garantiva loro per quindici anni il monopolio nazionale del “commercio con le Indie Orientali”, definizione geografica piuttosto vaga che fu subito presa a significare tutti i commerci e i traffici tra il Capo di Buona Speranza e lo stretto di Magellano; e accordava inoltre il diritto semi-sovrano di governare territori e assoldare eserciti».
Una formulazione, spiega l’autore,
«sufficientemente ambigua da consentire alla future generazioni di funzionari della CIO di richiamarsi ad essa per rivendicare la giurisdizione su tutti i sudditi inglesi in Asia, battere moneta, costruire fortificazioni, promulgare leggi, muovere guerra, condurre una politica estera indipendente, istituire tribunali, comminare pene, imprigionare sudditi inglesi e fondare insediamenti inglesi».
La Corona naturalmente beneficiava dell’iniziativa non solo attraverso i canali consueti ma anche, per un certo verso, i più “classici”:
«Nel 1693, a meno di un secolo dalla sua fondazione, si scoprì che la Compagnia usava le proprie azioni per comprare i favori dei parlamentari, sborsando 1200 sterline l’anno a ministri e deputati di spicco. Emerse che la corruzione era arrivata fino al sostituto procuratore generale, che riceveva 218 sterline, e al procuratore generale, che ne riceveva 545».
Ci fu un’indagine parlamentare, una delle tante che conosciamo benissimo anche noi, e delle sanzioni pure: ma poi tutto, per restare in tema di mare, seguitò a gonfie vele, che vale la pena di seguire lungo l’informatissima ricostruzione dell’autore, nelle cui mani lascio volentieri il lettore a che si scopra da sé l’orrida ma istruttiva epopea.
Gli elementi eclatanti e scabrosi della lunga vicenda non debbono però distogliere l’attenzione da una più ampia contemplazione del fenomeno all’interno della storia del mondo occidentale. Per quanto Dalrymple si muova con la cautela del ricercatore serio e asettico, anche se partecipe, e anzi forse proprio per questo, egli ci fornisce un’utilissima messe di dati, fatti, documenti, testimonianze sugli albori di un’èra di cui oggi noi ancora non vediamo (del tutto) la fine, vale a dire l’èra del capitale. Capire infatti la storia della Compagnia delle Indie, significa capire anche la ragion pratica dell’allora più potente impero universale, che a sua volta ci fornisce un ulteriore corpo documentale per l’intelligenza del presente e, per chi voglia applicarsi più oltre, di ciò che ci potrebbe aspettare.
Non è solo, questa, la vecchia lezione secondo cui «chi capisce il passato, capisce anche il presente», che può contentare gli eruditi perdigiorno. No: Anarchia può essere imponente tassello della costruzione di una revisione critico-pratica dell’esistente. Se infatti l’accumulazione del sapere non ha ricadute sociali concrete, si dimostra l’eguale dell’accumulazione capitalistica: un egoismo sterile e odioso, destinato a costituire il carburante per l’eternizzazione dell’attuale modo di produzione, pur da tempo in evidente putrescenza.
Infine va rilevata un’altra potenziale utilità offertaci dal libro, non disgiunta dalla succitata. Anarchia mette nelle condizioni le anime belle degli esotisti e dei passatisti di pensare rispettivamente all’Oriente quale luogo d’elezione dell’onninvocato spirito o di riguardare ai tempi andati quasi età dell’oro; quando non entrambe le cose insieme.
L’India e l’Oriente sono infatti un bell’esempio di quanto l’immaginario nostro, forgiatosi negli anni attraverso una certa cinematografia e certa bibliografia, sia soltanto un teatro in cartapesta, che, per quanto concerne quel luogo, seppur senza intento polemico e men che meno rivoluzionario, provvide in parte a smontare or son quasi quarant’anni il cattolico Dominique Lapierre con La città della gioia.
Si arrivava e in parte ancora si era in anni in cui l’Oriente e l’India nella fattispecie erano meta di pellegrinaggi di occidentali, benestanti e no, hippy, spiritualisti d’ogni risma. Anni in cui si importavano con sempre maggiore intensità e convinzione i così detti capolavori della letteratura classica e spirituale e religiosa di quelle terre. Quei due tangheri di Guénon e Coomaraswamy avevano già impestato l’Europa con le loro fandonie e fantasie sul mitologico Oriente.
Tutto ciò dava a noi occidentali in gran parte grassi e pasciuti, ottusi e distratti, l’idea di una terra meravigliosa, bensì con qualche guasto, ma dove anche noi, soprattutto noi così bisognosi, avremmo potuto trovare l’illuminazione. E se ne ritornava talmente illuminati, così fortemente illuminati già sull’aereo ad aria condizionata, da obliare subito, in un capolavoro di rimozione da far impallidire il più scafato degli psicoanalisti, lo schifo dello ieri che si riversava impietoso sull’oggi e ristagnava, complici anche gli eletti locali, abitatori irremovibili e inamovibili dei piani superiori delle caste.
Qualche tempo prima di morire, Tiziano Terzani, nonostante le sue pose da guru biancovestito e tolkieniano, ma forse più per irritazione davanti a due grossi nomi ancora indimenticati delle lettere italiane, Moravia e Pasolini, commentò con sprezzo ma con verità i resoconti del loro viaggio in India. Il cineasta, al ritorno dopo solo tre settimane di soggiorno, scrisse un libro che doveva diventar poi famoso: L’odore dell’India, e Terzani che là ci aveva vissuto trent’anni disse due cose: non si può scrivere sull’India dopo solo pochi giorni e, soprattutto, che l’odore dell’India «è il puzzo della merda». Era solo l’altro giorno.
Grazie al cielo, anzi: grazie alla Trimurti indù il mondo non si ferma e ogni tanto sopraggiunge qualcuno coi piedi per terra a raccontarti le cose come stanno, a maggior beneficio di chi saprà farne buon uso.
Luca Bistolfi