Rodolfo Delmonte, dell’Università di Venezia, ha recentemente documentato (Computing the Sound–Sense Harmony: A Case Study of William Shakespeare’s Sonnets and Francis Webb’s Most Popular Poems, «Information», 2023, 14, 576) come, nel testo poetico, sonorità che di per sé dovrebbero evocare sensazioni piacevoli e stati d’animo lieti vengano a volte applicate, con effetto ora ironico ora drammatico, a idee e contenuti di segno opposto, con una sorta di “antifrasi fonosemantica”.
Molti lettori di poesia hanno certo notato, magari solo confusamente, a livello più d’intuizione e sensazione che di precisa coscienza, questo fenomeno, senza però avere gli strumenti matematico-statistici per documentarlo. In particolare, le vocali aperte tenderebbero di per sé ad evocare luminosità, pace, serenità; quelle chiuse sorpresa, serietà, rigore, gravità. Le consonanti occlusive e sorde asprezza e severità; quelle sonore piacere, morbidezza, leggerezza.
L’algoritmo Sparsar (System for Poetry Automatic Rhythm and Style AnalyzeR) individua con precisione assoluta l’esatto valore fonetico delle lettere (mentre, come sottolinea l’autore, l’Intelligenza Artificiale si rivela per ora, in questo come in molti altri aspetti dell’analisi letteraria, fallace). In parallelo, l’Analisi Semantica Latente e la Sentiment Analysis (metodi elaborati soprattutto per la rete ed il marketing, ma applicabili anche all’analisi letteraria) illustrano in modo oggettivo i nuclei di significato e i tratti emotivi dominanti.
Questo nuovo approccio metodologico fonde i due àmbiti, individuando, finalmente in modo rigoroso, il nesso fra suono e senso.
Da un vecchio studio (B. F. Skinner, The alliteration in Shakespeare’s sonnets: a study in literary behavior, «The Psychological Record», 1939, 3) risultò, dati alla mano, che la presenza di allitterazioni nei sonetti di Shakespeare non era più elevata di quella che ci si sarebbe potuti attendere da un processo puramente casuale. Questa conclusione non faceva, però, che evidenziare tutti i limiti di un approccio puramente quantitativo. Gli effetti di suono risulteranno o meno motivati (dunque non casuali, sebbene non necessariamente calcolati e voluti in modo deliberato e premeditato) qualora si tenga conto del nesso fra suono e senso, e si mettano a fuoco sia l’uno che l’altro in un modo il più possibile oggettivo.
Certo, la teoria fonosemantica (ossia dell’intrinseco valore espressivo proprio di alcune vocali e consonanti) è in contrasto con l’assunto, ormai pacificamente accolto, dell’arbitrarietà del segno linguistico. Un assunto, quest’ultimo, già rispecchiato dalla frase, spesso citata, di Mallarmé (pur attento quant’altri mai al valore evocativo dei suoni), il quale (in un testo, se non il testo per eccellenza, fondamentale della poetica moderna, Crise de vers) sottolineava il paradosso per il quale la lingua francese esprime la notte, nuit, con un suono luminoso, il giorno, jour, con un suono cupo («À côté d’ombre, opaque, ténèbres se fonce peu; quelle déception, devant la perversité conférant à jour comme à nuit, contradictoirement, des timbres obscur ici, là clair»).
È stato Gérard Genette, in un monumento di erudizione e ironia, Mymologiques. Voyages en Cratylie, del 1976, a ripercorrere gli sforzi, i fervori, ma anche gli sviamenti, le fantasie e le fallacie di quanti si sono proposti di documentare un nesso naturale e necessario fra il suono e il senso delle parole. Spicca forse, fra tutti costoro, Antoine Fabre d’Olivet, per la rigorosa conoscenza delle radici dell’ebraico, la capacità di risalire quasi scientificamente agli elementi della lingua e l’elogio che di lui, «mistico e metafisico», tessé il grande linguista Edward Sapir.
E chi torni oggi a scorrere, anche per pura curiosità erudita, del d’Olivet, la Langue Hébraique restituée, del 1815, vedrà come, in essa, la A sia associata a forza, stabilità, principio generatore; Vav, risolto in OUW, evochi il «mistero inconcepibile», il nodo di essere e nulla; Hel dilatazione e moto verso l’alto; Hun (vocale chiusa e consonante sorda) oscurità e corruzione; M maternità, matrice, materia. Proprio nelle radici, così come concepite dal d’Olivet, Sapir vide un’anticipazione dell’idea moderna di “fonema”.
Per l’inglese si può menzionare un vecchio e ardito studio di Dwight Bolinger, coraggiosamente intitolato The sign is not arbitrary («Thesaurus», V, 1949). Uno studio che, però, riflette il principale limite di quasi tutti quelli finora condotti intorno al fonosimbolismo: essersi limitati all’aspetto mimetico, onomatopeico, iconico, insomma meramente esteriore e materiale, del rapporto fra suono e senso; mentre soprattutto l’analisi del testo poetico parrebbe suggerire la possibilità di una sorta di “onomatopea metafisica”, o di “fonosimbolismo esistenziale”, nei quali i suoni e i loro complessi accostamenti ed intrecci riflettono immateriali ed interiori risonanze emotive, appartenenti al dominio, se non proprio della filosofia dell’esistenza, perlomeno della psicologia o della fenomenologia della percezione.
Trovare “universali fonosemantici”, ossia valori espressivi dei singoli fonemi che possano avere riscontro in lingue diverse e lontane, sembra un miraggio. Eppure già la trattatistica greca e latina sottolineava la contrapposizione fra la trachytes, la durezza, delle consonanti esplosive, specie gutturali, e la leiotes, la levitas, di quelle sonore, specie se liquide, nonché la caratteristica, propria delle vocali aperte (dei platonici megala grammata), di suggerire grandezza, vastità, calma, solennità, anche se sempre con riferimento ai nuclei semantici soggiacenti.
Agostino, nel De dialectica, ricalca questa contrapposizione (da una parte parole come stridor e clangor, aspre all’udito come ciò che designano; dall’altra parole come lene, sinesteticamente lievi all’orecchio come se trasmettessero una sensazione tattile) giungendo però ad una sottigliezza d’analisi che quasi anticipa le riflessioni di Lacan e della Kristeva (nella Révolution du langage poétique) intorno ai costituenti primi del Significante come spie dell’Autre, come parziali rivelazioni di un sostrato psichico prerazionale e primigenio.
«Bisogna continuare a cercare finché non si giunge al punto in cui la realtà canti per analogia in accordo con la parola, come quando diciamo “tintinnio dell’aria”, “squillo delle trombe”, “stridore delle catene”. Infatti queste parole suonano proprio come le cose stesse che significano. Ma poiché ci sono cose che non fanno rumore, in queste vale l’analogia del tatto, come se la dolcezza o l’asprezza delle lettere, toccando il senso in modo delicato o ruvido, avesse generato per esse i nomi in modo simile a come tocca l’udito: così la parola stessa “dolce” suona dolcemente».
Un algoritmo come SPARSAR potrà appunto portare infine luce in questo primigenio magma sonoro che si è finora sottratto (se non per lampi barlumi intuizioni) ad una compiuta indagine.
Sembrano, come si è accennato, esistere costanti fonosemantiche almeno all’interno della famiglia indoeuropea. L’estensione di questa rete di rispondenze ad altre famiglie linguistiche potrebbe, in futuro, aggiungere un tassello alla controversa Teoria Nostratica (la quale sembra peraltro aver trovato ora una conferma dalla genetica, secondo un modello che prende in considerazione, a partire da una mole di dati linguistici, il grado di probabilità che nasca una nuova parola o che un dato fonema muti o sia sostituito: Pagel, M., Darwinian perspectives on the evolution of human languages “Psychonomic Bulletin & Review”, 2017, 24, 1, pp. 151-157).
La linguistica non potrà che dialogare, se non con la teologia (il che rischierebbe di farla regredire ad uno stadio prescientifico), perlomeno con la filosofia del linguaggio, specie nei suoi punti di contatto con la storia delle religioni: poiché nello studio della fonosemantica la soggettiva percezione che le diverse culture (fosse pure a livello di mera pseudoetimologia) hanno avuto del valore espressivo dei suoni (e dei fonemi loro matrici) è perlomeno altrettanto rilevante quanto i dati linguistici oggettivi e scientificamente accertati.
È significativo che Kūkai (grande mistico giapponese dell’ottavo secolo) trovasse (sulla base di una cosmologia buddista) anche nel cinese e nel giapponese valori fonosemantici analoghi a quelli del Sanscrito, lingua indoeuropea. Nella sillaba OM, contrazione di AUM, la A è stato di veglia, luce, energia suprema; la U, luce più opaca, crepuscolare, sogno rivelatore; la M sonno profondo: gradazione di luce, rivelazione, morbido abbandono. RA è il fuoco, KYO il vuoto. Dunque la rotante sonora è forza vitale, la gutturale esplosiva negazione e privazione.
Ma, per ora, più realisticamente, sarebbe interessante verificare se i valori individuati dall’algoritmo collimano con quelli già riscontrati, con metodi tradizionali, nei precedenti studi sul fonosimbolismo shakespeariano.
Vi è, fra i sonetti su cui lo studio di Delmonte si sofferma, l’ottavo (Music to hear, why hear’st thou music sadly?), un’ironica, maliziosa e dolceamara allusione alla malinconica solitudine, narcissica e autoerotica, in cui l’interlocutore sembra, per propria volontà, rinchiuso. Difficile negare che il fascino del componimento risiede, effettivamente, per larga parte, nell’“antifrasi fonosemantica”, nella tinta dolceamara che sorge dalla miscela fra i suoni chiusi e cupi, prevalenti nel testo, e le dolcezze amorose evocate e negate, suggerite da sparsi bagliori («Resembling sire and child and happy mother»: verso, questo, la cui leggerezza e luminosità stanno tutte nell’armonia di consonanti sonore e vocali aperte).
Michael Shapiro, in uno dei pochi studi dedicati al fonosimbolismo shakespeariano (Sound and Meaning in Shakespeare’s Sonnets, «Language», 74, 1998, 1), fondato sulla distinzione tra le vocali seguite da un’unica consonante e quelle occluse, invece, da un gruppo di consonanti ostruenti, con un conseguente effetto espressivo di soffocamento e di angustia (di ankos e di pnigos avrebbero detto gli Antichi), si sofferma su un altro di quelli che si potrebbero ribattezzare “sonetti del Narciso”. Basta indugiare su versi come questi: «Unthrifty loveliness, why dost thou spend / Upon thyself thy beauty’s legacy? / (…) Then, beauteous niggard, why dost thou abuse / The bounteous largess given thee to give», per vedere come la piacevolezza delle vocali aperte contrasti, in uno stridente urto, con l’asprezza dei gruppi di consonanti occlusive, rendendo l’idea di una bellezza strozzata e vanificata dalla propria solitudine (una «vita strozzata» avrebbe detto Montale).
Due diversi approcci (quello dell’uomo e quello dell’algoritmo) sembrano convergere verso un esito non dissimile. Sarebbe interessante applicare (con particolare riferimento alle iterazioni foniche legate alle rime) un metodo analogo a Dante, avendo particolare riguardo alle parole-rima.
Ad esempio, la doppia consonante affricata sonora (zz) sembra rappresentare emblematicamente quella che si potrebbe definire “polisemia fonosemantica”, ossia la variegata ed eterogenea gamma di sfumature, sentimenti e tratti descrittivi ed evocativi che, per via per così dire enarmonica, uno stesso clima fonico può assumere nei diversi contesti: dal crudo realismo al grottesco («Tra’ti avante, Alichino, e Calcabrina,/ cominciò elli a dire, e tu, Cagnazzo; / e Barbariccia guidi la decina. / Libicocco vegn’oltre e Draghignazzo, / Ciriatto sannuto e Graffiacane / e Farfarello e Rubicante pazzo»), dalla lieve ironia allo sfumato e chiaroscurale indugio («E quale, annunziatrice de li albori, / l’aura di maggio movesi e olezza, / tutta impregnata da l’erba e da’ fiori; / tal mi senti’ un vento dar per mezza / la fronte, e ben senti’ mover la piuma, / che fé sentir d’ambrosïa l’orezza»), dalla riduzione parodica («Sennuccio, la tua poca personuzza / onde di’ che deriva il desiuzzo / il qual ti fa portare il cappucciuzzo / così polito in su l’assettatuzza»: peraltro di autenticità dubbia, e dunque adatto a sondare le potenzialità attribuzionistiche di questo metodo), al sospiro dell’angoscia amorosa, lacerato da consonantica durezza («Così vedess’io lui fender per mezzo / lo core a la crudele che ‘l mio squatra; / poi non mi sarebb’atra / la morte, ov’io per sua bellezza corro: / ché tanto dà nel sol quanto nel rezzo / questa scherana micidiale e latra»).
Forse un significativo passo è stato compiuto verso una “stilometria” che vada oltre la lettera e cerchi, per così dire, di misurare lo spirito. E, del pari, anche la “poetica cognitiva” potrebbe superare lo schematismo che porta a vedere nelle strutture del discorso poetico, e nelle modalità della sua genesi cerebrale, un semplice riflesso dei meccanismi e delle strutture neuronali.
Il rapporto fra suono e senso si snoda in una sorta di spazio fluttuante, di oscillante interstizio aperto ad una indeterministica molteplicità di accordi, contrappunti e soluzioni: in quei «campi di influsso spazio-temporale» nei quali, secondo John Eccles (Hypotheses relating to the brain-mind problem, «Nature», 168, 1951) «la mente si allaccia al cervello».
Se (M. S. Gazzaniga, La coscienza è un istinto, Cortina, Milano 2019) il DNA sta alle proteine come i significanti ai significati, allora nel linguaggio verbale il rapporto fra suono e senso potrà soggiacere alla stessa indeterminazione quantistica che caratterizza, a livello genetico, gli “enzimi catalizzatori” che mediano il rapporto fra l’uno e le altre. In questo aspetto della linguistica, come nella fisica, sarà però fondamentale il ruolo dell’Osservatore. È significativo e sorprendente che tornino, in Wheeler (Genesis and observership, «Foundational Problems in the Special Sciences», 10, 1977),concetti e termini non lontani in fondo da quelli di Agostino.
Non si troverà, scendendo nelle profondità della Natura e della Materia (come, nel nostro caso, nelle pieghe più riposte ed involute del linguaggio e della sua origine), un livello fondativo ed ultimo, infinitamente profondo, a cui la ricerca si arresti. Né, d’altro canto, quelle strutture si inoltreranno «strato dopo strato, ad infinitum, fino ad una notte senza fondo». Si dovrà tornare forse «all’Osservatore stesso, in un sistema chiuso di interdipendenze circolari».
La Natura e la Vita sono in fondo, al pari di un testo, un flusso e una rete d’informazione. Questo è forse il significato più autentico del Mondo come Libro, secondo l’allegoria che va, emblematicamente, da Galileo a Mallarmé. Gli algoritmi limiteranno certo l’arbitrio della soggettività interpretativa. Ma il linguista, come l’ermeneuta, non potrà che tornare, assiduamente e ciclicamente, ad interrogare (benché reso più avveduto e cauto dalla relativa certezza dei dati acquisiti) la propria stessa coscienza nel suo rapporto intimo con la Parola.
Matteo Veronesi