“Fra l’ammirazione e l’infinito”: l’utopia di Giampiero Neri
Poesia
Giulio Solzi Gaboardi
L’ipotesi più suggestiva è quella riferita da Ugo Ferrandi a Ezio Maria Gray, in una lettera spedita da Aden nell’ottobre del 1913. Secondo l’esploratore italiano, Rimbaud, “arabista e poliglotta dottissimo… spiegava e commentava il Corano agli indigeni”. I due, si erano conosciuti ad Aden nel 1885; tre anni dopo si ritrovarono all’Harar, “passavamo le giornate assieme, le serate poi quasi tutte”. Secondo una testimonianza tarda, probabilmente apocrifa (Henri d’Acremont, En Abyssinie sur le traces de Rimbaud, in: “Revue Hebdomandaire”, 27 agosto 1932), “un gruppo di fanatici” avrebbe “assalito il poeta con i bastoni”, ritenendo sacrilego che un europeo osasse inoltrarsi nelle segrete del Corano. A dispetto di Isabelle, che tentò di fare del “glorioso fratello” un chierichetto, passato, all’ultimo istante, tra i falangisti del Padre, alcuni hanno suggerito che Rimbaud si fosse convertito all’islam. Non ci sono prove in tal senso (Carlo Zaghi, Rimbaud in Africa, Guida editori 1993, p. 701): vero è che Rimbaud si fa spedire dalla libreria Hachette di Parigi un Corano tradotto in francese, con testo a fronte, e che il suo interesse per la cultura islamica non è occasionale né mirato, biecamente, a interessi commerciali. Non chiese mai nulla in merito ai propri libri, alle pubblicazioni di un poeta chiamato Rimbaud: sorrideva quando storpiavano il suo nome, pensava appropriato quello squilibrio di consonanti, quel gracchiare.
Dopo vari vagabondaggi, Rimbaud approda ad Aden, nello Yemen, nell’agosto del 1880, assunto dalla ditta Mazeren, Viannay, Bardey & Co. Qualche mese dopo, in dicembre, è destinato nella sede di Harar, in Etiopia, dove, di fatto, vive gli ultimi anni della sua vita. Ci piacerebbe immaginare Rimbaud nelle vesti di un capo spirituale, a ordire ribellioni nei luoghi oscuri del mondo, un po’ Lawrence d’Arabia, un po’ “Mistah” Kurtz, il cupo eroe, scuoiatore di anime, che campeggia in Cuore di tenebra, il capolavoro di Joseph Conrad. In realtà, dalle lettere inviate alla famiglia traluce la vita di un uomo solo, inaridito dalla noia (“Mi annoio molto, sempre. Non ho mai conosciuto uno che si annoi quanto me”), trafitto dall’ansia di fare denaro; eppure, intimamente indomito, fiero della propria libertà:
“Non pensate che il mio umore sia meno propenso al vagabondaggio, al contrario: se potessi viaggiare lavorando per guadagnare il giusto, non starei fermo due mesi nello stesso luogo. Il mondo è vasto, pieno di magnifiche contrade che mille esistenze non bastano a visitare tutte”.
Alla famiglia, Aden, 15 gennaio 1885
Fu in contatto con i massimi esploratori italiani dell’epoca, anche se la testimonianza più compiuta intorno agli anni africani del folgorante poeta ci viene, per mediazione della nipote, da Giovanni Battista Olivoni, operaio toscano che ha vissuto in Harar nel 1890:
“Era spaventosamente magro, abbronzato. I suoi abiti erano mal fatti, enormi per lui. Portava in testa una papalina simile a quelle usate anni addietro dalle nostre signore. Parlava perfettamente le lingue e i dialetti del paese… Si aveva l’impressione di un uomo molto intelligente. A tale constatazione si arrivava piuttosto attraverso i suoi silenzi che attraverso le sue parole… Era scontroso e misantropo, a detta di tutti… con tutti, è cordiale; intimo, pare, con nessuno”.
Dicono fosse capace nel commercio, inabile a trattare coi “politici”; giocava, nervosamente, a carte; beveva caffè a vasti sorsi. Secondo Olivoni – la testimonianza è in: Carlo Zaghi, ivi, pp.845 ss. – Rimbaud conosceva il Corano ma non osava commentarlo “pubblicamente”. Nel 1883 scrisse un lungo reportage dall’Ogaden, da luoghi impervi agli occidentali, pericolosi; già ricoverato a Marsiglia, per l’insostenibile male al ginocchio destro, si rivolse al Ras Maconnèn, avvisandolo che presto sarebbe tornato in Harar “per esercitare il commercio”. Ricevette, dal sovrano, un telegramma beneaugurale. Al ragazzo selvaggio, tuttavia, fu amputata la gamba – nell’ultima lettera, pur “completamente paralizzato”, chiede di essere imbarcato verso Suez e Aphinar, destinazione ignota, che forse significa Paradiso in rimbaudese. Era il novembre del 1891.
L’Africa è l’ultima opera di Rimbaud – un’opera aperta, perché pretende che sia il lettore a compierla. Dobbiamo sognarlo Rimbaud l’africano, dobbiamo pensarlo mentre s’inoltra nelle grandi piogge, ausculta l’urlo delle iene, impreca sul muso di Madama Noia, insegue i leoni. Visto che ha scelto di non scriversi, di sparpagliarsi in una graniglia di lettere anodine, annodate a un’anima di palude, siamo noi a dovergli dettare l’esistenza; a ricucire poesia sulle labbra di Rimbaud, iconoclasta del verbo.
Nel 1885 tentò la più ardita delle imprese commerciali: vendere un carico di vecchi fucili Remington a Menelik II, re dello Scioa. L’impresa – in numeri: duemila fucili, 75mila cartucce, 30 cammelli, altrettanti cammellieri e uomini in arme – recò fin dal principio lo stigma del disastro. L’8 febbraio del 1887, ad Ancober, una delle capitali dell’antico regno dello Scioa, Rimbaud incontra Jules Borelli, compatriota, quasi coetaneo (è più grande di due anni), esploratore di rara intelligenza. I due legano immediatamente: Rimbaud si fida di Borelli, insieme compiono il viaggio verso Entoto, dove si è ritirato re Menelik II, per svendere le armi; segue una lunga spedizione di ritorno verso Harar. Borelli e Rimbaud viaggiano insieme per quattro mesi; in settembre l’esploratore francese si trasferisce per qualche giorno a casa di Rimbaud, che gli offre cordialità e cammelli per il proseguimento della marcia. Jules Borelli pubblicherà il diario di viaggio dalle più remote lande etiopi nel 1890, per l’Ancienne Maison Quantin di Parigi; nel libro (Éthiopie méridionale. Journal de mon voyage aux pays Amhara, Oromo et Sidama, septembre 1885 à novembre 1888), finora inedito in Italia, viene citato più volte Rimbaud (quel testo è ora tradotto, nella parte che riguarda specificamente Rimbaud, in: Scioa. L’Africa di Arthur Rimbaud, Magog, 2024). È un compagno riservato, abituato alla solitudine, Rimbaud, che non interferisce nell’attività scientifica dell’esploratore – è nei silenzi, piuttosto, tra ippopotami, elefanti, coccodrilli, eremiti e iene (“Mi sono svegliato di soprassalto. Ho temuto che una iena fosse entrata nella mia tenda”) che si intuisce l’opera di Rimbaud, la ribalderia di chi vuole sottrarsi al mondo e ai suoi ruoli, che vuole fare fortuna per sviscerare il fato. “La paura del leone spesso ci inebria, ci tiene svegli, ad alimentare fuochi sempre più ampi”, scrive Borelli – non so se Rimbaud, carattere da volpe, viva nel corpo del leone, di certo è nel fuoco, nella sua aura sempre più ampia.
Aveva scelto di dimenticare Una stagione all’inferno presso i magazzini della tipografia Poot, Bruxelles – aveva perso ogni contatto con i suoi libri. Forse è appropriato al poeta disinteressarsi della propria opera, smarrirla, lasciare che altri la ritrovino. Già troppi scrittori, d’altronde, si affannano a ‘promuovere’ la propria merce. Per questo, dopo il primo lume di simpatia, un certo disgusto ci assale quando un uomo che si professa ‘poeta’ ci spiega le sue ‘poesie’. Restino nude le poesie, nel loro Eden, resista a svelarsi, il poeta, nascosto dio. Si faccia lascito, resti sul lastrico, pavimenti il proprio andare di reticenze e di falsi tracciati. Disinteressarsi dell’opera, non saperne riconoscere il genio – un libro come tutto e nulla. Il mondo è saturo di ‘esperti’, il poeta sperimenti lo smarrimento – ciò non garantirà alcun ‘valore’ ai propri scritti, finalmente liberi di correre, senza guinzaglio, come sciacalli – avidità è il loro privilegio.
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Arthur Rimbaud alla famiglia
Aden, 15 gennaio 1885
Cari amici,
ho ricevuto la vostra del 26 ottobre. Grazie degli auguri. Che l’inverno finisca presto, che l’anno sia felice.
Sto sempre bene, in questo lurido luogo.
Evito di inviarvi fotografie; evito ogni inutile spesa. Qui, d’altronde, sono sempre mal vestito; qui si indossano soltanto vesti leggere; la gente che ha vissuto qualche anno quaggiù non potrebbe più passare l’inverno in Europa, morirebbe subito di polmonite. Dunque, se ritorno sarà in estate; d’inverno dovrò scendere sotto il Mediterraneo.
Non pensate che il mio umore sia meno propenso al vagabondaggio, al contrario: se potessi viaggiare lavorando per guadagnare il giusto, non starei fermo due mesi nello stesso luogo. Il mondo è vasto, pieno di magnifiche contrade che mille esistenze non bastano a visitare. Tuttavia, non mi va di vagabondare in miseria, vorrei avere qualche migliaio di franchi come rendita e trascorrere l’anno in due o tre luoghi diversi: una vita modesta, fitta di lavoretti per pagarmi le spese. Vivere sempre nello stesso posto mi sembra molto triste.
Insomma: di norma facciamo ciò che non vorremmo fare, andiamo dove non vorremmo andare, viviamo in modo diverso da come vogliamo vivere, senza alcuna speranza di un giusto compenso.
Assolutamente vostro,
Rimbaud
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L’esploratore Ugo Ferrandi[1] ad Ezio Maria Gray
Aden, ottobre 1913
Caro Gray, settecento chilometri a cavallo attraverso una zona desertica e un migliaio di miglia nell’Oceano Indiano mi portarono ad Aden dove trovai la sua graziosa missiva. Ella, letterato e artista, vuole qualche cenno di un caro poeta, di un fine artista scomparso, di Arthur Rimbaud? Vorrei essere a Novara per poter esaudire in tutto alla sua giusta curiosità di conoscere quel periodo poco noto del vagabondo poeta, ma ad Aden, dove non ho le mie note, mi riesce impossibile. Conobbi il Rimbaud in Aden nel 1885, poi ci ritrovammo sulla costa dankala a Tagiura nello stesso anno, ove avevamo gli accampamenti limitrofi e dopo quattro o cinque mesi io lasciai, partendo io per l’Italia e poi per l’Eritrea, mentre il Rimbaud si recava ad Ankober nello Scioa. Nel 1888 ci ritrovammo all’Harar e per di più di un anno, ben vivendo in case separate, passavamo quasi le giornate assieme, le serate poi quasi tutte.
Lasciato all’Harar più non lo rividi, e solo dopo sei anni, ripassando da Aden di ritorno dalla Somalia, seppi da amici la sua morte avvenuta a Marsiglia, dopo varie operazioni che portarono all’amputazione di una gamba. Un vero martirio!
Del Rimbaud conserva ancora a Novara qualche scritto non di indole poetica, ma di osservazione dirò quasi scientifica, perché il Rimbaud, oltre essere un poeta, era un arabista e poliglotta dottissimo. Mi ricordo che spiegava e commentava il Corano agli indigeni. Aveva uno spirito fine di osservatore e credo che qualche suo lavoro è stato anche pubblicato dalla Società Geografica di Parigi.
Sono persuaso che vi è un Rimbaud ignoto, Voglio dire il Rimbaud viaggiatore, e che varrebbe la pena di farne qualche ricerca. Non so se la mia buona stella mi concederà fra sei o sette anni di dare un addio alla vita zingaresca e di ritirarmi nella quiete delle mie terre natie, e allora a Novara potrò darle tutte quelle notizie che ho del Rimbaud.
[1] Ugo Ferrandi (1852-1928) è tra i grandi esploratori italiani in Africa. Dopo aver peregrinato nel Mar Rosso e nel Pacifico, dal 1886 sposta il suo raggio d’azione in Africa, in particolare ad Aden, nell’Harar, a Mogadiscio. Per conto della Società di esplorazione commerciale in Africa di Milano, risalì il corso del Giuba, verificò la forza dell’Omo. Nel 1895 raggiunse Lugh (che prenderà il suo nome), in Somalia, dove aprì una stazione commerciale; fu eletto, qualche anno più tardi, Commissario dell’Alto Giuba.