Napoli. Qui dove gli affetti diventano culto e decadono in vizio e follia. Tra le pagine de Il mare non bagna Napoli, premio Viareggio 1953 (Adelphi, 1994), la scrittrice Anna Maria Ortese (1914-1998), Napoli ha un suo struggente ma aspro ritratto che dà il titolo alla raccolta di racconti, tra le pieghe di Oro a Forcella. Una “selvaggia durezza” quella dei vicoli, al livello del marciapiede, gonfi di bambini che, come topi, muovono qualche passetto dentro e fuori dalla tana, tra urla e pianti.
Entriamo nel fittissimo “tappeto di carne” di San Biagio ai Librai. “Non vedevo le lenzuola di cui è piena la tradizione napoletana, ma solo i buchi neri a cui un tempo furono esposti: finestre, porte, balconi con una scatola di latta in cui ingiallisce un po’ di cedrina”. “Alla base del vicolo, come un tappeto persiano ridotto ora tutto grumi e filamenti, giacevano frammenti delle immondizie più varie, e anche in mezzo a queste sorgevano pallide e gonfie, oppure bizzarramente sottili, con le grosse teste rapate e gli occhi dolci, altre figurette di bambini”. Bambini dappertutto, perlopiù scalzi, con sandaletti consunti, tenuti insieme con lo spago. C’è chi, tra loro, benedicendo, imita un prete. Si intravede, infatti, nella folla, una coppia di preti altissimi “con le mani di cera chiuse intorno a un libro di pelle rossa”. Il culto sacro, infatti, tra le vie di Napoli, è il contraltare di questa informe, sfortunata umanità. “Faceva contrasto a questa selvaggia durezza dei vicoli la soavità dei volti raffiguranti Madonne e Bambini, Vergini e Martiri, che apparivano in quasi tutti i negozi di San Biagio dei Librai, chini su una culla dorata e infiorata e velata di merletti finissimi, di cui non esisteva nella realtà la minima traccia. Non occorreva molto per capire che qui gli affetti erano stati un culto, e proprio per questa ragione erano decaduti in vizio e follia; infine, una razza svuotata di ogni logica e raziocinio s’era aggrappata a questo tumulto informe di sentimenti, e l’uomo era adesso ombra, debolezza, nevrastenia, rassegnata paura e impudente allegrezza. Una miseria senza più forma, silenziosa come un ragno, disfaceva e rinnovava a modo suo quei miseri tessuti, invischiando sempre più gli strati minimi della plebe, che qui è regina”.
Qui dove il mare non bagnava Napoli. Perché “in questa fossa oscurissima, non brillava che il fuoco del sesso, sotto il cielo nero del sovrannaturale”. Come in questi giorni senza Dio, una folla si muove in fila verso “una delle porte più maestose che abbia mai osservato”. Si tratta di povera gente. Sul frontone dell’edificio in fondo al cortile una scritta in latino “O Magnum Pietatis Opus”, “ma dietro, invece di lettini, si allineavano gli sportelli del Monte dei Pegni”. Del Banco di Napoli. L’altro volto dei negozi d’oro di cui è piena San Biagio dei Librai. I negozi hanno la vetrinetta opaca e il banco assi levigato per il passaggio di gomiti e mani per oltre un secolo. Nel negozietto “una larva d’uomo con gli occhiali, che bilancia nella mano cauta e osserva silenziosamente un oggetto brillante, mentre una donnina o una vecchia, in piedi davanti al banco, lo spia con ansia”. Ma al banco dei pegni correva una grande agitazione, dal momento che proprio quel giorno era arrivato l’ordine di pagare il meno possibile per ogni pegno.
Nella folla si staglia, infelice tra gli infelici, una merciaia, “zagrellara”, Antonietta De Liguoro. Era lì per impegnare una catena dato che suo marito doveva partire per Torino, dove il figlio maggiore si trovava gravemente malato. “Una specie di movimento popolare portò subito quella donnetta, di cui ognuno sapeva ora vita e miracoli, davanti allo sportello, scavalcando la feroce burocrazia del turno”. Il dialogo tra la zagrellara e l’impiegato è crudamente impietoso. Non basta nemmeno l’apparire di una farfalla marrone con tanti fili dorati sulle ali ad alleviare il dolore di quella umanità preda di un’“antica ingiustizia”. Tutto quell’oro sulle ali non è che un effimero sogno di leggerezza. L’incontro letterario di Anna Maria Ortese con Napoli è poetico e tragico. Il riflesso di una condizione esistenziale. “Il Mare era solo uno schermo, non proprio inventato, su cui si proiettava il doloroso spaesamento”. Ma non soltanto di Napoli, quanto dell’intera umanità. “Rivederla e compiangerla non bastava. Qualcuno aveva scritto che questa Napoli rifletteva una lacera condizione universale. Ero d’accordo, ma non sull’accettazione (implicita) di questo male. E se, all’origine di tale lacera condizione, vi era appunto la infinita cecità del vivere, era questo vivere, e la sua oscura sostanza, che io chiamavo in causa”.
Linda Terziroli