“Il poeta è il nemico della società, il poeta è un paria”
Politica culturale
Si scrive ‒ a volte, spesso ‒ per ricordare gli immortali, per sentirseli più vicini, quasi accanto a sé. Si scrive come per fare memoria, cosicché la loro fama risalti almeno per un giorno ancora, prima di ritornarsene (loro, e noi con loro) nell’oblio di carta e di parole.
Li si legge, quindi, per poterne parlare a qualcuno; a quel qualcheduno che manco conosciamo, e che pur ci aspetta, attendendo il miracolo della bellezza.
Ed ora che le mie librerie sono piene di moltitudini, questi immortali sono sempre un po’ di più conosciuti e amici ‒ compagni di una sera, quanto meno.
Tra questi, ora, voglio ricordarne uno ‒ anzi, una. E lo faccio a maggior ragione, in quanto non ero affatto a conoscenza della sua esistenza e della sua opera. Vorrei rammentare e scrivere di Ángela Figuera Aymerich, che nasce a Bilbao nel 1902. Dopo aver conseguito la laurea in Lettere e filosofia, si trasferisce con la famiglia a Madrid, dove comincia la sua attività di insegnante di scuola media. Insieme al marito, Julius Figuera, vive i tragici momenti della guerra civile. Ha così inizio il suo esilio interiore accompagnato da un lungo peregrinare per diverse località della Spagna. Alla fine della guerra ritorna a Madrid dove sopperisce alla difficile situazione economica con un impiego alla Biblioteca nazionale. Soltanto nel 1948 compare la sua prima raccolta di poesie, Mujer de barro (Donna di fango), alla quale seguono Vencida por el án angel (1950, Vinta dall’angelo), El grito inútil (1952, Il grido inutile), Vispera de la vita (1953, Vigilia della vita) e Los días duros (I giorni duri), dello stesso anno. Nel 1958 viene pubblicato in Messico il suo libro Belleza cruel (Bellezza crudele), con una introduzione di León Felipe, cui fece seguito Toco la tierra (1962, Tocco la terra). Una particolarità è il fatto di esser stata anche scrittrice di poesia infantile. Muore a Madrid nel 1984. Insieme a Blas de Otero e Gabriel Calaya, fa parte dell’importante “triumvirato bascoˮ della poesia del dopoguerra, in cui la scrittrice ha innestato una netta visione femminile dei problemi sociali.
Siamo di troppo
È così pieno il mondo. Terribilmente pieno.
Di montagne, di piante, di caserme e officine.
Di case con vicini e di bianchi ospedali.
(Ogni tanto vi è un fiore. Non reciderlo, amico.
Qualche volta dei fiumi come vene smarrite.)
Quanti treni, aerei, carceri, torpediniere,
motori e banche e cinema e osterie.
Sale operatorie.
Tante graziose stelle e insegne luminose.
(Cognac Barbier, Calzature Eureka e altre ancora.)
(E poi anche automobili veloci e più belle
di arcangeli di acciaio con le ali piegate.)
Donne esultanti. (Rouge aux lèvres. Sigarette.)
E bimbi che singhiozzano dietro le pareti,
la madre accanto dorme con una pietra al collo.
E bebè custoditi in lettini cromati,
ben pasciuti fra trine e latte condensato.
Dolciastre zitellone col loro cagnolino.
Ragazze dallo sguardo divinamente ottuso.
E biondi adolescenti cui strani desideri
Fanno rizzare il pelo.
Il mondo, soprattutto, di uomini è pieno.
Quante mani superflue, camicie rappezzate,
scarpe sdrucite che lambiscono gli asfalti.
Quanti occhi e quante bocche appostate voraci.
Quanti cervelli bianchi e pensieri come pesci
rotanti fra benefici cachet di aspirina.
Per non parlar dei dotti. Quegli strazianti dotti
che vegliano giocando con oscure parole:
Ciclotrone, supersonico, cibernetica e altre.
È così pieno il mondo, ch’io, vi assicuro, amici,
non saprei dove mettermi.
Non so se avrò mai posto.
Son di troppo i poeti.
Si scrive, dunque ‒ per forza, e per fortuna ‒ per alzare la mano e dire: Eccomi! Son di troppo, ma esisto, respiro e ha un senso questo mio dire ‒ questo mio cantare…
Si scrive quindi e appunto per qualcheduno che manco ci conosce, ma che pur tuttavia potrebbe trarne giovamento. Si legge e si scopre soprattutto un incanto, perché la letteratura è infinita, e nulla di più chiediamo a essa. Cosicché essa stessa ci sovrasta e ci attraversa. Ci prende per mano nel pericolo dell’insonnia, come nella notte della solitudine. Soprattutto per dirci che un’opera (che ogni opera!) ne è valsa la pena costruirla, ammaestrarla al destino, ricondurla a un senso.
Si legge e si scrive, in fondo, per esclamare: Dai! Che bello. (Giorgio Anelli)
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Poeta
Più di un giorno mi duole di essere poeta.
Di aver labbra, aver gola, che si apprestano al canto.
Ben facile è vivere quando solo si vive
muto e sobrio, schivando stordimenti e ricerche.
Ma colui che è poeta né in mezzo al tumulto
né imboscato otterrà il suo riposo sulla riva.
Perché a occhio senza palpebra è negata la notte
che perenne e insidiosa gli si accende e si affila.
Perché tutto il mistero, gabbiano stramazzato,
gli martella il lembo delle sue tempie nude
e, in bocca, di impossibile bellezza stremate
s’accalcano e s’inceppano le enormi parole.
Perché egli vive e lo sa. Perché egli muore e lo sa.
Ma quel grido convulso di vita e di morte
è un falcone ribelle divorato da nubi.
Oceani, cicloni, boschi, astri abitano
l’àmbito angusto che il suo cranio circonda.
Uccelli, onde, radici, battiti, armonie,
per la rete dei nervi vibranti l’avvolgono.
Che brama di contorni gli esaspera le dita!
Che brama di cammini gli fa fremere i piedi!
E nel petto gli cresce il suo imperioso destino.
E, né dentro né fuori, sulla fine tangente
che in un punto appena alla certezza si adatta,
vigile e solitario, insonne e sonnambulo,
il poeta mantiene l’insicuro equilibrio.