16 Novembre 2017

Addio a rav Laras: l'esame universitario, Qohelet e la pantera in sinagoga

Fu l’esame universitario più bello della mia fugace – e sostanzialmente inutile – esperienza accademica. Fu l’esame indimenticabile. Quello che da senso all’Università. Sarà stato il 2003, la memoria si disfa come incenso. Via Festa del Perdono. Università degli Studi di Milano. Esame di Storia del pensiero ebraico. All’appello dovremmo essere in tre. Ci sono solo io. L’assistente mi accompagna, con ebraica gentilezza, verso lo studio del prof. In quegli anni avevo la fissa dell’ebraico antico. Mi ero messo in testa di studiarlo da solo. Avevo tradotto, da solo, da idiota filisteo, parte dei Salmi e una fetta di profeti minori. Ero consapevolmente agitato. Il prof era Giuseppe Laras. All’epoca Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Milano, ora, da morto, omaggiato, a ragione, come la “figura chiave del dialogo ebraico-cristiano” (così il Corriere della Sera). Per me, a quell’epoca, era semplicemente un sapiente. Che incuteva timore. Figura che, nell’onirico timore dell’esame, mi pareva gigantesca, un Sansone. Fronte oceanica. Kippah. “Abbiamo tutto il tempo che vogliamo, che bello, c’è soltanto lei…”, mi fa lui. Il monografico era su Gli Otto Capitoli di Mosè Maimonide e sulla dispensa predisposta dal prof sul Libro di Qohelet. In quella dispensa così semplice, volatile, ‘d’uso’, c’erano brani bellissimi, “Qohelet vuole ‘investigare’, ‘scavare’ (questo il significato del verbo daròsh) ciò che avviene sotto il cielo: vuole ‘scavare’ il senso della vita”; “Qohelet sembra alla ricerca di ciò che ‘lascia traccia’, di ciò che non svanisce; tutto, nella vita degli uomini, gli sembra destinato alla morte e all’oblio, ma egli cerca una traccia indelebile, che possa derivare dalle azioni e dalla vita che un individuo conduce”. In queste asserzioni, Laras pare raffigurare se stesso, anzi, ogni uomo, che in quanto tale è teso nella ricerca – vana? stupenda – di ciò che vince la morte. Ero affascinato. Ma quel giorno, ricordo, ero solo terrorizzato. Perché davanti a ciò che si ama un uomo è terrorizzato. Per l’esame, oltre ai libri di norma, avevo preparato altre cose. Avevo segnalato le differenze tra diverse traduzioni del libro di Qohelet: quella di Girolamo, della Cei, di Erri De Luca, di Guido Ceronetti. Parto con l’assistente. Sulla storia del pensiero ebraico mi pare di essere andato bene. Ma lei mi assegna 28. Vado da Laras. Il suo sorriso, illuminato, mi placa. Gli dico che vorrei lavorare sulle diverse traduzioni di Qohelet. Annuisce. “Va bene, cominci”. Parto. Non mi interrompe, è incuriosito. Cominciamo a discutere. Sviscerando verso dopo verso, il libro. Parliamo, parliamo. Approfondiamo quel testo e passiamo ad altri, Isaia, i Proverbi, l’episodio del sacrificio di Isacco. La stanza al secondo piano dell’Università si colma di oscurità. Le ombre s’intersecano tra le nostre parole che vagano per l’aula, come fiamme. “Bene, bravo”, mi dice lui. L’esame è finito. Due ore e mezzo di dialogo. Mi sento pieno. Mi sento persino intelligente. Mi sembra di avere fatto qualcosa di bello. “Questo ragazzo si merita 30. E lode”. L’assistente non è molto felice, ma lascia fare al prof, se lo dice lui. L’unico esame di cui ho memoria e di cui, pudicamente, mi vanto. Rav Laras era questo: un uomo capace di ascoltare e di dare corda alle evanescenti effervescenze bibliche di uno studente non troppo dotato. Uscito dall’Università, passo di fianco ai Giardini della Guastalla. Oltre i giardini, in mezzo agli alberi, vedo il profilo severo della Sinagoga. Non ho più contattato Laras. Mai più. Ho letto i suoi libri, l’ho seguito da lontano. Non mi ritenevo degno. Neppure di spedirgli la traduzione dei Salmi che ho completato, anni dopo. Che idiota filisteo. Quel giorno, nella sinagoga, mi parve di udire il sospiro della pantera, che secondo il racconto di Franz Kafka si aggira nella Casa di Dio.

 

Davide Brullo

Gruppo MAGOG