09 Dicembre 2023

“Ama tutto ciò che ti tortura”. Nelle lettere inedite, l’amore segreto di Anna Maria Ortese

Indagavo qualche stagione fa su Pasquale Prunas, il fondatore di Sud, storica rivista napoletana dell’immediato Dopoguerra. Chiuso quel capitolo, Prunas era emigrato a Milano, dove s’era reinventato maestro di fotogiornalismo alla corte di Salvato Cappelli, nella comune impresa de Le ore. Cappelli aveva da poco archiviato l’avventura d’un altro settimanale d’avanguardia, l’Omnibus di longanesiana memoria. In quegli anni, le carriere di Prunas e di Anna Maria Ortese procedevano in parallelo. Dopo averla accolta nella redazione di Sud e sostenuta in tutti i modi a Napoli – ospitandola, molto spesso sfamandola e progettando infine di pubblicare a proprie spese Il mare non bagna Napoli, allora in gestazione –, Prunas l’aveva appoggiata generosamente anche sulla piazza milanese. Era stato grazie a lui, già collaboratore di Omnibus con corrispondenze varie dal capoluogo campano, se lei era potuta entrare, agli inizi del ’48, nella redazione del settimanale. Mi incuriosì, studiando il loro carteggio, pubblicato da Archinto nel 2006 (Alla luce del Sud, a cura di Renata Prunas e Giuseppe Di Costanzo), il fatto che in quell’anno – il ’48, come detto – la Ortese fosse domiciliata a Milano presso un tal ingegner Aldo Busacca, in Porta Ludovica 5. Compresi rapidamente il perché. Quel signore era il fratello d’una cara amica della scrittrice, che già l’aveva ospitata a Milano e forse anche a Pavia e Varese, città in cui Helle Busacca – l’amica in questione – aveva abitato a causa del suo itinerante mestiere di insegnante liceale. Da lì a scoprire che esisteva un cospicuo carteggio tra le due, depositato presso l’archivio di Stato di Firenze, l’ultima città in cui Helle aveva vissuto ed era spirata nel 1996, il passo era stato breve. 

Ed ecco dissepolto il tesoro: di pugno della Ortese, una quarantina tra lettere, cartoline e biglietti spalmati su un arco di tempo assai ampio: 1938-1974, con una interruzione, tuttavia, d’una dozzina d’anni, tra il ’49 e il ’62. Lettere dense di riflessioni importanti e di rivelazioni; una, in particolare, clamorosa. Ma prima di darne conto, devo presentare l’amica corrispondente e inquadrare il loro rapporto. Helle era del 1915: un anno meno di Anna Maria, che l’avrebbe trattata fin da principio come una sorella maggiore. Nata nel Messinese, a San Pietro Patti, era cresciuta a Bergamo e s’era laureata in Lettere a Milano. Una ragazza carica di dolori e traumi familiari, con molta tristezza e rabbia in corpo. Aveva perso precocemente una sorella, i genitori si erano separati bellicosamente e sua madre Virginia era morta quando lei era poco più che ventenne. Il genitore, un affermato oculista, era stato un padre-padrone con lei, unica femmina della famiglia, e si sarebbe risposato con una donna molto più giovane che l’avrebbe allontanato da lei e dai fratelli Aldo e Fausto, con catastrofiche conseguenze per le loro fortune. Aldo, in particolare, brillante ingegnere che aveva lavorato a lungo a Chicago e al Textile Research Institute di Princeton, sarebbe caduto in disgrazia per quei dissidi familiari. La sua ditta sarebbe fallita e lui, per far fronte ai debiti, si sarebbe ammalato di depressione e ucciso con il gas, nel luglio del ’65, nella casa milanese di via Dezza, divisa in quel periodo proprio con Helle. 

Helle, ormai prossima alla laurea, voleva affermarsi come poetessa e nel 1938 inviò una scelta dei suoi versi alla Ortese. Erano poesie elegiache e, in certi casi, apocalittiche; si intitolavano Pessimismo, Catarsi, Momento mistico, Ansia, Vespro. Anna Maria apprezzò moltissimo. Nella sua prima lettera, datata 18 aprile 1938, fu prodiga di complimenti. Prima, però, s’autoritrasse così:

“Cara Helle, mi sembra che sei tu la principessa dei sogni, come amabilmente chiami me. Io sono una ragazza piena di tanti difetti e tante pene, una ragazza svogliata, che non ha mai voluto andare a scuola (e perciò teme sempre di fare errori di grammatica), una ragazza che qualcuno ha spinta generosamente nella luce, ma che ora è rientrata nella sua naturale ombra, e si sente così triste, sapessi, cara Helle, triste da vedere a volte tutto il mondo con occhi placidamente disperati”.

Poi l’elogio, sperticato:

“Voglio farti le mie congratulazioni per i bei versi, che nella potenza e nell’armonia della frase mi ricordano a volte (non ti dispiace?) la migliore Aganoor e i poeti più cari della nostra Italia. Ho letto con commozione i tuoi versi, e io, che pure un tempo avevo scritto dei versi, mi sono sentita, avanti a questi tuoi, far piccola piccola… Mi capisci? Sono belli, Helle, sono come un fiume, una corrente precipitosa, correndo scintillano e rispecchiano rive e montagne, erbe e fiori. Tu sei ancora assai giovane, Helle, ma credo e ti auguro con tutto il cuore che la tua strada sarà nobile, luminosa, aperta. Tu scrivi ancora “col cuore”, getti nel verso tutta l’anima, tu (brava Helle!) sei ancora di quella onesta schiera dei giovani che una volta parlavano così più semplici, impetuosi, vicini, con pianto e viso aperto, alle nostre anime. Perché diffidare dell’arte femminile italiana? Se debbo dirti la verità, Helle, io ho veramente poca stima delle qualità artistiche di un animo femminile, ma so anche che quando una donna è veramente artista, allora (oh, ma adesso non pensare che parli per me, sai) si lascia addietro molti uomini. Helle cara, serba la tua forza, la tua inquietudine, il tuo tormento come la cosa più preziosa della tua giovinezza. Credi che nel brivido di dolore che ci dà il desiderio o l’entusiasmo o la malinconia, c’è, in germe, tutto il godimento di cui partecipano gli Angeli…”.                                                               

La previsione di Anna Maria non s’avverò: la poetessa non decollò, riuscì a pubblicare poche raccolte di versi con piccoli editori, quasi sempre a pagamento. Solo nel ‘49, da Guanda, sarebbe uscita la sua prima plaquette, Giuoco nella memoria. Nel tempo anche l’ammirazione della Ortese s’affievolì, ma la loro amicizia, sbocciata per via epistolare, resistette. Si facevano visita e scambiavano cortesie. La Ortese, si sa, viveva di stenti, dopo una certa ora doveva smettere di scrivere perché non possedeva nemmeno una lampada, ed Helle s’incaricò da subito di vestirla, spedendole abiti smessi, borsette e persino “una pelliccetta”.

S’incontrarono per la prima volta a Venezia nell’agosto del ’39 e in quell’occasione la Ortese la presentò al suo pigmalione Massimo Bontempelli e alla di lui compagna Paola Masino. A Bontempelli, il Bento del Porto di Toledo, Anna Maria doveva il suo debutto in libreria con la raccolta di racconti Angelici dolori (Bompiani, 1937) e numerose pubblicazioni in rivista, nelle testate che lui dirigeva o a cui collaborava: L’Italia letteraria, Meridiano di Roma, Domus, Tempo. A Venezia, dov’erano stati esiliati per punizione dal regime, lo scrittore e la Masino si prendevano cura di lei come d’una figlia: le avevano trovato impieghi (correttrice di bozze al Gazzettino e addetta stampa alla Mostra del cinema) e per un certo periodo l’avevano anche ospitata a casa loro. Accorgendosi che era un’ospite alquanto scomoda, dato che li costringeva a tenere le luci accese o a suonare dischi fino alle quattro del mattino “per paura dei morti” e dal momento che era terrorizzata da qualsiasi rumore, come avrebbe rivelato la Masino nell’autobiografico Io, Massimo e gli altri.

Dal nostro epistolario apprendiamo un’altra sua stranezza: dormiva vestita.  Ma sono altre le scoperte che rendono importante questo carteggio. In una lettera del 27 maggio 1943 da Roma la Ortese rivela all’amica:

“Vivo facendo quei librettini della collezione il mio film – il film che preferisco – i film che amo, ecc. ecc. ecc. Ci sto due giorni su, masticando tra i denti brutte parole, poi, per ogni film, intasco duecento lire, mi pago una settimana di pensione, mi compro un pacchetto di Nazionali, un finto caffè e per un giorno e una notte mi riposo e sogno di essere in Turchia, in una di quelle belle scene di operetta, e vedermi venire incontro un sultano nero e cerimonioso”.

Già si sapeva – l’ha documentato bene Matilde Tortora su Quaderni di Cinemasud – che Anna Maria aveva pubblicato due racconti sulla rivista Film nel 1945; ora bisogna ipotizzare che un paio d’anni prima avesse collaborato a un’altra rivista cinematografica, che, guarda caso, si intitolava Il mio film preferito. Erano probabilmente contributi non firmati perché il suo nome non figura in quei fascicoli. Scoperta ancor più significativa: una serie di novelle uscita sul settimanale Grazia e sfuggita sinora agli studiosi. Il bandolo della matassa in una lettera del 13 gennaio ’42: “Ho pubblicato la scorsa settimana su “Grazia” una novella che forse ti piacerebbe: Finestra illuminata”. Dalla mia ricognizione sono sortite cinque novelle, pubblicate tra il gennaio ’42 e il settembre ’43. Lo stile è ancora acerbo, ma alcuni temi della maturità vi sono già enucleati. Due novelle su tutte mi paiono degne di menzione. La prima è Risveglio, pubblicata sul numero del 9 settembre ’43. In essa tutto fa pensare alla rievocazione d’un preciso momento dell’infanzia ortesiana: quel 1921 trascorso poco fuori Potenza in cui lei contrasse un malanno polmonare e fu lì lì per morire. Combacia la descrizione dell’ambiente:

“La mia casa era posta sul limite di un paese antidiluviano, tutto scarpate e terrazze, vicoli erbosi e giardini dove la neve e il sole turbinavano insieme; e formata da un gran numero di stanze che correvano in fila verso una terrazza assai grande, fiorita a maggio di garofani e rose”.

E così pure collima, con la testimonianza resa a Dacia Maraini in E tu chi eri? Interviste sull’infanzia, il passo finale sulla guarigione. Alla Maraini riferì: “A sette anni sono stata molto malata. Con una congestione polmonare. Ero convinta che dovevo morire. Sentivo i grandi che parlavano di me come di una moribonda. Divenni muta. Aspettavo di morire. Invece guarii. Da allora non ho mai smesso di pensare alla morte”. Nella novella:

“Ricordo che una di quelle sere, in cui la neve cadeva più fitta del solito, e nella gola del camino il vento correva lamentandosi come un pazzo, io fui presa da un brivido di freddo, e tossivo continuamente. Andai a letto presto, portando con me il libro di Vera (una favola – ndr), che però non potei leggere. La mattina seguente stavo molto male, avevo tanto caldo, la febbre, e un male grave. Mia madre piangeva, entrava gente, e nevicava, nevicava. Intesi dire, così, fra il sonno che mi vinceva, che forse morivo…”.

Infine, le parole con cui si descrive a quell’età nell’intervista – “Mi comportavo come una stupida. Non ero espressiva. Non capivo niente. A scuola ero sempre l’ultima” – sembrano riecheggiare le parole dell’incipit letterario:

“Ero una bambina semplice e fredda, che stentava molto prima di comprendere una cosa. Mentre già gli altri bambini erano sufficientemente informati sulla natura della vita sul globo, io ignoravo pressoché tutto – nascita, morte, mestieri –, avevo pensieri così candidi, che ne arrossisco oggi per allora”.  

L’altra novella meritevole d’attenzione è, appunto, quella segnalata nella lettera: Finestra illuminata, pubblicata sul numero dell’8 gennaio 1942. Descrive una situazione, una fantasia, ricorrenti nella produzione ortesiana, quasi un topos: un uomo o una donna, come in questo caso, in pellegrinaggio amoroso: travolti da rimpianto e struggimento alla vista della casa dell’ex. Mi ci sono soffermato non tanto per l’intreccio, quanto per un dettaglio: la protagonista spasima in questa storia per un uomo sposato, un padre di famiglia: “Mi ricordai che già da varii anni era sposato e viveva tranquillo e felice in quella casetta, con un’altra donna. (…) Forse aveva anche dei figlioli”. Di qui il sospetto d’un forte nesso con un lutto amoroso da poco elaborato di cui si parla spesso, giusto in quel periodo, nel nostro carteggio. Ma, prima di introdurre il personaggio in causa, devo fare un passo indietro tornando alla fase iniziale della relazione Ortese-Busacca.

Anna Maria, convinta del talento poetico dell’amica, s’offrì di aiutarla a pubblicare raccomandandola al suo protettore-mecenate Bontempelli. La Busacca partecipò in effetti a un concorso dell’Accademia, ma non risultò tra i vincitori (responso del 21 aprile 1942). La esortò quindi a scrivere ad Alfonso Gatto, cui s’era rivolta anche lei nella primavera del ’41 per pubblicare le proprie poesie da Vallecchi. Per inciso, forse la Ortese aveva preso nella circostanza una cotta per il poeta salernitano, stando almeno a un paio di allusioni contenute nel suo carteggio con Marta Maria Pezzoli (Vera gioia è vestita di dolore, Adelphi, 2023). Infatuazione, tuttavia, fugace, se è vero che l’unico accenno che gli riserva, in una lettera a Helle datata 13 gennaio ’42, è un piccato: “Con me si è comportato piuttosto male, nel senso che si è presa l’unica copia delle mie poesie, e non me l’ha fatta più vedere, da maggio scorso”.

Prim’ancora, però, e precisamente nel 1940, Anna Maria aveva indirizzato l’amica dall’altro suo mentore, il critico e scrittore che l’aveva tenuta a battesimo sulle colonne dell’Italia letteraria: Corrado Pavolini. “Se vuoi un giudizio sincero sulle tue poesie e non temi una critica che può essere feroce e stroncare una persona fragile, prendi le tue cose migliori e mandale a questo indirizzo”, aveva suggerito. “È uno scrittore, è il fratello del ministro e se vuoi un giudizio disinteressato quello sarà il suo. È una persona di gusto squisito a parte ciò che avrai potuto sentirne dire”. La citazione è tratta da Diario epistolare a Corrado Pavolini, libro postumo della Busacca, curato da Serena Manfrida per la University Press di Firenze, in cui l’autrice ricicla pagine dei suoi diari giovanili e di alcuni memoriali inediti, materiali tutti custoditi nell’archivio fiorentino. Da queste memorie apprendiamo che, sottoposta a critiche da Pavolini, ma, insieme, incoraggiata a non desistere, lo incontrò per la prima volta il 2 ottobre del ’40 all’Hotel Europa di Milano. Pavolini aveva quasi vent’anni più di lei, era del 1898, ed era sposato (con la traduttrice Marcella Hannau) e padre di due figli. La ragazza ne rimase letteralmente folgorata. “E vidi te e ti amai subito, come si ama il sole”, scrive.

“Per me eri un dio, se si fosse sicuri che un Dio c’è, si sarebbe felici. Che tu ti accorgessi di me, non mi veniva in mente, mi sembrava che tu fossi le cose più splendenti del mondo, ti adoravo, e avrei continuato ad adorarti, mi sentivo così niente di fronte a te”.

Da allora, per ben venticinque anni, rimase incatenata a quell’ossessione amorosa. Ebbe qualche breve relazione, tutte storie infelici, per poi tornare all’antica fissazione. Pavolini si sforzò di contenere l’assedio e non tradire fisicamente la consorte, ma era in fondo lusingato da quella passione inesausta e attratto dalla giovinezza della poetessa, e le dette corda. Fu lui a propiziare nel ’49 la pubblicazione del suo primo libro con Guanda. Possiamo tornare, fatte queste premesse, al nostro epistolario. Helle confida all’amica il suo strazio di innamorata respinta e la Ortese, che indica il suo primo pigmalione, con la sola iniziale, quasi avesse timore d’essere sorvegliata dall’Ovra, a un certo punto sbotta:

“In quanto a P., voglio dirti candidamente il perché io non voglio sentirne parlare: io l’ho amato. È stato il primo e forse l’unico che abbia amato. Tu, certo, non mi togli nulla, anzi ti esorto ad accettarlo nella tua vita, se questo ti fa bene. Ma sentirne parlare da te, in questo modo, mi fa soffrire”.

La clamorosa rivelazione sta in una lettera del 16 aprile 1941 e si collega forse, sotterraneamente, al racconto di Grazia ricordato in precedenza. Helle non smette di tormentarsi e di braccare l’uomo amato e Anna Maria la striglia e consiglia, giustificando in definitiva il comportamento del suo vecchio nume tutelare. Lettera del 6 dicembre 1941:

“Fai male, Helle, a fissarti su quest’uomo che ha avuto solamente il torto di non nasconderti la sua simpatia. È crudele, sì, ma anche umanissimo che un uomo accetti, sul primo momento, un sentimento tenero che lo rischiara o rallegra. (…) Ora tu, partendo dall’illusione di potergli fare del bene con la tua tenera dedizione, t’imponi a lui, trasformando un filo d’oro in un rozzo spago. (…) Gli uomini (se pure ne vale la pena) si conquistano in un solo modo: col mostrarsi ad essi su un altare. Capisco che a te faccia piacere metter lui su un altare; ma perché non ti ci metti anche tu? Del resto, per me non credo sia bene questo tuo desiderio di conquistare o farti conquistare da un uomo evidentemente stanco come, nell’anima, è lui”.

E ancora:

“Tienlo nel tuo cuore, tu, se ne è degno. Non condannarlo perché non sa dimenticare la sua famiglia. (…) Abbi pazienza se lui, se io facendo che tu lo conoscessi, ti abbiamo fatto male. È la sorte di noi giovani”.

Quant’è diversa la sua concezione dell’amore rispetto a quella delle prime lettere. In una delle quali, datata 22 luglio 1938, faceva professione di concretezza, per non dire di cinismo, affermando di voler sposare “un uomo molto ricco” per rifarsi degli stenti patiti che l’avrebbero svantaggiata nell’amore e fatta invecchiare precocemente:

“Non farmi “rifare” da un uomo, perché dai miei simili non aspetto che male; rifarmi con l’intelligenza, con l’astuzia, con la volontà; rifarmi togliendo al mondo, per me, la mia parte di denaro”.

Ora, con sguardo evangelico, predica l’accettazione del dolore e della sconfitta, la strategia del perdono e della compassione, come necessarie per elevarsi spiritualmente e raggiungere la pace interiore:

“È dalla disperazione d’essere stati calpestati, da sé e dagli altri, che nasce la forza che ci trasporta verso i cieli limpidi, dove ciò che abbiamo patito si trasforma in dolcezza e beatitudine. Ama tutto ciò che ti tortura e ti ha torturato. Ama il tuo insuccesso. Questa, solo questa, è la forza dell’anima”.

Ha già valutato che l’amore-passione è una malattia, un’onda effimera che non può “durare quanto il mare”. Come scriverà all’amica molti anni dopo, il 22 settembre 1963, “Conta la storia di tutte le persone: l’umano. L’umano non può mai tradirti”.

Non intendo qui soffermarmi sulla visione ortesiana dell’amore; mi preme piuttosto esaminare i riflessi della grande rivelazione – l’amore taciuto per Pavolini – all’interno del suo romanzo più ambizioso, controverso e a lei caro: Il porto di Toledo. Sono tutti concordi nel giudicare l’opera un ardito connubio tra autobiografia e romanzo di formazione (la formazione letteraria e sentimentale dell’autrice). Ma i fatti, ancorché ammantati di hispanidad e trasfigurati da uno stile originale, sono veri, così come corrisponde al vero la loro successione cronologica. Ebbene, due sono le figure maschili che giganteggiano su tutte nel sentimento di Dasa/Toledana/Figuera, la protagonista: Giovanni Conra, o Giovanni D’Orgaz o Maestro d’Armi, e Lemano/Espartero, detto anche il Finlandese. D’Orgaz è il maestro, il faro che la guida nell’avventura dell’“espressività”, cioè della scrittura; l’altro, identificato ormai con certezza nella persona di Aldo Romano, camaleontico personaggio (prima spia dell’Ovra, poi storico marxista), incarna l’aspetto numinoso e inconoscibile dell’amore.

Voglio essere sincero: ancor prima di scoprire dal carteggio che dietro la maschera di D’Orgaz si celava Pavolini, l’avevo capito attenendomi semplicemente ai fatti narrati. Perché tutta la vicenda che ruota intorno al Maestro d’Armi non è che la fedele trasposizione della trafila iniziale della scrittrice. È tutto molto trasparente: la Literaria Gazeta è L’Italia letteraria e la cronistoria delle pubblicazioni – prima, le tre poesie, pubblicate tra il settembre del ’33 e il dicembre del ’34; poi, il primo racconto commissionato da Pavolini, Pellerossa, uscito il 29 dicembre del ’34 – corrisponde alla cronistoria vera. Pavolini diresse la rivista dal luglio del ’32 al gennaio del ’35 e la lasciò per fare il regista teatrale. Solo nel ’36 gli subentrò il suo amico Bontempelli, che raccolse il testimone anche nel ruolo di mentore della Ortese. Per molte pagine del romanzo si parla del commiato di D’Orgaz dopo la pubblicazione di Pellerossa; e, in un limpido passaggio, Dasa cita la data di quell’ultima pubblicazione sotto la guida del suo maestro come capolinea della sua illusione amorosa, alludendo poi al rovinoso destino dell’amato, condannato a morte dal suo stesso fratello, il gerarca Alessandro, e costretto a rifugiarsi in quel di Cortona: “Egli vive in campagna, ormai; è stranamente vecchio, severo e, credo, uomo sgradito. (…) Il suo palazzo della “Literaria Gazeta” si è spento. La città in cui la “Gazeta” viveva fu arsa da un lento incendio. Eppure D’Orgaz, lo so, lo sento, sorride; e tutto, ricordando quel 29 dicembre, sorride”.   

Ho fatto dunque un duplice sobbalzo nello scoprire che tanto la massima esegeta della Ortese, Monica Farnetti, che il suo biografo ufficiale, Luca Clerici, hanno frainteso l’identità del personaggio scambiandolo per Bontempelli: la prima alle pagine XVIII e XIX dell’introduzione ai Romanzi – volume primo (Adelphi, 2002); il secondo a pagina 473 del suo monumentale Apparizioni e visione: vita e opere di Anna Maria Ortese. Con tutto il rispetto, mi pare un abbaglio grave. Intanto, già l’assonanza Corrado-Conra avrebbe dovuto mettere sull’avviso, e poi bastava fare due conti. Bontempelli aveva vent’anni più di Pavolini ed era già un signore canuto quando conobbe la Ortese. Nel romanzo ci viene presentato, invece, come un giovane dalla testa “nerissima”, “il volto di terra, una medaglia. Occhi neri e seri, naso corto, labbra armoniose e pallide”. E poi, ripeto, bastava attenersi alla cronistoria.

La scoperta che Anna Maria provava per il suo pigmalione un sentimento che travalicava la devozione induce ora a rileggere con altri occhi, od occhiali, la figura maieutica di Conra/D’Orgaz. C’è un passo memorabile nel romanzo: Dasa riceve a Napoli la visita del suo pigmalione e di sua moglie (Robin) e, insieme, vanno in gita a Pompei. D’Orgaz a un tratto si volta verso di lei per dirle qualche cosa, “e nel fare questo appoggiò, credo senza saperlo, il gomito destro sul mio ginocchio. Quel ginocchio all’istante si disfece”, scrive Toledana/Ortese, “e io restai senza ginocchio”. Sublime immagine del trasalimento amoroso, degna di stare accanto al dantesco “la bocca mi baciò tutto tremante”. Ebbene, nel suo memoir Cinquantanove anni meno un giorno – 11 aprile 1921-10 aprile 1980, la vedova di Pavolini, Marcella Hannau, ricorda che Anna Maria andava spesso a trovarli al Bacchino, la loro villa di Cortona, dove spesso giocava con un loro figlio, Francesco, e cita, guarda caso, proprio quella loro visita napoletana: “Andammo una volta a casa di lei con i Da Silva, a Napoli; una casa poverissima dove viveva con i genitori. Nella soffitta, che lei aveva tappezzato con grandissimi disegni eseguiti da un suo fratello marinaio, morto in mare, che le era stato tanto caro, Anna Maria scriveva le sue fantasie”. Si duole subito dopo per non aver ricevuto “una sua parola di ricordo quando Corrado, il suo primo “scopritore”, ci ha lasciati”. Ignorando il loro segreto, ignorava anche quant’era costato ad Anna Maria rimuoverlo. Come confessò a Helle, mentre la ammoniva, quell’innamoramento era stato per lei “un dolce martirio”:

“Ti ripeto, e vorrei riderne, che ci sono passata. E ora me ne vedo fuori. E sono sana. Ma quel martirio era dolce, e lo rimpiango”.

Dario Biagi 

*Il carteggio tra Anna Maria Ortese e Helle Busacca è stato recentemente pubblicato, a cura di Dario Biagi, dalle edizioni De Piante.                   

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