Che cos’è poi la patria? Quando ogni cosa intorno a noi sembra crollare e portare via con sé l’immagine del mondo che ci ha fatti, a quale luogo, a quale sangue possiamo afferrarci per difenderci dall’esilio in cui il nascere ci ha messi?
E hai voglia a parlare di sciovinismo, a tacciare come beceri e violenti i moti della carne e dell’istinto, che tra corpo e terra c’è un legame profondo e inscalfibile quanto quello tra corpo e spirito. È il corpo che lega lo spirito alla terra, ed è la cura della terra che fa scoprire al corpo il germoglio dello spirito.
Lo sa bene Charles Péguy (1873-1914), che dell’amore per la terra e per la sua gente si è fatto servitore per tutta una vita, fino a morire con una pallottola in fronte nella battaglia della Marna. E lo sa così bene che proprio vivendo questo amore viscerale, non rinnegandolo ma vivendolo, si incammina su una strada che lo porta dapprima ad abbracciare un ideale di socialismo universale e umanitario, quindi a convertirsi al cattolicesimo. Una conversione che lui descrisse sempre non come un cambio di direzione, ma come un’accelerazione in linea retta della vita condotta fino ad allora.
Sarà per questa linea più retta di quanto appaia che già molti anni prima della conversione – nel 1897, quando lui ne ha poco più di venti – Péguy decide di reincarnarsi nell’icona più cara ai francesi, la pulzella di Orléans, e di riviverne la vocazione, la passione guerriera e la morte nel suo Jeanne D’Arc, play dal sapore medievale da recitarsi in tre giornate. E sarà ancora per questo, per questa intuizione d’eterno, che modellando la giovane Jeanne ne legge con esattezza e profondità il dramma, la sospensione tra una vocazione tanto chiaramente intuita e il desiderio di una vita ordinaria e contraria al proprio destino.
Sarà per questo, infine, che in questi giorni in cui vocazione e destino, malgrado noi, vengono a crepare i piedi d’argilla delle nostre vite e dei nostri piani, la Jeanne sedicenne che parlando con l’amica Hauviette prende coscienza di sé e della sua strada, la Jeanne che si affonda nel legame con la sua terra e con il suo spirito, ci sembra così vicina, così non-eroica, così in fondo ragionevole e umana. (Daniele Gigli)
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Da Jeanne D’Arc – prima pièce A Domremy, seconda parte, atto I
(dialogo tra Hauviette e Jeanne)
J. – E mi dicevi che non c’erano notizie!
H. – Non è una notizia, questa. Quando un malato è in agonia da tre settimane, e vi si annuncia che ormai è come se fosse morto, non è una notizia che vi si dà.
J. – Ma tu non mi hai annunciato la morte della Francia, Hauviette: mi hai solo detto che gli Inglesi metteranno sotto assedio Orléans.
H. – È lo stesso: presa Orléans, è preso tutto; due o trecento cavalli qui, altrettanti al signore di San Michel, altrettanti laggiù, lungo la Mosa: tutto questo, è come se fosse fatto, ormai.
J. – Tu non mi hai annunciato che Orléans sarà presa, Hauviette: mi hai detto soltanto che gli Inglesi metteranno sotto assedio Orléans. È sulla Loira, Orléans?
H. – Sì, mi hanno detto che sta sulla Loira.
J. – Dev’essere forte quella città.
H. – Dev’essere ben forte: quando si è soli del tutto a resistere a tutta la massa degli altri, bisogna pur arrendersi a un certo punto.
J. – (…)
H. – … E poi… forse andrà meglio…
J. – Come?
H. – … Non sai che cosa mi ha detto Mengette, stamattina?
J. – No…
H. – … Mi ha detto… che sembra… che alcuni… che dicono così… che… se gli Inglesi si prendono tutto forse andrà meglio…
J. – Come! Dicono così!
H. – Sì… Perché allora… se gli Inglesi si prendono tutto… non si combatterà più. Non si farà più questa guerra cattiva.
Non ci sarà più battaglia; non ci sarà più la guerra.
Non ci saranno soldati; non ci sarà sofferenza.
Non ci sarà più sofferenza dei corpi; non ci sarà più sofferenza delle anime.
Le case saranno salvate, e salve le chiese.
Non ci saranno bambini che vanno piangendo affamati per strada.
E noi finalmente potremo mietere le nostre messi.
Un silenzio. Jeanne alza le spalle.
H. – Lo sai, Jeannette, non sono io che lo dico: sono le persone che ti ho detto che Mengette mi ha detto.
Un silenzio.
J. – Senti un po’: tuo padre ha una casa, qui nel borgo?
H. – Cielo! Sì, come il tuo, come tutti.
J. – E la casa di tuo padre non è di Pietrone il conciatetti; né di Louis Vaslin che fa i carri; né di mio padre o mia.
H. – Cielo che no! Perché è del mio!
J. – Bene. Così è il regno: il regno è la casa del re; il regno è del re: non può essere degli Inglesi. È molto semplice.
H. – So bene che il regno è del signor Delfino. Ma non è tutto, avere il proprio buon diritto; ci sono delle volte che bisogna cedere alla forza.
J. – Non prima che si abbiano usate tutte le forze della guerra fino in fondo. Finché ci resti un uomo d’armi per dare un buon colpo di spada, finché ci resti un solo paesano per dare un buon colpo di falce, bisogna non cedere.
Traduzione italiana e cura di Daniele Gigli
*In copertina: Eugène Thirion, “Giovanna d’Arco sente le voci”, 1876