10 Agosto 2023

Contro le prefazioni. Ovvero, sullo stato della poesia contemporanea: amichetti, narcisi e lacchè

I poeti oggi sono così tanti, ma così tanti, che ogni occasione per certificare l’appartenenza alla categoria è preziosa. Va bene qualsiasi premiucolo, anche una segnalazione minuscola, un attestato di partecipazione a un corso, persino l’autocandidatura al Grande Torneo. Vedo note biografiche (note biografiche, non curriculum, i quali, non avendo limiti imposti, non si pongono limiti) strabordanti, in cui si ricorda qualsiasi timbrino di presunto prestigioso: il tale che ha partecipato a un festival in cui c’era anche il Tizio importante; il talaltro che è nella giuria (come segretario, ma è meglio non specificarlo) con il Famoso Scrittore; il libro uscito nella collana dell’Eccelso Poeta (ormai defunto, ma già in vita un semplice prestanome).

Dato per assodato che in poesia l’ipotesi di vendere è un’utopia (lo è in gran parte anche per la narrativa, ma questo è un altro discorso), il crisma di poeta dovrebbe essere somministrato dalla critica. Ma anche su questo fronte i tempi sono cambiati. Un Pier Vincenzo Mengaldo che scrivesse ora una recensione a un poeta semisconosciuto, finirebbe solo per sollevare invidie e maldicenze, sull’autore e su di sé. Scommetteteci. Quasi venticinque anni fa, quando uscirono diverse antologie di giovani poeti, Giovanni Raboni, con cui io non avevo alcun rapporto, ebbe la generosità di indicarmi tra i suoi preferiti. Erano ancora tempi in cui un intellettuale di chiara fama si permetteva di scrivere articoli su un quotidiano, senza sottrarsi alla responsabilità di un giudizio. Ebbene, il risultato di quel gesto fu solo un fiorire di leggende metropolitane intorno al sottoscritto. (E chissenefrega: giunte al mio orecchio, ne ho riso di gusto. Tanto che non mi sono opposto alla scelta del mio editore di riprendere quella testimonianza, per la copertina del mio libro).

Dunque, una raccolta di poesie, sempre a causa della produzione insostenibile, faticherà a trovare anche un minimo di attenzione. Fuori anzi da un eventuale giro di rapporti assodati, per lo più costruiti sul mutuo scambio, sarà difficile essere letti, figurarsi recensiti. I più disponibili, per sopravvivere all’assedio, tagliano il problema con la lama dell’anteprima: “Mandami qualche poesia, che pubblicizzo il tuo libro!”. In verità, questa frase significa: “Non interessa nemmeno a me leggerlo, operazione che oltretutto richiederebbe tempo, ma ricordati che io ti ho fatto un favore”. L’alternativa è la breve segnalazione: tre idee prese dalla quarta di copertina, tre notizie dalla biografia, tre frasette dalla lettera del poeta che piatisce attenzione o, qualora ci fosse, dal comunicato stampa inviato dall’editore, e il lavoro è fatto. Dieci minuti al massimo, quando si è stanchi e annoiati, a fine giornata.

Se una simile potatura vi sembra troppo drastica, considerate come l’endorsement consueto sia ben più agile: un like, al più un cuoricino con avatar simpatico che applaude, o un messaggio privato di elogi disinibiti. E via andare.

In questi giorni persino io, che mi limito a indicare quel che mi piace nei modi più disparati, derogando dalle incombenze quotidiane e dai capricci dei miei personali percorsi di studio e di scrittura, che mi impediscono il più delle volte di abbozzare una nota critica dignitosa, come pure vorrei – persino io, dicevo, sono tampinato da qualche poeta che, siccome mi ha inviato il libro, insiste per ottenerne un riscontro pubblico. In quanto a leggerlo, il suo libro l’ho letto (mentre lui, quasi sicuramente, non ha nemmeno preso in considerazione l’idea di leggere il mio: gli servo come critico, non come poeta). E gli ho anche risposto, esponendogli le mie impressioni e senza tacergli i miei dubbi. Dovessi davvero scriverne in merito, rischierei di stroncarlo. Niente, insiste e mi manda il link di siti importanti con scrittori di rilievo (beato lui, a me non mi filano nemmeno gli amici) che sono entrati nel merito della sua raccolta, con ragionamenti, a dire il vero, anche dotti e approfonditi, ma che alla fine non arrivano al dunque, non si espongono alla valutazione. Insomma, pare che io debba per forza rileggerlo, approfondire, rivedere la mia visione della letteratura, infine cambiare opinione e recensirlo come si deve. Se dovessi fargli notare la situazione, la risposta sarebbe prevedibile: “Non pretendevo certo di mutare il tuo giudizio, volevo solo continuare il confronto”. A quel punto, occorrerebbe spiegargli che negli ultimi tre o quattro mesi, sarà circa la trentesima persona che ha mandato una raccolta. E meno male che io arrivo da un decennio un po’ ascetico, in cui ho abbandonato la rivista che ho creato e ho rifiutato qualsiasi piccolo spazio di prestigio, anche minimo. Ai bei tempi, una tale quantità di proposte le smaltivo in un mese.

Intanto, però, i grandi classici sugli scaffali alle mie spalle se la ridono tra di loro.

Dove c’è un problema, comunque, alligna sempre un nuovo business. Così oggi, per avere “recensioni”, ovviamente tutte positive, basta rivolgersi alle agenzie giuste. Non occorre nemmeno faticare per trovarle, il banner pubblicitario comparirà sicuramente sul vostro smartphone.

La via più tradizionale, però, per rimuovere la faccenda, è un’altra. In poesia, la carriera di un poeta si misura da decenni in base al prestigio delle prefazioni ottenute. In narrativa vanno alla grande le fascette e gli strilli in quarta di copertina, con frasi iperboliche che non significano nulla, ma fingono un’esperienza emotiva in rapporto al libro (“Una volta iniziato, non ho potuto smettere di leggerlo!”, “Mi ha scosso fino alle lacrime!”, “Una vera sorpresa!”, “L’autrice ha superato sé stessa!” o, come nei temi di prima media, “Lo consiglio vivamente a tutti!”), che poi, vai a controllare, sono firmate da scrittori dello stesso editore o della stessa agenzia letteraria. Ci mancherebbe.

Ma in poesia, per fortuna, si è più poveri, dunque anche più sobri. Per ora. Tant’è vero che le prefazioni spesso sono davvero argute, profonde, meditate. E sorprendentemente lunghe.

Tuttavia, come ben sappiamo, un lettore con un minimo di esperienza, superato il trauma dell’addestramento scolastico, si lancia subito sul testo e non comincia affatto dagli apparati che lo appesantiscono. Semmai, riprenderà l’introduzione in seguito, ma solo nel caso in cui dovesse verificare certe impressioni o dirimere qualche aspetto meno chiaro. Eppure oggi, in assenza di atti critici che certifichino l’esistenza di un libro, ci sono due persone che riterranno la prefazione non solo utile, bensì utilissima, anzi fondamentale, per risolvere il problema direttamente alla sorgente: il poeta e il suo prefatore.

Se, teoricamente, gli aspetti positivi di una prefazione sono facili da indovinare, vale la pena mettere in luce qualche risvolto negativo.

Anzitutto, per quanto illuminata e lungimirante potrà essere la nota introduttiva, c’è sempre il rischio che risulti uno sguardo parziale, magari in grado di condizionare e inibire interpretazioni diverse. Per valutare appieno un’opera, si sa, occorrono anni, spesso decenni. Come non bastasse, gli umori letterari del momento, gli scenari immaginati e il contesto storico-sociale, se già attecchiscono nelle poesie, in una prefazione si attaccano come insetti sulla carta moschicida.

Fin qui, l’abbiamo presa alla larga, stando sul teorico. Ma avete presente il gioco di posizionamenti nella repubblica delle lettere? Se all’università la prima, oracolare e imbarazzante domanda che uno studioso si sente porre è: “Ma tu, di chi sei allievo?”, in poesia mettersi sulla scia di uno scrittore, e tanto peggio di un altro poeta, significa imboccare una via a senso unico che non prevede sbocchi laterali quantomeno fino al successivo ricambio generazionale.

D’accordo, ci sono valide motivazioni per sostenere la necessità di una prefazione. Talvolta, la nota critica è imprescindibile per la comprensione del testo, oppure è davvero particolarmente autorevole, o ancora segnala un sodalizio letterario profondo. E così via. Però, a parte il fatto che anche in simili circostanze, alla luce delle ragioni espresse, un intervento critico troverebbe migliore collocazione fuori dal libro, queste ragioni dovrebbero essere addotte per poche, significative occasioni. E invece, oggi, la prefazione al libro di poesia è una pratica quasi automatica, a tal punto che si è trasformata in un genere letterario a sé stante, un po’ come le pagine di ringraziamenti nei romanzi. Certe collane di poesia ci campano, sulle prefazioni. Le poche prestigiose le relegano magari al risvolto, con l’effetto di restare ambiguamente a metà strada tra una “quarta di copertina” e un’analisi d’autore: l’ambiguità permette di piegare il rigore su toni più esplicitamente pubblicitari, ottenendo così un effetto, paradossalmente, di minor qualità rispetto a imprese editoriali ben più modeste o addirittura caserecce.

Così, alla luce di queste considerazione divertitevi, davanti ai prossimi libri di poesia che vi capiteranno fra le mani, sbirciando la biografia di un autore. Tra un titolo e l’altro, fate caso al continuo smottamento: con prefazione di, con postfazione di, con nota critica di, con una lettera di, con una testimonianza orale di, uscito nella collana di, su suggerimento di… In simili casi, non avrete bisogno di controllare il nome del nuovo prefatore: siete già sicuri di avere sotto al vostro naso una frana.

Quand’ero giovane, e in parte altr’uom da qual ch’io sono, era leggendaria la generosità di Giorgio Barberi Squarotti. Firmava centinaia di prefazioni all’anno. Ricordo una bella nota al libro di un amico, allora esordiente. Entrava in particolare nel merito di una poesia con intelligenza e senza lesinare elogi, a dirla tutta nemmeno spropositati, secondo me, sebbene il poeta fosse appena quindicenne. Ebbene, quel mio amico mi raccontò che un paio d’anni dopo, finalmente, incontrò l’esimio critico, il quale non si ricordava della propria prefazione e, con stupore, chiese di poterla rileggere. Poi, si giustificò spiegando che scriveva le varie note per i libri dei poeti che si rivolgevano a lui piuttosto velocemente, nei ritagli di tempo, magari in auto (si avvaleva di un autista, ne deduco), perché non riusciva a negarsi a nessuno.

Ma qual è il confine tra la generosità e l’insensatezza? Domanda diabolica.

Così, ci sono poeti che firmano presentazioni come se distribuissero confetti nel giorno del loro matrimonio. Alcuni, poi, prediligono le poetesse – scusate, le poete, per lo più giovani – scusate, emergenti, e di bell’aspetto. Ma sia chiaro che con una simile constatazione non si vuole affatto alimentare maldicenze fin troppo banali e frutto di palese invidia, di cui noi stessi, poche righe sopra, ci siamo fatti beffe. Anzi, ne girassero pure sul nostro conto di siffatte. E invece no, non potrà accadere, perché per quel che ci riguarda abbiamo deciso di interrompere questa prassi tanto tradizionale quanto ormai rinsecchita: preferiamo non creare interferenze di voce, dentro un libro d’altri. Poi, stabilita la regola, si daranno pure rarissime eccezioni, giacché la carne è debole e c’è sempre un po’ di ragione anche nelle ragioni opposte. Ci mancherebbe.

Del resto, non occorre essere esperti di marketing per capire che far circolare il proprio nome è sempre conveniente. Inoltre, firmare una prefazione è un atto di prestigio, un riconoscimento di autorità. Se sei a tua volta un autore, è un po’ come ricevere il potere di distribuire raccomandazioni, come l’opportunità per marcare il recinto di una scuderia. Eccoci dunque di fronte a un altro caso in cui le scelte che si ritengono giuste, chissà perché, sono sempre quelle che comportano più danni che guadagni.

Forse, abbiamo clamorosamente toppato. Forse le prefazioni sono diventate il vero esercizio creativo, nei libri di poesia di oggi. Quindi, perché negare questa soddisfazione ai due protagonisti della vicenda? Mentre il lettore, posto che esista davvero, è già balzato oltre, lasciamo che sulla soglia del libro il poeta indugi per compiacersi delle belle parole con cui gli riconoscono il rango che gli compete. Rassicuriamolo: il suo libro è nato già battezzato e sarà salvo. Accanto a lui, dietro alle sue spalle, sbucano quindi gli occhi del prefatore, che a sua volta si compiace della propria autorevolezza: sì, è stato il padrino giusto della nuova creatura.

Perché dovremmo mugugnare, di fronte a tanta compiacenza? Smettiamola dunque con la posa moralista, non neghiamo almeno agli altri certe piccole soddisfazioni.

Purché, però, nessuno si inganni: la somma di due piaceri, lo si sappia, non dà per forza come risultato un atto d’amore.

Andrea Temporelli

*In copertina: Roland Topor nel Nosferatu di Werner Herzog (1979)

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