11 Agosto 2022

“Sempre annoiato e scalzo in riva all’acqua”. Sia lode ora a Raffaele La Capria

Abdica alla vita in un giorno d’impazienza, Raffaele La Capria, nella spigolosa incompiutezza dei novantanove anni, snobbando la perfezione della circolarità, la banalità della cifra tonda. Nell’esordio narrativo sembrava aver già inciso il suo epilogo, “Duddù”, a soli trent’anni, aria da giovane inquieto, svagato profeta in maglione celeste, “sempre annoiato e scalzo in riva all’acqua”, avrebbe scritto di lui Anna Maria Ortese, amica a sangue freddo, serpe nel seno di Partenope.

Aveva il culto della “bella giornata” e a vent’anni contrabbandava versi di Eliot, prima del debutto letterario – Un giorno d’impazienza (Bompiani, 1952) – con cui mise in scacco una generazione di autori ancora agganciata agli ultimi postumi di neorealismo. Aspergeva il lettore con stille di puro esistenzialismo, La Capria, come un Sartre partenopeo, mentre gli davano del Moravia. A Napoli, del resto, il realismo era già superato dalla realtà.

Quindi, gli anni di Sud – che lambì la perfezione con soli sette numeri – fatali alla sua coscienza stilistica. Il biennio ’45-47, tempi in cui il furore ideologico si sublimava anche attraverso le riviste culturali e la lotta per la “rivoluzione spirituale” si faceva erotismo intellettuale. Puro anacronismo. «Noi nasciamo oggi insieme a questo giornale intitolato Sud. La nostra nascita anagrafica si è perduta nel buio che ci ha preceduti. Nasciamo da una morte con l’ansia di essere finalmente vivi», scriveva, con esoterica immaturità, il direttore Pasquale Prunas nel primo numero, a soli due mesi di distanza dall’uscita del “rivale” Politecnico di Vittorini. Si professava, Sud, contro la letteratura dei letterati, “molto abile e poco utile”.  

Fu la genesi editoriale delle “giacchette grigie di Monte di Dio” – come da sovietica visione della Ortese, germe di inimicizie –, La Capria, Luigi Compagnone, Tommaso Giglio, Domenico Rea, Giuseppe Patroni Griffi (la cui casa funse da redazione romana), Gianni Scognamiglio, Vasco Pratolini. Poesia, letteratura, politica, cinema, a intrattenere una scarna manciata di abbonati, e numerose traduzioni, dai poeti inglesi agli esistenzialisti francesi. Giunsero poi le discettazioni di Emanuel Mounier – teorico del “personalismo” –, stralci del Journal di Julien Green, i racconti di Thomas Wolfe, interventi di Mounin, Vercors, i versi russi di Esenin e di un ancora sconosciuto Pasternak. Futuri capisaldi del Novecento, nessun editore scelse di pubblicarli.

Imberbe e appassionato, La Capria traduce per Sud le poesie di Dylan Thomas (La forza che spinge, La crocifissione, La luce nasce dove non brilla il sole, La memoria di Ann Jones), Cecil Day Lewis (Il conflitto), Auden (La notte cade sulla Cina e Ora, straniero) e Stephen Spender (Il viaggio). Primo in Italia a redigere un saggio sulla poesia inglese del Novecento, più che riferirsi alla letteratura italiana dell’epoca, cercò di riprendere il rapporto che un certo intellettualismo dell’entre-deux-guerres aveva perduto con la letteratura europea. Sua, anche la prima traduzione de L’esistenzialismo è un umanismo di Sartre – i lettori gridarono al reazionarismo – edita in due parti su Sud, sul quale, a partire dal secondo numero, curò una rubrica sulla letteratura straniera, inaugurandola con un saggio su Cristopher Isherwood – gli italiani avevano già letto Addio a Berlino e lui, in originale, Lions and Shadows. Lo definì “secco e forte come un whisky”. «A suo paragone Hemingway, che era ancora il nostro maestro, e Faulkner sembravano uno un po’ troppo stilizzato, l’altro un po’ troppo stentoreo». Di Hemingway, infine, stroncò gli eccessi nichilisti di Per chi suona la campana.

«Sud non ha il significato di una geografia politica né tantomeno culturale; il Sud ha per noi significato di Italia, Europa, Mondo. Sentendoci meridionali ci sentiamo europei», recitavano come un mantra i redattori, per non cedere alla cultura della napoletanità, d’ostacolo a quel “parlare europeo” ancora lontano della narrativa, incapace, quest’ultima, di giungere sulle stesse rive cui era approdato il pensiero – quello crociano su tutti –, più libero, meno immerso nella realtà rispetto alla letteratura.

Guardava infatti a Canetti, Kavafis, Borges, Singer, Raffaele La Capria, senza mai cedere, come narratore, alla rassicurante fisionomia del contesto partenopeo, a quel punto di vista “dal basso” che avrebbe disinnescato nel romanzo ogni tensione con i suoi personaggi. Della “mistica della plebe” fu tenace detrattore, non recitò mai l’ipocrito mea culpa del borghese progressista che, attribuendole salvifici valori – in una “miscela di populismo, sinistrismo, post-sessantottismo rivendicativo, e terzomondismo utopistico” – finiva solo per aggravarne la magra condizione.

«Il sociologese e l’antropologese ideologico sono i linguaggi preferiti da questi fondamentalisti della napoletanità oscura e superiore, e sono stati prontamente metabolizzati dalla letteratura e dal cinema delle periferie, dal teatro dialettale d’avanguardia e dai cantautori tutto cuore e ideologia», scriverà, poi, in Neapolitan graffiti.

Prima di Sud, sotto le armi, di sera, nel 52° Battaglione Universitari Allievi Ufficiali, traduce i testi di Gide insieme ad Antonio Ghirelli, per isolarsi dal contesto. Sono accampati in un uliveto nei dintorni di Brindisi e Les Nouvelles Nourritures funge da esercizio mentale, da divertissement.

«Ce ne stavamo sdraiati sotto la tenda, e mentre la luce del giorno lentamente declinava tra i rami degli ulivi, ci sforzavamo di rendere in italiano il ritmo e la musicalità di quella lieve prosa gidiana così difficile da imitare nella nostra lingua. L’immagine di Gide che veniva fuori da quel libriccino era quella di un mediterraneo a caccia di terrestri felicità, un Gide sorretto da un niccianesimo un po’ rosato che a noi pareva, dati i tempi e la circostanza, un po’ troppo estetizzante, ma comunque buono per l’esercizio linguistico cui ci eravamo dedicati e per la distrazione che ci procurava».

Anni dopo, con un Gide vecchio e avvolto in un mantello marrone “diabolico e monacale, di foggia vampiresca” – complice dell’incontro l’amico Jan Greenlees – avrebbe passeggiato in via Caracciolo, sul lungomare di Napoli. Cercò di tradurne la persona, i gesti, lui gli risultò sfuggente e inafferrabile come la sua opera.  

Traduttore di spregiudicata presunzione, durante la guerra, La Capria non teme il dissenso del PWB (Political Warfare Branch).

«Chi avrebbe potuto censurare Eliot? E una traduzione come la nostra, così ben intonata all’originale? “È questa la primavera inattesa/ che ha rotto il suo patto col tempo/ e imbianca i filari di effimeri fiori di neve”, eccetera… chi avrebbe osato?».

Pubblica quindi una plaquette con uno dei Quattro quartetti di T.S. Eliot, insieme a Tommaso Giglio, distribuita agli amici e in rare librerie. Il suo Little Gidding, iniziava così:

«La primavera fiorita nel cuore dell’inverno
è la sola stagione che in questo posto non muta:
anche se dilegua sotto i raggi del sole
rimane eternamente sospesa nel tempo».

Anni dopo, ancora insieme, lui e Giglio, fra le mani Assassinio nella cattedrale, commissionato da un Patroni Griffi ormai affermato regista. Traducono a distanza, uno da Milano, l’altro da Roma, al telefono, con continue interruzioni, fra giornali e Rai. I tempi di Sud sono finiti da un pezzo.

A riunire gli animi di Sud arriva, vento gelido, l’infausto 1953, con l’uscita de Il mare non bagna Napoli. Il capitolo incriminato, la polemica con Anna Maria Ortese, l’autrice – sguardo da falena, capelli da spagnola – che ferisce a morte i suoi colleghi. “Il silenzio della ragione” – ultimo capitolo del libro-reportage che le valse il Premio Viareggio – le costò un vivo ostracismo da parte delle sue amicizie partenopee.

«Anna Maria Ortese, appartiene alla schiera tormentata e a volte melodrammatica dei visionari» scrisse di lei La Capria, che non le perdonò di avere, con la sua scrittura esaltata, viva di visioni forzate, di malcelate nevrosi, infilzato l’uomo come un insetto, una farfalla – ne paragonò la freddezza a quella di Capote – condannandolo non per l’operato specifico, ma per la sua essenza ultima. Accusò, la Ortese, di sottomissione al silenzio della ragione, quegli intellettuali borghesi che avrebbero dovuto operare per il cambiamento, di aver ceduto alle lusinghe di un “ministero nascosto per la difesa della natura”, materno e conservatore.

E mentre il lettore, nel Mare, non vide che una plebe dalle sembianze di topi pestiferi e “l’eterna folla di Napoli, semovente come un serpente folgorato dal sole, ma non ancora ucciso”, si interrogava pubblicamente, La Capria, su cosa sarebbe accaduto se quel tipo di attacco fosse stato invece commesso nei confronti di Vittorini e di Pavese.

«Non si sarebbe discusso della cosa? O si sarebbe fatto finta di niente? Io credo che tutti gli addetti ai lavori sarebbero insorti e avrebbero toccato, chi più chi meno, questo punto. Ma ne Il mare l’abuso colpiva due scrittori napoletani già pregiudizialmente destinati nell’opinione dell’establishment letterario ad essere per lo meno “caratteristici”. E che aveva fatto la Ortese? Aveva solo resa più spietata e letterariamente più pregevole la caratterizzazione».

E fu l’unico, forse, ad esprimersi con efferata grazia, resa ancor più lucida dalla distanza. Viveva a Roma, infatti, già dal 1950, lontano dalla “poetica ambivalenza” del golfo di Napoli, con le sue due sponde, omerica e virgiliana, distante da quelle acque il cui fondo «è cosparso di pochi scogli bruni contornati dai ciottoli bianchi in una disposizione che li fa rassomigliare a un giardino zen giapponese finito sotto il mare». Sarebbe poi arrivato lo Strega nel 1961 per Ferito a morte – sparò dritto al lettore in mezzo agli occhi, come a una cernia –, il matrimonio con Ilaria Occhini, nipote di Giovanni Papini, nel 1966. Non deficitò, la sua esistenza, di una nota pop, tipica del partenopeo travasato nella capitale. Fu consuocero, infatti, per un periodo, di Antonello Venditti, lontano ormai da circoli nautici e tavoli verdi, dalle porosità del tufo di Palazzo Donn’Anna e dalle acque di Capri, coi suoi Faraglioni “simili a macigni scagliati in mare dall’ira d’un ciclope o dalla forza di un nume primigenio”.

Il mondo lo osservò di lato, fino alla fine, come la spigola, ombra grigia profilata nell’azzurro.

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