Poeta per vocazione, anzi, per incarnazione, Rilke vive: scrive. La sua vita è poesia – una monade indissolubile. Poeta, Rainer Maria Rilke, lo è stato in ogni momento della sua vita, in ogni sua parola e in ogni sua azione, anche mentre si lavava le mani, scrive Rudolf Kassner; il gesto d’una sua mano e l’azzurro del suo sguardo quando si levava o si abbassava erano anch’essi dei versi, dice Felix Berthaux.
Chi lo conobbe non esitò a definirlo un personaggio magico.
“Se la parola magico ha un senso”, scrive Valéry, “dirò che tutta la sua persona, la sua voce, il suo sguardo, i suoi modi, tutto in lui dava l’impressione di una presenza magica. Si sarebbe detto che sapesse trasmettere la potenza del fascino a ciascuna delle sue parole […] I suoi occhi bellissimi vedevano ciò che io non vedevo: presagi, tracce o sottotracce, coincidenze significative, presentimenti che gli suggerivano di agire o di astenersi in diverse evenienze rispetto alle quali io mi stupivo che si potesse manifestare quella sensibilità”[1].
Mentre gli altri parlavano, Rilke restava in silenzio; eccelleva nell’arte di ascoltare, raccoglieva in sé i dettagli di ciò che gli altri dicevano o facevano per adunarli nella “grande arnia d’oro dell’Invisibile”[2] – per poi trasfigurarli in canto. Di questo magico senso che s’irradiava dalla sua persona si sono resi interpreti concordi, oltre a Valéry, anche Stefan Zweig e gli amici francesi, Paul Valéry e André Gide, Maurice Betz e Félix Berthaux[3]. Ebbero tutti la stessa impressione, avvertendo in lui un’appartenenza a mondi remoti e misteriosi.
“Il suo passo era leggero, il suo tono di voce sommesso. Nessuno lo sentiva arrivare”, scrive Stefan Zweig, “sedeva in silenzio e in ascolto, alzando involontariamente le sopracciglia appena qualcosa sembrava interessarlo e, quando toccava a lui parlare, lo faceva sempre senza foga o ostentazione. Discuteva con la semplice naturalezza con cui una mamma racconta una fiaba al suo bambino, con la stessa affettuosa tenerezza. Appena però si accorgeva di essere divenuto il centro dell’attenzione di un gruppo numeroso, s’interrompeva, sprofondando nuovamente nel suo ascolto attento e silenzioso. Ogni suo gesto, ogni suo atteggiamento denotava questa leggerezza; quando rideva, si udiva soltanto un suono lieve e trattenuto. Il tono in sordina era per lui una necessità”[4].
Silenzioso, mite, solitario, i grandi occhi azzurri irradiavano della loro luce interiore i tratti lievemente slavi del volto, la piega un po’ amara della bocca sotto i baffi spioventi. Quando le palpebre si abbassavano lentamente sembravano trattenere dentro di sé i dettagli d’un intimo risucchio interiore[5]. Così guardava il mondo Rainer Maria Rilke, con i suoi grandi occhi di poeta.
La necessità di un atteggiamento riservato si accompagnava al bisogno fisico di ordine e pulizia. Vestiva con cura e buon gusto. E questo senso estetico si manifestava anche nei suoi manoscritti, redatti con quella sua impeccabile calligrafia tondeggiante, nitida e regolare.
Quale ordine, quale precisione. E quale delicatezza nell’ascoltare e confortare gli altri, questa forse, sì, il suo dono più prezioso: l’empatia, di cui l’epistolario fornisce ampie testimonianze. Osservando bene le sue lettere manoscritte si può vedere un’intensità unica in quel tratto di inchiostro nero. Forse fu davvero quella la sua forza nella vita nomade – angelica e tremenda – e che non può evitare di manifestarsi in quell’eccezionale equilibrio di segni, un tratto che non mente su di lui e che ancora oggi disegna la silenziosa mappa di un’anima: una consapevole calibrazione di mano e spirito.
Si sentiva a suo agio nell’anonimato; abitava di preferenza vecchi edifici, per i quali nutriva un’autentica passione, ancorché meno confortevoli. Accanto a lui non mancavano mai fiori e libri, tanti libri, accuratamente foderati, compagni perfetti con cui inoltrarsi nei reconditi meandri del suo mondo interiore. Solo alcuni gli erano però indispensabili e due in particolare erano sempre con lui, ovunque si trovasse: il Niels Lyhne di Jens Peter Jacobsen e la Bibbia, i cui echi si rifletteranno lungo tutta l’opera. Sul suo scrittoio, penne, fogli e matite erano allineati in ordine perfetto.
Con lo stesso meticoloso ordine curò la sua opera, che crebbe silenziosamente, lentamente, dolorosamente, come un’autentica missione; sono tuttavia pochi quelli che hanno davvero conosciuto la sua vita, il suo mondo interiore, la sua più recondita officina[6]. Era come avvolto da un ferreo riserbo, circonfuso di un’aura misteriosa, segreta, mistica.
Su quell’aura si è soffermato a più riprese Edmond Jaloux, arrivando a definirla visionaria e medianica. Nel farlo, ci ha regalato un inedito ritratto della conversazione di Rilke in un prezioso libro di memorie, di recente riapparso in Francia: La dernière amitié de Rainer Maria Rilke pubblicato da Laffont nel 1949[7]. Leggere e tradurre quel ritratto – di cui si riportano alcuni passi memorabili tratti dal terzo capitolo La conversazione di Rilke – è un po’ come parlare con lui, nei regni dell’invisibile, in un colloquio che sfugge al tempo e allo spazio, alla ricerca di quello spazio interiore di mondo cui la vita di Rilke si è interamente dedicata.
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“Uno degli aspetti affascinanti della sua conversazione era proprio il fatto che non vi era in lui alcuna di quelle banalità, di quei giri di parole falsamente cerimoniosi, di quelle maniere borghesi che molti mostrano a chi non conoscono. Ti parlava, non con familiarità – non ne sarebbe stato capace – ma, in un certo senso, intimamente.
Entrava subito nei dettagli delle cose più alte e sottili, con una facilità incantevole, quella di un uomo che non vuole soffermarsi sui luoghi comuni della vita quotidiana e torna subito al suo vero ambito, all’ambito imperiale ove ha eletto domicilio”.
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“Bisogna subito dire che Rilke stesso era avvolto da un’aura di singolarità. Solo Marcel Proust poteva competere con lui in questo senso.
[…] Rainer Maria Rilke appariva; sembrava emergere dalla più completa solitudine, dalla più favolosa lontananza, per accoglierti e, se necessario, per uscire con te. Dietro di lui c’era un abisso di giorni e notti, un lungo tunnel pieno di preghiere e incubi, di ansie e tormenti. Non se ne liberava subito, vi rientrava volentieri con te. E più si abbassava a parlarti, fissando su di te i suoi occhi intensi e ingenui, più il suo volto sorrideva d’un sorriso meraviglioso.
Quando quello che diceva era particolarmente poetico, si alzava dalla sedia come se dovesse scappare e, prima di riprendere il suo posto, faceva il gesto di una mano che prende il volo, con un braccio leggermente alzato e che sembrava indicare una pista o una meta a qualche rondine smarrita, a qualche ape vagabonda. Poi il suo sguardo si faceva più profondo e commovente, e si aveva l’illusione di essere infinitamente più vicini a lui, mentre ti coinvolgeva nella sua speranza o nel suo entusiasmo.
Le parole che pronunciava erano nello stesso stile de I Quaderni di Malte Laurids Brigge; quasi tutte alludevano all’interregno della vita [e della morte] che è come l’intermezzo tra-cane-e-lupo del giorno. Così, abbassando la voce, quasi sussurrando, il suo viso si illuminava, i suoi gesti erano cadenzati, e dava ai suoi aneddoti o ai suoi ricordi quell’alone di distanza e di gravità che nessun commento potrebbe resuscitare”.
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“Quando ci incontrammo [all’hotel Savoy a Losanna] per la prima volta, mi confidò una singolare avventura che gli era capitata a Monaco intorno al 1916. Immaginatevelo, quasi timido, appassionato, esitante, vibrante come un pioppo attraversato dal vento, che racconta quanto segue:
A Monaco di Baviera durante la guerra, dopo la smobilitazione, uscivo a volte all’imbrunire per passeggiare nel mio quartiere. Le strade erano buie e tristi; non c’era traffico. Un giorno, mentre camminavo, vidi un paio di donne venire verso di me dall’ombra, una coppia di donne che mi colpì per la sua diversità e la sua singolarità. C’era una vecchia signora, tutta vestita di nero, con il viso devastato e gli occhi rossi di lacrime. All’inizio ho visto solo lei. E, di fronte a un lutto così recente, non ho potuto fare a meno di pensare che fosse una madre il cui figlio era appena morto in una battaglia recente. Ma l’altra donna! Quella che camminava rigorosamente accanto alla vecchia e che non era vestita di nero! Non era vestita come una persona che voleva uscire; no, lei aveva un corpetto di pilou – si dice così in francese? – e una gonna marrone. Niente sui capelli. Una borghese non esce così per strada, o almeno non lo faceva a quei tempi.
E mentre mi avvicinavo a loro, mi accorsi con stupore che la donna con i capelli accompagnava devotamente l’altra, ma che l’altra sembrava non vederla. Non girava la testa verso di lei, né le parlava. Così scortata, lei era sola, sola con l’insormontabile solitudine di tutte le donne in lutto.
Mi avvicinai a loro, gradualmente, e all’improvviso, quando fui molto vicino, vidi che la ragazza con i capelli era scomparsa. Non era potuta scappare, non era né davanti né dietro; aveva semplicemente cessato di essere percepibile alla mia vista e compresi allora che la donna in lutto non sapeva che la sua compagna fosse lì, che non l’aveva riconosciuta nel suo breve passaggio, e che era questa ragazza che lei aveva perso e che stava piangendo e che di tanto in tanto vegliava su di lei, senza che lei lo sapesse.
Chi non avesse letto I Quaderni di Laurids Brigge avrebbe potuto sorridere o prendere Rilke per un pazzo. Ma io capii, in quel momento, che quella storia era rigorosamente vera e che Rilke apparteneva a quella razza di poeti per i quali l’invisibile è solo la parte in ombra del visibile, ancora distinguibile come, nelle limpide notti d’estate, si discerne l’intero globo lunare, accanto alla mezzaluna.
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“Ma per darvi un’idea il più possibile precisa della conversazione di Rilke, devo arrivare a quella che era l’essenza stessa delle sue parole, ovvero le sue preoccupazioni d’ordine metafisico.
Non è che cercasse di spaventarsi, né di illudersi, ma era la sua stessa natura a non credere né alla vita né alla morte in modo assoluto; o meglio, entrambe erano l’altra faccia e l’altro lato dello stesso fenomeno, il presente, il passato e il futuro erano per lui una cosa sola, e gli erano preziose tutte le prove in cui la nostra apparenza di esseri viventi si intersecava con la presenza dei morti. La sua era una visione semi sperimentale e gli era del tutto peculiare, come il colore verdastro dei suoi occhi o la morbidezza della sua pelle dei suoi occhi o la dolcezza musicale della sua voce. Le Elegie di Duino e i Sonetti a Orfeo sono una testimonianza lampante di questa concezione dell’essere.
Va detto che, da questo punto di vista, vi era in lui un lato visionario, assolutamente autentico. Per quanto si possa comprendere il significato di questa parola, egli era un medium. E questo è talmente singolare che, dopo la sua morte, Rilke continua a sopravvivere attraverso i ricordi di coloro che lo hanno conosciuto, attraverso segni, messaggi, coincidenze straordinarie”[8].
*La cura del testo e la traduzione dei frammenti sono di Marilena Garis
[1] Paul Valéry, Un ricordo in Rainer Maria Rilke, Le rose, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi), 2010, p. 57
[2] Rainer Maria Rilke, Noi siamo le api dell’invisibile. Lettere da Muzot, a cura di Franco Rella, De Piante, Milano, 2022, p. 81 (traduzione)
[3] Così Vincenzo Errante, Rilke. Storia di un’anima e di una poesia, Alpes, Milano, 1930, p. 5. A Errante dobbiamo un contributo fondamentale alla scoperta di Rilke in Italia, grazie alle sue accurate traduzioni dell’opera e alla sua monografia appena citata che riporta i contenuti delle sue lezioni presso l’Università di Pavia lungo l’anno accademico 1927-28, all’indomani della morte di Rilke
[4] Stefan Zweig, Il mondo di ieri, Garzanti, edizione digitale, Milano, 2014, pp. 329-330
[5] Vincenzo Errante, Rilke. Storia di un’anima e di una poesia, cit, pp. 52-53
[6] Stefan Zweig, La coppa di silenzio, Rosellina Archinto, Milano, 1989, p. 145. Nelle sue pagine, Zweig ritorna con gratitudine sull’incontro umano e poetico con Rilke e ne delinea un commovente ritratto. Emergono i tratti della sua forza morale, l’intima gentilezza della sua persona e l’eccezionalità della sua natura d’artista.
[7] Edmond Jaloux, La Dernière Amitié de Rainer Maria Rilke, suivi des lettres à Nimet Eloui Bey et Les derniers mois de Rilke, par Genia Tchernosvitow, Arfuyen, 2023. Jaloux ha contributo in modo decisivo alla diffusione dell’opera di Rilke in Francia, dopo la sua scomparsa. Il suo testo citato, inedito in italiano, pubblicato nel 1949 (l’anno della morte di Jaloux), ne serba la voce, intima e raffinata, e giunge ad una rara penetrazione dell’universo rilkiano.
[8] Ibidem, pp. 29-32; 36