La sua prosa sembra un fatto naturale, assistenziale, con sognata abitudine a dire del bene e una sommessa cartilagine che lascia il male strappato sulle pareti, dov’era già invisibile e terreno. Una composta e sinuosa altezza scende nei fondali, si animano le cose più ostili e quelle più fondate, il predatorio e il silenzioso giocano aggraziati, fanno una guerra di gomitolo. Muso di leone, di serpente, di gattino assiepati là sotto tra il pelo e l’artiglio, con l’arma impercettibile; una carezza nel gesto e piccole punture, morsini dati su un palmo o su un orecchio, forza inusuale. Così i dettagli e i più minuziosi elementi che, posti sempre sopra il peso maggiore, costituiscono la salita e la discesa, il ciclo più duro da masticare, la più sincera pena da penare con lo sguardo, con la pietà.
Non si sa poi tutta quest’acqua, quest’onda ripida e soave, da dove provenga, quale ne sia la foce; se vi siano impegnati numerosi sciami o correnti di pesci, se lo stile sia di uno solo che scrive oppure di un intero sottobosco; se alberi all’ingiù striscino nel tenero, nel terremotato e grandi lunghezze vi siano attraversate, da gambe sottili che faticano. Si leggono solo oasi fraterne in condivisione, sono grandi avvallamenti chiusi in congiunte opere e gli eventi non parlano di uomini ma di pensieri. Un consiglio, un rimprovero, un innamoramento, la morte stessa, sconvolgono lentamente e ci sono esempi giusti da seguire, sempre incantati; visioni, canti, cose che sembravano superate per sempre, voci che chiamano risentite ed eleggono, strani morbi sospesi nei cieli e brividi di braccianti, di lotte e abolizioni; creature che rimpiccioliscono, piccole e afflitte nei piccoli buchi, in serena scongiura; c’è un monte, un grande scavo, case, porti, macerie, vicoli e sul mare terrazze, nastri, fiori; qualche carrozza innominata, viaggi e un paese sopra ad un altro, nella distensione; qualcheduno che lavora, altri che hanno scioglievolezza nella necessità, altri ancora in cima alla generazione, altri oramai in fondo, sotto e sopra le leggi; gli uomini, versatili ad apparire, si muovono con qualunque uniforme e una pesante gentilezza; le donne come temute o adorate, tiepide, cerulee e i fanciulli ancora accondiscendenti, padroni; poi tutto si cheta nel borsellino, nella serratura, nel soffice velluto e a guardare indietro sembra siano passate solo altissime speranze a far sì che fosse racconto.
Alcuni personaggi posseggono più nomi o per meglio dire se ne impossessano dopo molte azioni e pensieri, non perdendo mai il primigenio nome ma accogliendone mille variazioni, nomignoli, abbreviazioni, versioni tagliate o totalmente sconvolte, che allucinano, che fanno dubitare di un cambiamento vero, esistenziale, quasi di un figlio che si sia imposto al padre, di un cugino lontano venuto a sostituirsi al bambino.
Sono i bambini che più degli altri subentrano facilmente, così come nella loro mente maturano soggezioni, vere e proprie estraneità davanti al grosso, al precedente, all’inesprimibile e spingono fantasia, spingono mutamento, perché forse un poco distratti, insieme felici e usurati, non proprio originati ma apparsi, pieni di altre memorie che li inibiscono. Ed è difficile capire se siano veramente impegnati, solidali o un poco annoiati, profondi; prendono forme leggere e acustiche i loro malumori, fanno disegni, incantano; possono anche sbagliare nella loro temerarietà, trovarsi nell’errore, ma sono rivolti sempre nell’ombra e il loro divertimento è nascosto, tutto è nascosto e non può essere mascherato; il richiamo vien loro solo dall’interno, da un’accortezza o un rilievo, una morbidezza rinnovata sul muro; non si accorgono in realtà di nulla se non di ciò che cambia, che può cambiare. Sembra che i genitori non serbino per loro nulla che non siano cianfrusaglie amatissime e segni di presagio. Le unioni ispirano questa sorta di disponibilità, un serrare i messaggi nel languore quando si è più soli.
Perché si è subito orfani, a malapena tollerati, maliziosi e irrequieti come sfide, pieni di vergogna, vergogna a mostrarsi vivere così. In questo modo si separano le grandi congiure, i sanguinosi patiboli, in piccole gabbie, costrizioni che punzecchiano, fastidi e magie; e vi restano come rattrappite le bellezze, i sorrisi, e trovano nuova sistemazione nella grotta, nel ripostiglio, nella scatola, stipate solo per chi sospende l’attenzione sull’ultimo regalo, con quella timidezza affettuosa che scarta i doni e li nasconde, curiosa di osservarli a riposo, in disparte. Proprio come l’Iguanache porta tutto nella sua botola per allattarlo, per farne un gioco tra madre e figlio, tra oggetto e incantamento, un gioco serissimo e senza specchi che deve restare segreto, perché ivi l’identità è senza ribrezzo.
Ci sono poi, sotto ai raggi, altri, nella veglia, nel pieno del giorno, che scompaiono o appaiono, non sembrano più ricondotti, non autenticati. Ricordo Alonso, il puma o bambino, o criminale, cameriere, figlio scacciato, padre, forestiero; nessuno oserebbe scommettere chi tra questi vestiva le brache o il manto.
Ma c’è incurabilità, c’è inganno, denaro e irrequietezza, un fare sempre mercantile che equivoca gli oggetti donati con quelli artefatti. I mercanti hanno solo due mani, due mani sul tavolo e poi legate dietro alla schiena. Invece qui si filosofeggia, si fa del calcolo, si annulla; c’è un Illuminismo argentato, infantile, una grande epoca volante che produce ragioni. La macchina ancora non esiste, non si parla di meccanismi, di invenzioni, ma aleggia una preannunciata miscredenza, un lento vestire i panni della larva, della storia strisciante, indegna. Tutto accompagnato da figure sempre incredule, personaggi estranei, peculiari di una certa disattenzione davanti ai misteri del mondo, in fasce nelle loro ostruzioni, non per questo marginali; e li affiancano spesso materie e discipline che non riescono a dipanare, certi grandi impieghi che annebbiano. Questi finiscono per restarsene in silenzio, altrove, nervosissimi, senza valutare.
Ma questo è opera del sogno? Io immagino Anna Maria Ortese nelle sue stanzette, distesa a sognare compiti umani, cose graziose ma irrilevanti, nulla che possa raggiungere i sistemi e le lettere; sogni o incubi che restano sulla strada e sulla corteccia, qualcosa di privato e dunque atteso, ma non esportato, respinto da qualsivoglia giudice o ingegno. Così mi spiego la notte dei suoi libri che sono il suo giorno, la sua lucidità. Come sarebbe felice, e arido, arrendersi alla fantasia di uno che dorme, beato sul suo pezzo di mondo, instancabile proliferatore senza responsabilità, senza ansie, uno che non può farsi male finché non risveglia lo strumento. Invece qua l‘amore per la realtà è vincente, non può confondere ed è chiaro come non si improvvisi nulla ma si tengano basse le difese; ci si abbassa e si è arroccati lassù come quaggiù, nello stesso mondo. Perché ci sono guerre e malattie e delusioni e villeggiature, famiglie, avventure che non sono irreali ma sono, con qualcosa in più che ferisce alquanto, con una maniera meno repentina, meno alterata del vivere ma più legittima, discreta a parlare e rispettosa sempre. Una letteratura non riparatrice ma rispettosa, contentandosi però del valore visivo di questa parola, non pedagogico, dunque di una qualche quantità che si trova in agio nei propri confini, che non è volgare attività, che non insegna perché non ha da salvare, che agita contro di sé le proprie oscurità, i sacrifici; una letteratura che intristisce un occhio solo e l’altro ribattezza acquoso nella sua sfera; e si è sempre nello stesso elemento, prossimi.
Si aggiunga a questo la voce sempre sottintesa di Anna Maria Ortese, ieratica, come di legislatore, di ministro. Ma sia ben chiaro, non è nulla di periferico, di capriccioso, anzi claustrale; una voce ritirata, presa e posseduta per rabbia, per malcontento, che si distingue da ogni buona azione o rivolta. Una voce dura che potrebbe essere quella di una religiosa, di una santa, se fosse così sfortunata da rimanere senza una chiesa, e dovesse perdersi nel mondo, inneggiare e ribellarsi alla sorte. Ma il mondo non è la realtà e se si deve amare meglio essere infinitesimali, impressi solo col fiato e, prendendo forza dallo sguardo di una bestia, meglio andarsene, essere sempre presenti.