09 Aprile 2019

Anna Achmatova e Rainer Maria Rilke traduttori di Leopardi

Quest’anno, si sa, sono i 200 anni dell’Infinito di Giacomo Leopardi, la poesia più celebre del ‘canone’ italiano. Quest’anno il fato mi ha assegnato un corso di letteratura italiana per universitari stranieri, in terra nostra per i progetti Erasmus. Ho quattro studenti: due russe, che provengono dalla prestigiosa università di Mosca, e studiano cose letterarie, e due tedesche. Mentre insegno come è possibile vedere l’infinito dietro una siepe, una russa, edotta al mio amore per la poesia del suo paese, mi ricorda che anche Anna Achmatova ha tradotto L’infinito di Leopardi. Al che, blocco tutto e mi inalbero di gioia.

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In effetti, annoto. In alcune lettere – che leggo in: Anna Achmatova, Io sono la vostra voce…, Edizioni Studio Tesi, 1990 – la Achmatova accenna al suo lavoro traduttivo. “Noi vivremo semplicemente come Lear e Cordelia in una cameretta e tradurremo Leopardi e Tagore e crederemo l’uno nell’altro”, scrive Anna al poeta e complice Anatolij Najman, il 31 marzo del 1964, da Mosca. Che immagine stupenda: la traduzione serve ad avere fiducia l’uno nell’altro, a cedere all’isolamento, a concedere l’amare. Un anno e mezzo dopo, Anna ricorda a Iosif Brodskij: “Con Tolja [Anatolij Najman] stiamo terminando la traduzione di Leopardi”.

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Il lavoro di Anna Achmatova dentro Leopardi dura il getto dei suoi ultimi anni, anni importanti. Fine 1964: alla Achmatova, ultima rappresentante della grande poesia russa, è concesso il viaggio in Europa; prima in Italia, dove le viene conferito l’Etna-Taormina, poi all’Università di Oxford, a ritirare una laurea in onore e a incontrare l’amico – e amante velleitario – Isaiah Berlin. Nell’autunno del 1965 è pubblica l’ultima raccolta della Achmatova, La corsa del tempo; lei morirà il 5 marzo del 1966. Il libretto con le traduzioni di Leopardi, che funge quasi da testamento, è pubblico nel 1967. “Nella raccolta, con una tiratura di trentamila copie, furono tradotte 24 poesie, che circolarono ampiamente in Urss… Si può affermare che il grande merito della raccolta di traduzioni del 1967 è consistito nel saper attualizzare l’opera poetica di Leopardi, rinnovandone e amplificandone la fortuna anche grazie a scelte stilistiche e traduttive” (Marco Sabbatini in Contributi italiani al XV Congresso Internazionale degli Slavisti, Firenze University Press, 2013).

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Rainer Maria Rilke traduce “L’infinito” di Leopardi nel gennaio del 1912, poco prima di scrivere la prima delle “Elegie duinesi”

Provo a farmi tradurre L’infinito secondo Anna Achmatova. Il russo ha una dolcezza arcaica, dicono che ricorda il poeta ottocentesco Evgenij Baratynskij. Sostiamo un po’ sull’ultimo distico: “E fra questa/ immensità i miei pensieri si disfano/ mi è dolce affogare in questo mare”. La sovranità di Leopardi sembra mescolarsi alla levità nostalgica della Achmatova (“il mio cuore ha quasi paura”; “ascolto il fruscio del vento/ confronto questo suono a quel/ silenzio infinito”). “I due poeti si incontrano ancora una volta: al culmine della disperazione, nella preghiera. Ma non capiremmo sino in fondo questa comunione se non capissimo che questa comune preghiera nasce dall’identica domanda dell’uomo, che vuole capire e dire sino in fondo il senso del proprio esistere: vuole ritrovare il senso della propria umanità mortale e finita di fronte all’infinito, come succede con Leopardi, o vuole ritrovare e restaurare il mistero del volto umano di fronte alla riduzione e alla negazione dell’umano tentata dai regimi totalitari, come succede con l’Achmatova”, ha scritto Adriano Dell’Asta in calce a Requiem. Poema senza eroe. Traduzioni da Giacomo Leopardi, per la cura di Carlo Riccio e pubblicate, nel 2011, dall’Istituto Italiano di Cultura di Mosca.

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La traduzione di Leopardi è, anche, per Anna Achmatova, un rapporto con i morti, con il tempo stritolato. Dal 1919, infatti, è il marito, Nikolaj Gumilëv, a tentare una traduzione ‘moderna’ – cioè, una specie di riscrittura, secondo la moda rinnovatrice e non riepilogativa di quell’epoca – di Leopardi. “Gumilëv si dedicò intensamente a Leopardi, e a molti altri autori stranieri, nell’estate del 1919, uno dei tre anni di fruttuosa collaborazione con ‘Vsemirnaja Literatura’. È cosa nota che Gumilëv, insieme ad Aleksandr Blok, Kornej Cukovskij, Evgenij Zamjatin e agli orientalisti Sergej Ol’denburg e Ignatij Krackovskij, fu – sin dalla sua fondazione nel 1918 – una delle colonne portanti della casa editrice ideata da Maksim Gor’kij allo scopo di predisporre la traduzione in russo di un’enorme quantità di classici stranieri, scelti tra le letterature di diversi paesi europei ed asiatici” (Francesca Lazzarin, Giacomo Leopardi (ri)tradotto da Nikolaj Gumilëv: due frammenti inediti dai ‘Canti’, in “Europa Orientalis” 31, 2012). Il lavoro, rapace – Gumilëv ha tradotto tanto, soprattutto dal francese, “anche e soprattutto per garantire una fonte costante di reddito a sé e alla sua famiglia” – fu interrotto dalla fucilazione del poeta, nel 1921. Gumilëv, volitivo fondatore dell’acmeismo, che si separò da Anna nel 1918, è il padre di Lev, il figlio, poi recluso in prigione, per cui la Achmatova scrisse l’impressionante Requiem. Secondo la testimonianza di Najman, “le bozze con le note a margine e i tentativi di versione dello stesso Gumilëv vennero serbate nelle credenze dell’Achmatova per più di quarant’anni per essere poi riscoperte per puro caso”. Come non vedere, allora, nell’immersione in Leopardi un canto gettato nell’orda del passato, intriso nel rancore, di mirabile rimorso?

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Leopardi e in particolare L’infinito hanno un legame particolare, una atrocità e un attorcigliamento biografico, con i grandi poeti del secolo scorso. Nella sua traduzione delle Elegie duinesi Michele Ranchetti segnala un legame tra la Quinta elegia e le Operette morali, ricordando che “a Duino, nel gennaio 1912, Rilke traduce Leopardi (L’infinito)”. Il gennaio del 1912 è uno dei momenti di cristallo di Rilke: il 21 di quel mese termina la Prima elegia poi scrive la Seconda, abbozza la Terza e brani della Decima. Come se la lettura di Leopardi lo abbia confermato nel suo progetto, una basilica della lirica. Nella lettera al traduttore polacco Witold von Hulewicz, del 13 novembre 1925, esplicitando l’ispirazione delle Elegie, Rilke calca pensieri che sembrano ‘leopardiani’: “La natura, le cose che tocchiamo e usiamo, sono transitorie e caduche; ma, fintanto che siamo qui, sono il nostro possesso e la nostra amicizia, sanno della nostra miseria e gioia, come già furono i confidenti dei nostri avi… Siamo le api dell’invisibile… Ora, dall’America, arrivano cose vuote e indifferenti, cose apparenti, imitazioni della vita… La terra non ha altra via di scampo che diventare invisibile… solo in noi può compiersi questa intima e duratura trasformazione del visibile nell’invisibile, in ciò che non dipende più dall’essere visibile e tangibile”. Nell’Infinito Leopardi vede l’invisibile (l’infinito) dietro il visibile (colle, siepe) e tramuta il secondo nel primo, nel dolce naufragio.

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Rilke precipita Leopardi nel proprio tono lirico, astraendolo dalla siepe marchigiana a una rocca marziale. “Ultimo orizzonte” diventa “tumulto lontano dei cieli”; “Così tra questa/ immensità s’annega il pensier mio” diventa – mi aiuta a capire la studentessa – “Quindi/ il pensiero sprofonda nell’eccesso”. Il “naufragar” di Leopardi diventa una parola (Unter-gehen) spezzata, a segnare il crollo delle parole, tra penultimo (Unter) e ultimo (gehen) verso: “Af-/ fondare”. Qui c’è un tracollo tutto, di uomo e linguaggio, nella quiete, che non può non ricordare, con aghi, la chiusa delle Elegie: “E noi che la felicità la pensiamo/  in ascesa sentiremmo la commozione,/ che quasi ci atterra sgomenti,/ per una cosa felice che cade”.

Davide Brullo

*In copertina: Anna Achmatova (1889-1966)

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