13 Agosto 2023

“Quando distruggi, cerca di farlo con attrezzi nuziali. Chi è poeta abbia il coraggio di offrire nuda la propria opera”

In Italia fare la voce grossa sulle grandi questioni generali, ma alla fine senza dare fastidio a nessuno nello specifico, è uno sport nazionale forse ormai più praticato anche del calcio. Che si tratti di scuola, di ambiente, di politica o di poesia, non fa differenza. Così, mi trovo a dover puntualizzare qualcosa sul mio precedente articolo, Contro le prefazioni.

Intanto, grazie a chi ha mosso qualche osservazione di dissenso. Mi sembra sempre un esercizio utile prestare attenzione alle singole voci che muovono perplessità argomentate, anziché all’eventuale coro di plauso. Senza ansia di consensi unanimi. Detto ciò, avanti.

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Punto primo. Anzitutto, è bene diffidare di chi critica soltanto. Occorre essere costruttori, proporre e praticare soluzioni. A vedere i difetti sono buoni tutti. E chi scrive da anni, quando distrugge, cerca di farlo con attrezzi nuziali, ma non è il caso di ostentare qui presunti meriti, chi vuole informazioni le ha a portata di click. Il ragionamento critico dovrebbe essere rigorosamente impersonale e già qualche aneddoto nel precedente articolo ha infastidito qualcuno. In Italia solo Moresco o Parente si autocertificano. Dunque, il lavoro compiuto è lì, reperibile e serenamente valutabile.

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Punto secondo. La mia riflessione era generale, riguardava un fenomeno ormai portato a sistema. È facile tagliare alle radici qualsiasi ragionamento di tale natura, perché i singoli casi smentiscono agevolmente le tendenze e le teorie. Ma, di questo passo, si rischia di non poter parlare di nulla. Io stesso, ho esemplificato a qualcuno, preferisco, a livello teorico, tanto per dire, le poesie più lunghe, e con ottime argomentazioni, mi sembra. Ciò non toglie che sappia indicare poesie brevi meravigliose. Allo stesso modo, a livello sistemico sono molto scettico sulle scuole di scrittura, ma non sono così cretino da delegittimare un’esperienza che si ritiene diversa – anzi, la prenderei in considerazione con molta attenzione. Propongo però questa considerazione con cui fare i conti: chi analizza i grandi flussi di dati, per esempio sui social, individua tendenze certe e regole che le determinano. Si possono manipolare i consensi politici e gli orientamenti generali della massa: è stato dimostrato. Poi, però, a livello individuale, pare che di fessi non ce ne sia mai l’ombra. Siamo tutti furbi e consapevoli, presi uno per uno. Eppure, come la folla di manzoniana memoria, a mettere insieme troppi cervelli si innesca una sottrazione di intelligenza complessiva.

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Punto terzo. Il problema, di per sé di poco conto, delle prefazioni divenute vezzo o abitudine scontata, è affrontato dunque in un’ottica generale. Forse un singolo autore non ha elementi sufficienti per rendersi conto del fenomeno nel suo insieme, ma chi lavora in una rivista o conosce i cataloghi degli editori di poesia o riceve regolarmente libri in lettura si sarà ben accorto della tendenza che ho stigmatizzato. Non ho però numeri oggettivi da esibire né reputo le mie valutazioni frutto di rivelazioni divine. Quando si distrugge, poi, non si opera chirurgicamente. Il mio pezzo non è una tesi di laurea, ma una provocazione, che spero possa risultare utile a qualcuno. Anche qui, gratto un po’ sulla parete dove occorre assestare il colpo, con qualche quesito birichino: un autore importante, che potrebbe promuovere un libro su un quotidiano o una rivista qualificata o in qualsiasi altro modo autorevole, perché invece preferisce firmare una prefazione? E perché è così importante accompagnare con il pensiero critico un gesto creativo, di solito, poi, non particolarmente sperimentale o di difficile interpretazione? Naturalmente, il problema è sintomatico soprattutto quando il prefatore ha una sua autorevolezza, mentre magari l’autore è agli esordi o è meno noto. È la situazione più tipica, del resto.

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Punto quarto. Mi sono poi permesso l’allusione a qualche prefatore/predatore che può vantare una cospicua galleria di giovani poete che indossano il suo marchio di garanzia. Apriti cielo. Orbene, ci aspettano tempi sempre più duri, sul fronte del politicamente corretto a tutti i costi. E ovviamente ci sono donne che notano subito, nel corpo di un testo, il neo fastidioso sul viso o un po’ di cellulite fra le pieghe del discorso. A noi maschietti ancora grossolani, figli come il sottoscritto di un’altra epoca, certe smagliature sfuggono. Guardiamo troppo alla sostanza complessiva. Eppure, il senso generale di un articolo e un po’ di ironia dovrebbero ancora dar credito alla buona fede di chi scrive, senza che si debba scattare come paladine della giustizia al primo segnale sospetto. Fatto sta che, siccome non sono del tutto sprovveduto, avrei preferito, potendo, alludere a poete che firmano volentieri note introduttive a poeti bellocci, ma conosco solo il caso opposto. Ai firmatari della prefazione, peraltro, riservavo la mia ironia, da sbugiardare semmai come mascolina invidia, non certo alle poete, colpevoli al massimo di una ingenuità di fondo comunque riscattabile (sempre che non si tratti, a questo punto, di furbizia femminina. Del resto, l’opposto di un vero aforisma spesso è un aforisma vero). Ma se qualche donna si è sentita offesa, sappia che non era mia intenzione farlo. Tutto qui.

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Rilanciamo dunque in modo costruttivo la provocazione dell’articolo. Chi è poeta abbia il coraggio di offrire nuda la propria opera, accettando la verifica della storia, sperando nella forza intrinseca del proprio gesto. Chi invece apprezza un autore, specialmente se agli esordi o se poco conosciuto, si assuma la responsabilità di sostenerlo pubblicamente e con determinazione, compiendo i paragoni critici necessari per aiutarlo davvero a emergere, e mettendo così in gioco la propria stessa credibilità. Viviamo in un’epoca in cui le novità più significative verranno, con tutta probabilità, inesorabilmente sommerse, sempre che ciò non accada, a breve, anche per i presunti giganti: limitarsi ad apporre il proprio bollino su un libro poi abbandonato alla sua prevedibile sorte, anche contro le proprie intenzioni, rischia di essere un gesto consolatorio e dimissionario, e francamente un po’ paternalistico. I complimenti privati, o quasi, alla fine sono utili solo a chi li fa. Come insegnante, cerco di mettere in pratica una regola semplice: critica in privato, elogia in pubblico.

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Infine, cominciamo anche in poesia a pensarci come specie, non solo come individui. È un passaggio epocale da compiere a tutti i livelli. Se non ci responsabilizziamo dei comportamenti elevati a sistema e ci limitiamo a curare il nostro bel giardinetto, non lamentiamoci della nube tossica che avanza all’orizzonte.

Andrea Temporelli

Gruppo MAGOG