Può essere una questione di peso – per lo più si tratta di posa. Nella lettera alla “Carissima Sara” – la ricca e piuttosto avvenente Sara Murphy – da Key West, il 27 febbraio del 1936, si premura, soprattutto, di ricordare le misure, “giusto per la statistica, Mr. Stevens è un 6 piedi e passa per 225 libbre: quando cade a terra è altamente spettacolare”. I due si erano promessi di non dire a nessuno di quell’episodio. “Non dirlo a nessuno. Certo, puoi dirlo a tuo figlio Patrick. Potrebbe divertirsi”. Ernest Hemingway non può tacere un evento così glorioso. D’altronde, questa è una delle svariate differenze – perché questa è una sfida in cui non conta il corpo ma il corpus, non centrano i muscoli ma la fisicità dell’opera – che separano i due pugili. Da una parte c’è un uomo di spettacolo, dall’altra un tipo che ha fatto della riservatezza – acuminata fino a punte di velenosa crudeltà – il proprio carisma. L’anno prima, nell’arcipelago di Bimini, leccornia per i pescatori oceanici, Hemingway si era allenato di fino: “era in grado di offrire cento dollari a chiunque degli indigeni fosse stato in grado di resistergli per tre riprese con i guantoni da sei once (gli isolani essendo del tutto ignari della nobile arte, non correva poi grossi rischi)” (Masolino d’Amico in Album Hemingway, Mondadori, 1998). Un giorno, Hemingway – schiavo dell’Hemingway che scriveva, che recitava, che diceva di amare, così lontano, miglia, dall’autentico Hemingway – aveva tirato fuori dall’acqua un pescecane. La bestia si rovescia nella barca, salta, all’impazzata, come una falena a cui hai tolto le ali. Hemingway finisce la bestia con tre colpi di pistola. Poi sei. Uno, di rimbalzo, gli falcia la gamba, che idiota.
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La faccenda si risolve in fretta: Ernest Hemingway fa a pugni con Wallace Stevens. Il più influente scrittore del secolo abbatte – così dice – il più grande poeta americano del Novecento – che dice di aver messo all’angolo e preso a pugni EH. L’episodio, di per sé irrisorio, buono per la critica americana prona a fare di ogni accidente un mausoleo, ha, piuttosto, un senso emblematico. È come se in quell’istante, donato dal caso, si sfidassero due norme letterarie, due modi di stare al mondo, due galassie che combaciano a contrario. Hemingway vs Stevens, due creatori che combattono per avere dominio sul creato.
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Intanto, i fatti – ripercorsi con ostinata precisione, di recente da Olivia Rutigliano, su “Crime Reads”, in un pezzo piuttosto didascalico, That Time Wallace Stevens Punched Ernest Hemingway in the Face. “Ricordi Mr. Stevens? Quel simpatico Mr. Stevens. Quest’anno è tornato, piacevole come il colera, e prima che venissi a saperlo mia sorella Ura è entrata in casa, rotta dal pianto, dicendomi che durante una festa Mr. Stevens andava dicendo che non ero un uomo, che ero un cretino etc.”. Pare che non sia la prima volta che Stevens sbeffeggi pubblicamente di Hemingway. Sembra che l’austero poeta si diverta a provocarlo in differita. Naturalmente, Hemingway non aspetta altro che ostentare la propria rapida rapacità. “Così, una settimana fa, mi sono detto, è la terza volta che accade, ne abbiamo abbastanza di Mr. Stevens. Sono uscito, era sera, pioveva, incrocio Stevens; aveva appena finito di dire – me lo avrebbero riferito, poco dopo – ‘Dio, come mi piacerebbe avere qui Hemingway, lo stenderei con un pugno’”. Hemingway dettaglia a Sara Murphy l’incontro: “Stevens agitò il suo pugno leggendario, mancandomi, ovviamente; io l’ho buttato a terra diverse volte, e l’ho pestato di brutto. L’unico problema è che le prime volte che l’ho steso avevo gli occhiali. Li ho tolti, su insistenza di chi voleva vedere una bella lotta, limpida, senza occhiali; appena li ho tolti Stevens mi ha colpito la mascella con il suo pugno domenicale. E qui comincia il bello. Si è rotto la mano in due punti. Non mi ha fatto nulla, perciò ho continuato a menarlo, l’ho sistemato bene, fino a costringerlo a stare cinque giorni a casa con infermiera e dottore. Ma non dirlo a nessuno. Sai, lui ha una posizione rispettabile in una compagnia di assicurazioni… la versione ufficiale è che Stevens è caduto da una scala. Quindi, non dire niente a nessuno. Pauline [la seconda moglie di Hemingway, Pauline Pfeiffer, ndr], che odia quando combatto, era felice. Ura non ha mai visto una rissa prima d’ora: non ha chiuso occhio per paura che Stevens morisse…”.
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Sempre una lotta, un duello – in letteratura non è possibile la quieta convivenza tra pari: il linguaggio accade con inesorabile elezione, non accetta il proliferare di idoli, mette gli uni contro gli altri. Per altro, è la lotta a cementare il rispetto.
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Ora. I contendenti. Nel febbraio del 1936 Ernest Hemingway è uno scrittore di successo, è l’autore di Fiesta, Addio alle armi, Morte nel pomeriggio. Ha da poco pubblicato Verdi colline d’Africa, sta scrivendo uno dei suoi racconti più belli, Le nevi del Kilimangiaro. Due anni dopo, introducendo I quarantanove racconti – libro-zenit per chiunque pratichi la forma breve – parla dello “strumento con cui scrivi” come di qualcosa di “storto e spuntato” che occorre “affilare di nuovo sulla mola e ridargli la forma a martellate e renderlo tagliente come pietra”. Non ama ciò che è “lucido e splendente”, Hemingway: per scrivere usa martelli e lame. Ha 36 anni. Wallace Stevens, invece, in quel 1936, di anni ne ha 56, pesa 110 chili, ha pubblicato una importante raccolta di poesie, Harmonium, nel 1923, ed è tornato alla poesia proprio quell’anno, con Ideas of Order, dopo molti anni. La vita di Stevens, effettivamente, è ordinaria: in quei lunghi anni ha avuto una figlia, Holly (nel 1924), frutto dell’unione con l’unica moglie, Elsie Viola Kachel, bella, più giovane di lui di due lustri, che morirà insieme a lui – esito di un matrimonio riuscito? – nel 1955 – l’anno prima Hemingway ottiene l’agognato Nobel per la letteratura che avrebbe meritato, se in questi affari ha senso il merito, anche Stevens. In quei lunghi anni Stevens figlia e fa carriera: entra alla Hartford, importante compagnia assicurativa americana, di cui diventa vicepresidente nel 1934. Il lavoro gli piace; o meglio: la sua poesia straordinaria ha bisogno di una esistenza ordinaria; soprattutto, lontana dal pantano letterario. Da sempre ossessionato dalla poesia – nel 1914 “Poetry” pubblica alcuni tra i suoi versi maturi; nel 1916 è assunto alla Hartford – non se ne lascia assassinare: essa è come un Everest, dentro di lui, una Sion celeste, che non imbarbarisce la vita di ogni giorno, è altro. Niente è più distante da Stevens del poeta maledetto, del beat, del dannato da copertina – la poesia, piuttosto, ha un’ossatura tomista, la lucidità della prima benedizione su un mondo nuovo. La poesia va arata nel pudore: quando gli offrono di insegnare letteratura ad Harvard, Stevens declina l’offerta; quando, nel 1942, gli propongono di fondare una cattedra di poesia, Stevens suggerisce che a occuparla sia Hemingway, “il più significativo dei poeti viventi per quanto riguarda il tema della straordinaria attualità”. Non c’è soltanto una ironia in aceto, qui: per Stevens è importante una vita rispettabile a protezione della poesia, irrispettosa di ogni norma stabilita. Per Hemingway, a contrario – quattro mogli, tre figli, dozzine di amanti – è necessario sputtanare la vita per ostentare la scrittura. Hemingway è prigioniero dell’immagine che gli altri hanno di lui; Stevens dell’immagine di sé che vuole dare agli altri.
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Verrebbe da dire che proprio da quella scazzottata si biforca la letteratura americana: due formule altrettanto attraenti della scrittura. Una, quella di Hemingway, odore di sangue, ha il suo dio in Lev Tolstoj; l’altra si radica nella ragazza vestita di bianco, la dama di Amherst, già perché Stevens è l’incarnazione di Emily Dickinson in un bisonte in giacca e cravatta di tot chili.
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Stevens non era un tipo facile. A Key West – che frequenta con canonica periodicità tra il 1922 e il 1940 – trova da dire anche con Robert Frost. Proprio nel febbraio del 1940, un alterco li divide per sempre. “Le tue poesie sono accademiche”: così Stevens attacca Frost. “Le tue sono troppo astratte”, fa l’altro. E rimarca, “Le tue poesie non hanno argomento”. Chiude Stevens: “Il guaio è che le tue ce l’hanno”. La virilità di Stevens, diciamo così, è tutta nell’immaginazione. “La poesia è l’immaginazione della vita. Una poesia è un particolare della vita pensato tanto a lungo che il pensiero diventa sua parte inscindibile, oppure sentito così intensamente che il sentimento finisce col permearlo del tutto. Perciò quando diciamo che il mondo è pieno di oggetti reali così simili a quelli irreali dell’immaginazione da non poter distinguere gli uni dagli altri… ci riferiamo sempre a qualcosa che, attraverso il pensiero e l’emozione, è entrato a far parte di quanto c’è di più essenziale nella nostra esperienza di vita”, scrive in Stevens in L’immagine del giovane come poeta virile (in: L’angelo necessario, Se, 2000). Chi si sta menando, dunque, in quel luogo della Florida, in un disperso 1936, non sono Hemingway e Stevens, ma due visioni della realtà: che cos’è la realtà? Quello che penso – cioè: ciò a cui rimanda quella rosa, quel muro, quella casa – o quello che sento? La realtà è una sensazione intellettuale o fisica, è moto mentale o estetica carnale? Ciò che conta, infine, è l’opera – Stevens si fece silenziosamente vanto di aver dato un cazzotto a Hemingway, un ragazzotto di vent’anni più giovane di lui. Anche Stevens, voglio dire, aveva bisogno di spaccarsi la mano per sentire la poesia scorrere con virtù di rabbia. Da quella scazzottata, per altro, uscì più ispirato che mai: The Man with the Blue Guitar è pubblico nel 1937, Parts of a World nel 1942, una cangiante giovinezza lirica è garantita. Non erano poi così diversi nello sfigurare la forma: Hemingway usava il martello, Stevens un ago intinto nell’oro. Sapevano ferire, sapevano infierire – e le foreste che nasconde una ferita. (d.b.)
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Il senso ordinario delle cose
Cadute le foglie, torniamo
Al senso ordinario delle cose. È come se
Avessimo esaurito l’immaginazione,
Inanimi in un sapere inerte.
È difficile persino scegliere l’aggettivo
Per questo freddo vacuo, questa tristezza senza causa.
La grande struttura è diventata una casa modesta.
Nessun turbante percorre i pavimenti immiseriti.
La serra ha più che mai bisogno di una riverniciatura.
Il comignolo ha cinquant’anni e pende da una parte.
Uno sforzo fantasioso è fallito, una ripetizione
Nella ripetitività di uomini e mosche.
Eppure l’assenza di immaginazione doveva
Essa stessa essere immaginata. La grande vasca,
Il suo senso ordinario, senza riflessi, foglie,
Fango, acqua come vetro sporco, espressione di un certo
Silenzio, il silenzio di un topo uscito a vedere,
La grande vasca e la rovina delle ninfee, tutto ciò
Doveva essere immaginato come una conoscenza inevitabile,
Imposta, come impone una necessità.
Wallace Stevens
*La poesia è tratta da: Wallace Stevens, “Il mondo come meditazione”, Guanda, 1998, a cura di Massimo Bacigalupo