27 Maggio 2024

Álvaro Mutis, l’assedio di Costantinopoli e il sogno di un’editoria avventuriera

Álvaro Mutis è nella costellazione degli intoccabili perché è lo scrittore dei miei vent’anni. Nato a Bogotà nel 1923, morto novantenne a Città del Messico, Álvaro Mutis mi è sempre parso un incrocio tra Jorge Luis Borges e Corto Maltese. Di Borges – ovviamente – non possedeva l’onnivoro genio, la cartesiana veggenza; eppure, a dispetto di Borges, è riuscito a creare uno dei personaggi indimenticabili della letteratura del Novecento: l’enigmatico Maqroll il Gabbiere (“Maqroll el Gaviero”), specie di cupo hidalgo di cui poco sappiamo, impegnato tra oceani e giungle, tra Anversa e i fiumi amazzonici, tra solitudini equatoriali e amori clandestini, travolto da micidiali malinconie, fatto di impietrito cinismo e collaudata audacia. Maqroll appare la prima volta nell’opera di Mutis nel 1953 (nella raccolta poetica Los elementos del desastre), attraversa un numero imprecisato di poesie e diversi romanzi – raccolti nel ciclo “Empresas y tribulaciones de Maqroll el Gaviero”: il più bello s’intitola Un bel morir –; l’ultima volta lo vediamo in Tríptico de mar y tierra, pubblicato nel 1993, quarant’anni dopo la prima impresa.

Un tempo, Álvaro Mutis era lettura quotidiana. D’altronde, è stato tra gli scrittori sudamericani più importanti: tra i tanti premi, ha conquistato l’Asturias – andato, tra gli altri, a Mario Vargas Llosa, Juan Rulfo e Doris Lessing, Claudio Magris e Paul Auster – e il Cervantes, che prima di lui ha incoronato, per intenderci, Borges, Octavio Paz, Maria Zambrano, Ernesto Sabato. A me è sempre parso uno scrittore che spacca le finestre, entra in casa e ti trascina su una chiatta, ormeggiata nel canale. È uno scrittore che ha incantato il sole col suo muscoso lirismo. Piaceva anche a Fabrizio De André. Smisurata preghiera, l’ultima canzone dell’ultimo album di De André, Anime salve (1996), è un omaggio a Mutis, costruita su un patchwork dei suoi versi più abbacinanti.   

Ad ogni modo, oggi Álvaro Mutis non è più cibo da lettori comuni, non ci accomuna più la smodata gioia dell’avventura, il torbido languore di una inquietudine senza accessi, in eccesso. Einaudi – l’editore italiano di Mutis – ha gettato nel dimenticatoio diversi titoli dello scrittore colombiano. Il più importante – Summa di Maqroll il Gabbiere, fantomatica antologia poetica – lo trovate; gli altri no. Risultano afflitti dalla dida “non disponibile” testi australi come Abdul Bashur, sognatore di navi; Amirbar; Trittico di mare e di terra e Un bel morir. Un massacro. Probabilmente, riacquistare i diritti di Mutis non ‘conviene’: a chi conviene, d’altronde, pubblicare uno scrittore che è semplicemente bravo?

Tra i testi ingloriosamente finiti fuori catalogo risulta anche Storie della disperanza. Così s’intitolava “una raccolta di racconti inediti o dimenticati” curata da Gaetano Longo e uscita nel novembre del 2003, pochi mesi dopo la morte dell’autore. Gli ultimi testi raccolti nel libro sono degli Intermezzi: Mutis, evocatore di spettri e di specchi, narra frammenti di vita di alcuni personaggi che ha amato. Il talento del miniaturista – incapsulare un’esistenza in una pagina scarsa; conculcare un cuore in fiala di vetro; scorgere il tutto nel dettaglio – ricorda gli apocrifi sketch di Marcel Schwob, l’entomologo genio di Stefan Zweig. Di questi Intermezzi, il più bello si svolge nell’Atlantico del Sud: racconta l’esordio alla letteratura di Joseph Conrad. Il testo è dedicato al figlio di Mutis, Santiago Durán. In origine, questi Intermezzi sono stati raccolti da Mutis in un libro, La muerte del estratega. Narraciones, prosas y ensayos, pubblicato in Messico da Fondo de Cultura Económica, nel 1988. La quarta di copertina del libro ha tenore filosofico:

“Vita e morte si affermano simultaneamente, pare dirci qui Álvaro Mutis, perché entrambe pertengono all’individualità; tuttavia, la morte può essere affermata soltanto da coloro il cui impulso vitale è abbastanza forte da immaginare la riconciliazione della vita con la morte come un’estasi, tesa verso l’eterna vivacità. Il creatore di Maqroll il Gabbiere sa – come Pasternak e come Rilke – che l’arte è incessante meditazione sulla morte: per questo crea sempre la vita”.

Su quel testo si basa la traduzione di Giulia Nardini in calce all’articolo.

La traduzione ex novo di alcuni Intermezzi, ha messo in luce due problemi. Il primo riferisce la solita incuria; il secondo ha finiture borgesiane, da leggenda medianica. Partiamo dal primo. Gli Intermezzi (“Intermedios”) ideati da Mutis sono sei. Nell’edizione Einaudi ne manca uno, l’ultimo. S’intitola Intermedio en el Strand, ha per protagonista Georg Friedrich Händel; il grande compositore mangia in una taverna, osserva il traffico del porto di Londra, è roso da esotici tremori. Lo abbiamo tradotto per rimediare al malfatto.

Secondo problema. Intermezzo a Costantinopoli – il più cruento degli Intermezzi – racconta la presa della “Gloriosa capitale dell’Impero d’Oriente” da parte di Maometto II. Qui Álvaro Mutis si lascia andare ad alcune considerazioni ‘politiche’: monarchico per vezzo, lo scrittore crede che la presa del 1453 sia stata l’inizio della fine dell’Occidente; la fine, cioè, della “fede illimitata nei valori dell’uomo come persona e creatore di verità e bellezza immutabili”. I sultani – di ieri, di oggi – devastano sistematicamente l’individuo in favore dell’ideologia, la bellezza in virtù dell’obbedienza, la persona in vece del servile.

Il problema sorge quando Mutis parla del “giovane imperatore Costantino IX, della dinastia dei Paleologhi, vestito con la bianca tunica dei Basilei” (cito dall’edizione Einaudi), oltraggiato fino alla morte da “una nube di infedeli”. In realtà, il non più giovane – era nato l’8 febbraio del 1405 – Basileus dei Romei che muore in seguito all’assedio di Costantinopoli il 20 maggio del 1453, della dinastia dei Paleologi, non è Costantino IX ma Costantino XI. Sotto Costantino IX (non Palologo ma Monomaco), si consuma un’altra simbolica tragedia: lo Scisma tra la chiesa greco-ortodossa e quella cattolica. Era il 1054, l’imperatore sarebbe morto l’anno dopo, a più di cinquant’anni, non più giovane.

Il dettaglio è decisivo perché Mutis, riferendosi all’“alto monarca”, parla delle “sue guance di adolescente”. Forse lo scrittore colombiano fa riferimento – in un groviglio di memorie sovrapposte in barriera corallina – a Costantino XI Lascaris, il cui impero durò il tempo, tumefatto, dell’assedio di Costantinopoli da parte dei Crociati e della Repubblica di Venezia, narrata da Niceta Coniata nella sua truce cronaca, Grandezza e catastrofe di Bisanzio. Era il 1204. Di pallido aspetto, d’infima struttura, questo esangue Costantino morì trentenne.

Permane il mistero e gli annali bizantini – tra i più smaliziati e truculenti della storia – sono un regesto di despoti, di amanti ambiziose, di re per un lampo, di sovrani mistificatori. Forse Mutis non ha errato, ma riassunto, nel mai esistito Costantino IX Paleologo, l’assedio e lo scisma, l’Occidente in stimmate, incarnati nel re bambino, dal nitore cristico. Il tutto, però, merita un intermezzo nell’intermezzo, una storia nella storia, un Borges nel taschino.

Naturalmente, l’edizione Einaudi non fa cenno a nulla, accoglie l’errore come manna, di spalle, da vezzosa.  

***

Intermezzo a Costantinopoli

A Rodrigo García Barcha

Il tiepido mattino del 29 maggio dell’anno del Signore 1453 i turchi cominciano il loro ultimo assalto contro le mura di Costantinopoli, la Santissima, la Benedettissima e per sempre Gloriosa capitale dell’Impero d’Oriente, l’antica Bisanzio degli ellenici. Il sultano Maometto II, ebbro di ambizione e nel vigore dei suoi anni, sta per realizzare un vecchio sogno dei seguaci del Profeta: regnare dalla dorata capitale di Costantino il Grande. Al comando di duecentomila uomini e con un corpo di giannizzeri come avanguardia, il giovane sultano penetra dalle varie brecce che i suoi soldati sono riusciti ad aprire nelle mura secolari della città dei Basileis.

La porta principale è stata abbattuta. Il condottiero genovese Giustiniani, reclutato dall’imperatore per difendere la sua capitale, è stato raggiunto da una pietra scagliata dagli assedianti. I genovesi fuggono impauriti. I greci si trovano alla mercé degli infedeli. Un’atroce strage inizia a tingere di sangue il pavimento lastricato delle strade, le scale dei templi, il tre volte santo recinto di Hagia Sophía, dove riceve l’unzione dell’Autocràtore. Il sole di un impero che aveva celebrato da poco il primo millennio dalla sua fondazione, è sul punto di oscurarsi. Quella che doveva rappresentare l’avanzata della cristianità in Oriente, quella che apriva le porte alla ricchezza e al sapere dell’altra metà del mondo depositaria gelosa della feconda e sempre nuova tradizione dell’Ellade, la più grande e gloriosa capitale cristiana dopo Roma, si consumava in preda alle fiamme ed entrava a far parte del mondo chiuso, asfissiante, fanatico che misura la sua vita in base ai terribili precetti del Corano e ha dichiarato guerra all’Occidente fino alla morte.

Un’era si chiude per sempre. Con Bisanzio si perde l’ultima opportunità del mondo romano di regnare in Oriente. Un giorno i turchi arriveranno fino a Vienna e saranno, fino alla fine dei tempi, una minaccia costante per questa delicata trama di sapere, di tradizione umanista e di fede illimitata nei valori dell’uomo come persona e creatore di verità e bellezza immutabili, che costituisce la specie stessa dell’Occidente cristiano. Trentanove anni dopo questo giorno funesto e augurale, lo stendardo dei Re Cattolici aprirà un nuovo mondo, cercando di rimpiazzare l’eredità bizantina. Tentativo vano. L’uomo non riavrà l’occasione di adempire al più alto destino che ricorda il suo passaggio sulla Terra.

Ai piedi del palazzo di Blanquerna, il giovane imperatore Costantino IX, della dinastia dei Paleologi [ma il sovrano associato a questa dinastia è in verità Costantino XI, ndt], con indosso la bianca tunica dei Basilei, si difende da una nube di infedeli che lo accerchiano contro il muro della fortezza. Un manipolo di guardie che cerca di metterlo in salvo comincia a essere massacrato dai tagli incessanti delle scimitarre. Il monarca assoluto, con gli occhi scuri accecati dall’ira e dal dolore attacca e si difende come un leone. Sulle sue guance di adolescente scorrono lacrime di sdegno e coraggio. All’improvviso alza la voce e grida questa ultima supplica che riassume tutta la vastità della tragedia: «C’è un’anima misericordiosa che mi dia la morte?». Giorni dopo, fra le macerie, furono ritrovati solo i suoi sandali di colore oro consacrati dalla Theotòkos, la santa patrona dei greci.

**

Intermezzo nell’Atlantico del Sud

A Santiago Mutis D.

Nella piccola ma comoda cabina del primo ufficiale del Torrens, un veliero slanciato a tre alberi e di 1134 tonnellate, due uomini dialogano in mezzo al vasto silenzio di una notte stellata come se ne vedono solo nell’emisfero sud. La nave, una delle ultime a offrire il servizio misto di carico e passeggeri fra l’Australia e Londra, naviga in silenzio, col vento a favore, in direzione della capitale dell’Impero.

Il primo ufficiale, che ha il grado di capitano, è stato obbligato ad accettare questo lavoro con uno stipendio di otto libbre al mese, a causa della penuria di posti disponibili per il comando di una nave. È un uomo di piccola statura, gesti nervosi e aristocratici, capelli neri e occhi egualmente scuri, che si muovono con fare indagatore. Insolita mescolanza di gesti quasi femminili, adatti a una corte degli imperi centrali e virilità d’acciaio che emana dagli occhi pronti al comando e dalla voce gradevole e acuta di chi è abituato a prendere decisioni. Parla inglese in modo impeccabile ma con un imbarazzante accento slavo che spesso lo rende incomprensibile.

L’interlocutore di questo lupo di mare con i modi di un conte è un affabile giovane che sfoggia sulla cravatta i colori di Cambridge e che, senza volerlo, lascia intravedere nella sua parlata una solida cultura classica e una piacevole familiarità con i grandi nomi della letteratura di questo momento. È entrato nella cabina dell’ufficiale per restituirgli dei manoscritti che gli aveva prestato per, poi, ascoltare l’opinione di un esperto in materia. Le piccole mani fini del marinaio sostengono i fogli scritti con lettere minute, poco leggibili e dai tratti irregolari e febbrili. Dopo un lungo silenzio, l’ufficiale fissa il suo interlocutore e gli chiede: «Quindi? Le è piaciuto? Crede che ne valga la pena?». L’altro risponde con la parca certezza tipica di un inglese ben educato: «Molto». Suona una campana che indica il cambio di guardia. L’ufficiale del Torrens si alza in piedi e, mettendosi una giacca corta di panno pesante, apre la porta per far uscire per primo il suo ospite e passeggero. Non si scambiano altre parole se non un corto e cordiale “buona notte”.

Dopo aver montato la guardia, l’ufficiale si appoggia alla ringhiera del castello di prua e guarda l’oscuro e tranquillo disordine delle acque.

«Quindi», pensa «vale la pena. Questa storia di Almayer, il commerciante olandese divorato dal clima dell’arcipelago, sottomesso alla tirannia infantile e capricciosa della sua sposa malese, la sua lenta caduta e le sue sordide avventure con il ragià sul cui territorio c’è la fabbrica che gli aveva affidato Lingard, saranno, un giorno, argomento di un romanzo letto da innumerevoli e anonimi lettori. Curioso destino. Più di venti anni per mare e, ora, all’improvviso, pensa a iniziare la carriera di scrittore. Non è la prima volta che il caso gli offre dilemmi simili. Quanti altri si nasconderanno nel futuro incerto?» Alla fine del suo turno di guardia, la decisione è presa. Arrivato a Londra finirà il romanzo e lo invierà a un editore. Quale? Non importa. Uno vale l’altro.

Si spoglia lentamente mentre la lampada della cabina si inclina facendo gemere l’anello che l’ancora al tetto. Assorto, il marinaio pensa a che nome dovrebbe usare nella sua nuova vita: Konrad Korzeniowski? Joseph K. Korzeniowski? La K ha una sfumatura dura che lo infastidisce. Conrad, meglio. Sì, Joseph Conrad.

E quella notte, sotto la cupola illuminata dell’Atlantico in calma, nasce uno dei più grandi, più inquietanti e più originali narratori del suo tempo e di tutti i tempi.

*

Intermezzo nello Strand

A Gonzalo García Barcha

La sera, in una taverna dello Strand, il corpulento cliente ha cominciato ad annuire dominato da un sogno invincibile. Nel solito angolo dal quale osserva caricare e scaricare le navi che provengono dai più lontani punti della Terra, mentre consuma con appetito vigoroso abbondanti porzioni di stufato di carne e innumerevoli pinte di birra chiara, guarda i riflessi del sole sulle alberature, sul legno di teak levigato dei grandi velieri, sul bronzo delle amarre, sulle vetrate sudice del locale che dà verso il baccano del molo.

Lì passa lunghe ore in un dormiveglia che lo porta verso luoghi caldi e popoli abbronzati e seminudi, con l’aroma delle spezie, in mezzo alla delirante vegetazione sempre verde e sempre in fiore. Capitani e marinai gli hanno raccontato di queste terre, che lui ricrea all’infinito durante le sue sieste interrotte da qualche pipa, fumata con minuziosa parsimonia sassone.

È arrivato a Londra nel 1712, con la comitiva dell’Elettorato di Hannover che sarebbe diventato Giorgio I di Gran Bretagna. Nel 1726 è diventato cittadino britannico. I suoi rapporti con il monarca hanno avuto alti e bassi. Entrambi sono dominati da un carattere difficile e da un’idea di sé stessi piuttosto alta. Ognuno nel suo ambito.

Oggi è stimato a corte e gli inglesi lo trattano come uno di loro. Non ha nostalgia della sua terra. Le praterie monotone della sua Sassonia non gli dicevano nulla. Ama la vita variegata e inquieta del porto di Londra, le passeggiate sul Tamigi in allegra compagnia, l’amicizia gioviale dei lord, dei contadini e dei guerrieri quando c’è bisogno.

Nella sua memoria passano i ritmi e le canzoni della gente di mare, quella allegria contagiosa e smisurata di chi tocca terra e porta negli occhi l’ebbra nostalgia di altri mondi dove i sensi si abbandonano alla festa permanente di una natura generosa nel soddisfare i desideri più esotici. E così trascorrono le sere alla taverna, senza grandi incidenti, nella routine sfrenata dei porti.

Quella sera era un po’ malinconico. La sua consueta bonarietà gli è venuta a mancare. Sente che manca da un luogo in cui avrebbe potuto misurare, nella sua totalità, l’importanza dei suoi sforzi nel far percepire alle persone l’inesauribile e vasta meraviglia che gli passa per la mente. In una tabella dove si registrano le mercanzie che si scaricano sul molo, nota la data: 13 aprile 1742. E così si rende conto perché l’ansia lo infastidisce: oggi, proprio a quell’ora, inaugurano a Dublino, in una serata di beneficenza, l’opera a cui ha dedicato il maggiore sforzo e nella quale sente di aver riposto tutto il suo genio, il suo oratorio Il Messia.

Dal vasto petto del signor Haendel esce un respiro profondo. Sì, in effetti, sarebbe stato meglio essere presente per sentire l’effetto della sua musica fra i presenti. Alza le spalle e chiama il garzone perché gli riempia di nuovo il bicchiere. Un sapore soave lo invade di nuovo. Va tutto bene, ora. Ci sarà tempo per altre constatazioni. Sa che la sua opera vincerà il tempo e la memoria precaria della gente. Un sorriso gli si disegna sulle labbra piene e sensuali e si allarga al suo viso rotondo di sassone, soddisfatto e sensuale.

Álvaro Mutis

*Traduzione di Giulia Nardini

Gruppo MAGOG