Decido di partire finalmente. Sono mesi che astraggo e punzecchio il mio desiderio di unione, la naturale faccia dei vivi. Ogni volta camminavo sopra quell’ideale processione e spegnevo il cero. Devo questa forza all’amico P., alla sua macchina, al suo silenzioso trasporto. Non ho carte o dati che mi riportino la cifra esatta, il calendario non può essere disturbato più di quanto abbia già tentato, per questo mi servirò dell’anno, colosso già di per sé nascosto ai giorni. Il giorno zero dell’anno 2020 siamo andati ad Andezeno, sulla tomba di Guido Ceronetti.
Andezeno, dove Guido è voluto tornare, dopo la sua morte a Cetona. Andezeno è l’origine minore, il luogo mai comunicato e già pronto forse, nella sua pace, a compiangere il più inaspettato dei viventi, venuto a chiarire tutta la sua discrezione. Torino fu spesso dichiarata insoffribile da Guido ma Andezeno mai, mai scomunicata. In questa preferenza l’insospettato sogno di calarsi dove non si era già più da molto tempo oppure dove non si nacque e si rimase ombre.
Per raggiungere il cimitero si attraversa tutto il paese costeggiando in cerchio la chiesa di San Giorgio fino a che, imboccando una strada sterrata, si giunge alle porte sibilline e spopolate. Le sepolture sono poche, come si conviene ad un luogo di poche anime che resistono ad abitare, le porte si chiudono al suono dello stesso fischio. Le croci non sembrano pregate, non illuminate, solo rimesse qua e là ad altro sguardo, rimesse allo spazio, all’estremo rendimento. Potremmo definirlo un cimitero di campagna per la sua monacazione e le chiavi inesistenti, per il suo essere in alto e quasi non essere al servizio del basso ma soprattutto per quel senso tutto pagano della fede, come di cicatrice, di gergo immolato che lentamente rapprende.
Le radici vi crescono e trapelano siepi, piccoli arbusti o grandi anime come alberi ma dietro al cortile sono i fiori gli interpreti, riversi in insolite inclinazioni del capo; con quei petali sazi e tumefatti non hanno quasi espressione, anzi sembrano tutti falsi, ruvidi, ridotti in vesti degne di morenti instanti. Al di fuori del cancello macchine sparse di uomini che non si aggirano, che non puoi incontrare, a causa dei pochi stradelli, intimi e infiniti.
Quando i campisanti sono così modesti sembra che i morti ci si siano recati in branco, oppure a coppie, alcuni forse senza una spalla ma insomma tutti pronti, tutti sempre pronti e da sempre. Troppo piccola e perfezionata, anche se distrutta o oscillante, la fossa perché casuale; i fiori, le catene, i gingilli esposti a corredo e pure i vuoti di memoria non rovinosi ma volutamente sfocati, cancellati dal tempo che li comanda e che viene a servire le scritte, le voragini. Si erano mossi pare, avevano premuto le fronti ma una volta accomodati nulla più che un violento misurarsi con le pietre, nulla se non questo prendere i cocci, i residui e far trapassare le voci nei materiali; spaccare gli oggetti, tenerne solo alcuni pezzi e usare il resto del loro labiale; serrarsi le bocche, i vocaboli, non avere nulla da dire; riposare ancora e poi ripoggiare la fronte, cominciare.
La sepoltura di Guido era un lenzuolo, letto coniugale, una cava onoraria, una stigmate d’aria buona, l’ultimo sangue dell’amore. Le date apparivano e scomparivano, non c’era da fidarsi di quell’ordine: 1927-2018-1297-1108-1792, troppi echi e amici che contano ancora, pure senza mani.
“Poeta e teatrante”. Il vero encomio va però a questo abbinamento di parole giuste, assolute, inderogabili, scelte per non frammentare il caso, la sorte di chi sceglie. Al principio di questa tavola un libro segreto, aperto, vuoto, un dizionario di parole essenziali con più riflessione, e sotto di esso l’angolo formatosi quasi naturalmente, il vuoto della testa, la decapitazione. Avrei voluto lasciare in questo cantuccio i compiti, quelli che mi ero ripromessa di eseguire, le cianfrusaglie raccolte nei secondi prima, nei secondi dopo la nascita, le pagine, le penne, i recapiti; ma non poggiai altro, sotto l’arco del libro di marmo, che un piccolo amuleto sottratto al fuoco latino della chiesa di Sant’Anselmo. In quel lascito tutta l’apparenza di una fede, la scristianizzata sofferenza degli addii e delle maledizioni, il non poter più o non poter ancora degli uomini che non si sono incontrati, non si sono difesi, mai nessun gesto tra di loro, nessuna ora. Un amuleto e la strada esigente di chi si inchina, discepolo o maestro.
Avrei voluto soprattutto esibire una certa commozione teatrale, una lacrima che rigenera, che lascia al miracolo il suo andirivieni comico e ride dentro sé senza amarezza del contatto caldo, soporifero con l’acqua buia. Invece piansi in anticipo, quasi più per nervosismo, nel sospetto di un incontro, di un’apparizione; piansi per paura di non morire mai più, di non essere sotterrata abbastanza in fondo, di non trovare un fondo; piansi perché la morte non era là e non c’era verso di trovarla, tutto brillava e la ricognizione era impossibile.
L’attesa contraeva le ombre e l’aria, come d’argilla, prendeva misure, tastava i visi, le forme; un’aria di abbraccio, di colpa, di rifugio, un non voler andarsene dal pericolo, dalla paura e una necessità accesa e spenta, ora vera ora nuova preghiera; un colpo da ogni parte del corpo, un non sentire più il corpo; un grande sole nel cielo, nuvole, strade e voci umane senza sapore di bocca, senza masticar di saliva.
Infine il tornare indietro, verso le cose riposte, nelle nuove città. Sono finalmente in pace.