“Un mostro infinito imperversa dentro di me”. Un talento francese: Léna Ghar
Libri
Anna Chiara Santacà
Il corpo-a-corpo tra Giobbe e Dio – il più vasto j’accuse della creatura al Creatore mai udito dal principio dei tempi – diventa corpo-a-corpo radicale tra gli scrittori e il libro più terribile del Grande Libro, la Bibbia – su una fetta del tema Edoardo Castagna ha scritto L’uomo di Uz. Giobbe e la letteratura del Novecento, edizioni Medusa, 2007 – e poi il corpo-a-corpo degli studiosi di fatti letterari – quelli più estremi – tra Dio, libro di Giobbe, romanzieri che si fiondano nell’unico problema di cui valga la pena parlare, senza tema di dissolvere la domanda in fiero vento, cioè il problema del male, della tracotante presenza del male in tutte le cose. Così fa Andrea Caterini, studioso attento, dagli sguardi moltiplicati, in La malinconia di Giobbe, saggio introduttivo a una nuova traduzione – per mano di Stefania Stefani – del Giobbe di Joseph Roth, di prossima pubblicazione per le Edizioni Theoria, nella collana di classici “Futuro Anteriore”. In anteprima, e per gentile concessione, ecco il testo.
Pronunciare il nome di Giobbe equivale a porsi la domanda forse più stringente sulla nostra esistenza: perché soffriamo? O, ancora più ontologicamente: perché il dolore? Alla quale si aggiunge immediatamente: il nostro dolore come giustifica l’esistenza di Dio? Sono gli interrogativi su cui, a partire dal libro di Giobbe, uno dei più terribili e affascinanti di tutto l’Antico Testamento, si sono arrovellati decine di filosofi, scrittori, teologi. D’altronde, esiste una ricerca più attuale della teodicea? Certo, la sua attualità, nel senso della sua urgenza, è vera oggi quanto lo era ieri e lo sarà domani. Ma la teodicea – propriamente la dottrina della giustificazione di Dio rispetto alla presenza del male nell’ordine della Creazione del mondo, cioè se la presenza del male nell’uomo non sia la più vertiginosa negazione di Dio – non è forse quella specifica riflessione che più di altre cerca il senso, la verità della nostra esistenza?
Kierkegaard, ne La ripetizione, testo scritto immediatamente dopo Timore e tremore (nel quale si interrogava invece sul sacrificio di Isacco da parte di suo padre Abramo), grida la sua invocazione: «Giobbe! Giobbe! Oh, Giobbe! Davvero non dicesti altro che queste parole: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia lodato il nome del Signore”». Ed è un’invocazione lancinante; quella di chi non riesce a trovare una ragione alla sottomissione a Dio di un uomo – il più innocente e devoto degli uomini – nonostante Egli gli abbia sottratto tutto. Anche il celebre passo dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij, nel quale Ivan, dialogando con suo fratello Alëša, afferma febbricitante che «se le sofferenze dei bambini fossero destinate a completar quella somma di sofferenza, che era il prezzo necessario per l’acquisto della verità, in tal caso io dichiaro fin d’ora che tutta la verità non vale un tal prezzo», sono un rimando, pure implicito, a Giobbe. Del resto, il libro di Giobbe era quello che, della Bibbia, più aveva colpito lo scrittore russo, quasi avesse sempre visto nel destino di Giobbe la sua stessa sorte. Scrivendo una lettera alla sua seconda moglie, nel 1875, parlerà proprio di quelle pagine: «Leggo il libro di Giobbe e mi dà un entusiasmo morboso: butto via il libro e vado su e giù per la stanza per ore intere, quasi piangendo […]. Questo libro, Anja, è una cosa strana; è uno dei primi che mi abbiano colpito nella vita, ed ero quasi fanciullo!». Più ancora di Kierkegaard, è Dostoevskij che ci fa entrare nell’assurdo senso di Giobbe e quindi in quel ramo di ricerche che vanno sotto il nome di teodicea. Quando dà la parola al suo Ivan, facendogli affermare che sarebbe disposto a rinunciare alla verità piuttosto che veder soffrire un bambino, un innocente, sta riproponendo la domanda più contraddittoria di quel testo sacro. Non solo, come dicevamo in principio, perché il dolore? ma pure, e soprattutto, perché il dolore di un innocente?
Viene in mente anche quel libro struggente di Lewis (il celebre autore delle Cronache di Narnia, ma anche di opere apologetiche come Cristianesimo così com’è o I quattro amori), Diario di un dolore, nel quale fa i conti col dolore per la perdita della propria moglie. «Emozioni, emozioni, sempre emozioni. Proviamo invece con la riflessione. Dal punto di vista razionale, la morte di H. […] quali ragioni mi ha dato per mettere in dubbio tutto ciò a cui credo? Che ogni giorno accadono cose del genere, e peggio, lo sapevo, e credevo di averlo messo in conto. […] Se il mio castello è crollato al primo colpo, è perché era un castello di carte. La fede che “aveva messo in conto queste cose” non era fede ma fantasia. Metterle in conto non era vera partecipazione umana. Se mi fosse veramente importato, come credevo, dei dolori del mondo, non sarei poi stato travolto dal mio. Era una fede immaginaria che si trastullava con gettoni innocui con sopra scritto “malattia”, “sofferenza”, “morte”, “solitudine”. Credevo di avere fiducia nella corda, finché è venuto il momento di sapere se essa mi avrebbe retto. Ora che deve reggermi, scopro che la mia fiducia non esiste». È importante notare che il libro di Giobbe, tra le altre cose, ci suggerisce che quando l’idea che avevamo di Dio e della nostra fede in Lui vacillano, nel momento in cui la disperazione prende il sopravvento, è sempre Dio la cosa con la quale cerchiamo di riconciliarci. È nel momento in cui il dolore ci pone a una distanza massima da Dio che siamo costretti a riconoscere la sua realtà. E basta andare all’originale, cioè al testo sacro, per rendersene conto. Pure nel suo momento di maggiore rabbia, pure nella profondità del suo rancore, Giobbe mai nega l’esistenza di Dio. Afferma piuttosto: «Sono innocente? Non lo so neppure io, detesto la mia vita! Per questo io dico: “È la stessa cosa”: egli fa perire l’innocente e il reo!» (9, 21-22).
Ma Joseph Roth cosa c’entra con tutto questo? Voglio dire: Roth è davvero dentro la vertigine di questa domanda sull’esistenza nel momento in cui scrive il suo Giobbe (che venne pubblicato nel 1930), la storia di questo uomo semplice? Prima del romanzo, forse bisognerebbe leggere un testo contenuto in Ebrei erranti. Cercando di ritrarre gli ebrei orientali (e la separazione con l’Occidente è fondamentale per comprendere la disamina che Roth ha compiuto per tutta la vita contro un mondo a suo avviso decaduto come quello della cultura europea), che si distinguono dal resto degli uomini non per appartenenza a una nazione (e del resto scrive: «il senso del mondo non risiede certo nelle “nazioni” e nelle patrie che, se anche fosse vero che vogliono soltanto preservare la propria specificità culturale, non avrebbero lo stesso il diritto di sacrificare una vita, foss’anche una vita soltanto») ma a una religione che li rende fratelli pur abitando ogni luogo del mondo (e bisogna considerare quanto egli stesso abbia viaggiato non soltanto per il suo lavoro giornalistico – che lo portò dalla Polonia all’Unione Sovietica, dall’Albania all’Italia – ma anche per fuggire le leggi razziali – e infatti abitò, spesso alloggiando in misere stanze d’albergo, da Vienna a Parigi e la Francia del sud, da Amsterdam a Berlino), Roth, in poche righe, esprime bene un concetto che ci è utile anche per il nostro ragionamento: «Fin dalla più tenera infanzia imparano a conoscere il dolore e lo sconforto della preghiera ebraica; la lotta appassionata con un Dio che punisce più di quanto ami, e che ogni piacere lo fa pagare come un peccato; il dovere rigoroso d’imparare e di ricercare l’astratto con occhi giovani e ancora assetati di grandi ideali». Cioè, quel rapporto tanto conflittuale e disperato tra l’uomo e Dio che è lo specifico del libro di Giobbe, Roth ci ricorda che in verità è lo specifico di ogni ebreo. Ovvero, Giobbe vive la «lotta appassionata» con Dio come tutti i suoi simili. Per questo nell’uomo semplice di Roth non troviamo, non possiamo trovare quella vertigine che invece riconoscevamo nelle parole dei cristiani Kierkegaard, Dostoevskij, Lewis.
Ma non dobbiamo commettere l’errore di semplificare troppo. Perché Roth poi è il solo che prende come modello il libro di Giobbe e, a differenza di chi abbiamo citato, costruisce il romanzo come un calco, trasponendo quell’antica storia biblica nella vita di un ebreo del suo tempo. Giobbe, insomma, funziona per Roth come l’archetipo dell’ebreo osservante che, proprio in ragione della sua troppa fiducia nell’osservanza, finisce per entrare in conflitto con Dio. Infatti, a leggere la prima parte del romanzo, siamo quasi indotti a credere che non ci sia un motivo plausibile perché Roth abbia dato questo titolo al romanzo. Perché, insomma, quel titolo tanto simbolico, o meglio archetipico, visto che oltretutto il protagonista della storia non si chiama neppure Giobbe ma Mendel Singer? La storia che Roth racconta è quella di una famiglia russa, di religione ebraica, poco prima dello scoppio della Grande Guerra. Mendel Singer insegna, in casa propria, i Testi Sacri ai bambini. Guadagna poco, un poco che tutto sommato gli basta a vivere – quella vita interamente dedicata alla osservanza delle leggi di Dio («Il suo animo retto era volto alle cose semplici, terrene e non sopportava miracoli nella sfera del visibile. Sorrideva della fede di sua moglie nel rabbino. La sua semplice devozione non necessitava di alcuna potenza mediatrice tra Dio e gli esseri umani») – e a sfamare, pure malamente, sua moglie Deborah (che di quel poco si lamenta e, pure, glielo rimprovera), e i suoi quattro figli: Šemarjah, Jonas, Mirjam e lo storpio Menuchim. Di questa famiglia seguiamo la quotidianità, e quindi anche i suoi relativi problemi. Una famiglia, potremmo dire, come milioni di famiglie. Tanto che continuando a leggere, pure immersi in quell’innegabile piacere di seguire la narrazione che sempre Roth ci dona – il suo stile piano ed epico, la sua lingua chiara e mai retorica, la sua fiducia in una narrazione che non subisca intralci di pensiero, senza che il pensiero, appartenga questo all’autore che scrive o al personaggio, spezzi il ritmo del racconto, inducendoci anche a notare che in Roth, il dolore, o la ferita che lo ha fatto cominciare a scrivere, non producono mai concetti, ancora un pensiero, ma mettono in moto un racconto – avvertiamo addirittura una certa noia. Ma una noia però dovuta a quell’archetipo che lo scrittore ha posto come sigillo nel titolo. Come se con quel titolo tanto preciso ed evocativo ci aspettassimo immediatamente una tragedia e la conseguente lotta con Dio di chi quella tragedia subisce. Si direbbe, invece, che la prima parte del romanzo Roth la sfrutti per dimostrare la buona volontà e la buona fede di Mendel, il quale infatti si domanda: «Perché sono così punito? pensava Mendel. Ed egli indagava nel suo cervello alla ricerca di un qualche peccato commesso e non ne trovava di gravi. Gli allievi arrivavano. Tornava in casa, e mentre camminava su e giù per la stanza, ammoniva questo e quello, picchiando l’uno sulle dita e dando all’altro un leggero colpo sulle costole, pensava continuamente: dove sta il peccato? Dove si nasconde il peccato?». È vero, una tragedia Roth ce la svela subito, e riguarda l’ultimo dei suoi figli, quel Menuchim che è nato «storpio» – o più propriamente, è un bambino che cammina a stento e che a stento parla (per anni, la sola parola che pronuncia e che serva a comunicare qualsiasi cosa è «mamma»; solamente Deborah è in grado di comprendere cosa suo figlio di volta in volta vuole dire con quel termine). Ma se non la percepiamo immediatamente come tragedia è perché Roth non la fa vivere al suo personaggio come tale. O meglio: anche se Mendel si domanda dove sia il «peccato» e la sua colpa per aver partorito al mondo un bambino storpio, per quale ragione Dio l’ha punito e per quale atto malvagio, in verità egli non ne mette ancora in discussione l’autorità – l’autorità suprema del suo Dio. I suoi dubbi e i suoi silenziosi tormenti, a ben vedere, potrebbero essere rivolti a Dio così come a se stesso, non sono ancora portatori di una frattura, di uno svelamento. È come se quella nascita, la nascita di Menuchim, fosse una tragedia che Roth non ha voglia di imputare alle colpe di Mendel e neppure a una punizione che Dio impone al suo fedele servitore. E facendo questo devia i significati, crea uno scarto concettuale, quasi rifiutando l’idea di un peccato originale comune a ogni uomo, ma attribuendo ogni colpa al nostro libero arbitrio. E infatti, la tragedia di Menuchim, la sua malattia, non è mai vissuta nel romanzo come la pena di una colpa genitoriale. Roth fa piuttosto compiere un’azione colposa ai due genitori ai danni di Menuchim successivamente; rendendo il loro dolore per averla commessa (non quindi la malattia del piccolo), la pena che sono costretti a vivere.
Ma andiamo con ordine, perché tutto comincia davvero a crollare, o a stringersi nella cruna di un miracolo ancora inimmaginabile, con l’arrivo in casa di una lettera. A scriverla è il maggiore dei figli, Šemarjah, che qualche tempo prima, insieme a Jonas, è stato chiamato alle armi. Il ragazzo comunica a suo padre e sua madre di essere un disertore e che ormai vive in America, dove ha trovato una donna, Vera, che ha sposato. In America vive bene, ha fatto anche fortuna economica nel ramo delle assicurazioni, e tutti ormai lo chiamano Sam. Quello che li invita a fare, è di compiere pure loro quel viaggio, di raggiungerlo insomma nel Nuovo Mondo e tornare a vivere insieme in questo luogo sconosciuto.
Ancora in uno capitolo di Ebrei erranti, Roth aveva scritto sugli ebrei che fuggivano negli Stati Uniti: «Se gli ebrei orientali non avessero tanta paura, potrebbero a ragione vantarsi di essere il popolo più antimilitarista del mondo. […] Fuggiva in America chi si avvicinava ai vent’anni ed era sufficientemente sano da ritenere che sarebbe stato dichiarato abile alla leva. […] Tale era la loro paura della vita militare che piuttosto preferivano farsi mozzare un dito, farsi recidere i tendini dei piedi, farsi gettare del veleno negli occhi. Divennero eroicamente invalidi, ciechi, zoppi, storpi, si sottoposero al dolore più odioso e duraturo. Nell’esercito non volevano servire. Non volevano cadere sul campo di battaglia. La loro mente era sempre desta e calcolava. La loro lucida mente calcolava che è comunque più conveniente vivere da storpi che esser sani e morire. Tale considerazione era confortata dalla loro devozione. Non solo era stupido morire per un Kaiser o per uno Zar, ma oltretutto era anche peccato vivere lontano dalla Torà e contro i suoi comandamenti. Era peccato mangiare carne di maiale. Imbracciare armi di sabato. Fare le esercitazioni. Alzare la mano contro uno sconosciuto, un innocente, per non parlare poi della spada. Gli ebrei orientali furono i più eroici pacifisti. Soffrirono per il pacifismo. Si storpiarono volontariamente. Nessuno ha ancora composto l’inno al valore di questi ebrei. […] Chi aveva del denaro valutava se doveva tentare la corruzione o la fuga in America. I più coraggiosi andarono in America. Mai più gli fu permesso di ritornare. Ci rinunciarono. Con un gran peso sul cuore rinunciarono alla famiglia, e a cuor leggero alla patria». Sembra una possibile descrizione di Šemarjah, col quale Roth impersona gli ebrei di nuova generazione. Ma Mendel Singer è un ebreo come suo figlio? Roth ci risponde ancora nello stesso capitolo di Ebreri erranti: «Gli ebrei residenti da trent’anni nel quartiere ebraico di New York parlano tuttora lo yiddish e non si capiscono più coi loro stessi nipoti. La lingua del paese straniero dunque la sa già. È la sua lingua madre. Anche il denaro ce l’ha. Quel che gli manca ancora è il coraggio. Non ha paura dell’America, ha paura dell’oceano. È abituato a errare per vaste terre, ma non per i mari. Una volta, quando i suoi antenati dovettero attraversare un mare, avvenne un miracolo e le acque si divisero. Se l’oceano lo separa dalla sua patria, allora è un’eternità che lo separa da essa. Ha paura delle imbarcazioni l’ebreo orientale. Non si fida neppure della nave. Da secoli l’ebreo orientale vive nell’entroterra. Non teme la steppa, e neanche la pianura sconfinata. Teme invece di perdere l’orientamento. È abituato a volgersi tre volte al giorno verso il Misrach, l’Oriente. È qualcosa di più che una prescrizione religiosa. È l’esigenza, da lui sentita profondamente, di sapere dove si trova. Di conoscere la propria posizione. Conoscendo con esattezza la posizione geografica si può trovare la propria via nel modo migliore, e nel modo migliore riconoscere le vie del Signore». In Giobbe ci sono pagine bellissime in cui Roth racconta non solamente i preparativi del viaggio di Mendel, Deborah e Mirjam, le tribolazioni per i documenti necessari, l’ansia di lasciare la propria terra, il disorientamento che questo causerà loro. Ma la tragedia che si diceva non è ancora questa; la colpa, se così possiamo chiamarla, di cui si macchieranno i due genitori, è quella di lasciare a casa il figlio piccolo, lo storpio Menuchim. Il rabbino aveva intimato a Deborah che il figlio sarebbe guarito, ma ci sarebbe voluto molto tempo e, oltretutto, ella non avrebbe mai dovuto abbandonarlo, doveva stargli vicino finché il miracolo si fosse compiuto. Invece «era come se Deborah e Mendel non avessero spontaneamente preso la decisione di andare in America, ma come se l’America fosse giunta sopra di loro, se fosse caduta loro addosso». Qui Roth sembra farci tornare per un momento all’idea di un peccato compiuto senza una volontà, senza libero arbitrio, ma come qualcosa di inevitabile, che commettiamo malgrado la nostra fede e la nostra volontà. Se attribuisco un peccato a questa partenza è perché Roth, più tardi, nel 1934, scriverà un saggio intitolato l’Anticristo, nel quale ragiona sul male; e uno di questi “mali” era il Nuovo Mondo, appunto l’America, dove, scrive Flavia Arzeni in un saggio che introduce un’edizione italiana del libro, la «tecnica si sostituisce al pensiero, il baratto alla comunicazione, il falso al vero e ogni cosa, per quanto intima e segreta, ha un prezzo per essere venduta a chiunque voglia acquistarla». La partenza, per i due ebrei russi, è ormai irrevocabile. «Ancora una volta Deborah tiene Menuchim in braccio. La famiglia Billes è già arrivata, circonda il carro e non smette di parlare. Mendel Singer siede a cassetta, e Mirjam appoggia la schiena contro quella del padre. Solo Deborah sta ancora davanti alla porta, con lo storpio Menuchim tra le braccia. Improvvisamente lo lascia. Delicatamente lo mette a sedere sulla soglia, come si posa una salma in una bara, si alza, si raddrizza, lascia scorrere le sue lacrime, nude lacrime sul volto nudo. Ha deciso. Suo figlio rimane. Lei partirà per l’America. Non è avvenuto nessun miracolo. Piangendo sale sul carro. Non vede i volti delle persone alle quali stringe le mani. I suoi occhi sono due grandi mari pieni di lacrime. Sente scalpitare gli zoccoli dei cavalli. Parte. Getta un grido, non sa che sta gridando, il grido scaturisce da dentro di lei, il cuore ha una bocca e grida. Il carro si ferma, lei salta giù, con passo leggero come un ragazzo. Menuchim siede ancora sulla soglia. Si butta in terra davanti a Menuchim. “Mamma, mamma!” balbetta Menuchim. Lei rimane immobile. La famiglia Billes solleva Deborah. Lei grida, si oppone, alla fine rimane in silenzio. Viene portata di nuovo sul carro e adagiata sul fieno. Molto veloce il carro sferraglia verso Dubno».
Dopo il lungo viaggio e lo sbarco negli Stati Uniti, Roth cambia completamente tono al racconto, come lo accelerasse, e accelerandolo lo fa anche meglio aderire al testo sacro. Infatti è qui, nel Nuovo Mondo, che le tragedie si succedono l’una dopo l’altra, tragedie che si possono elencare con la stessa velocità con la quale sono raccontate sia nel romanzo che nel libro di Giobbe: Jonas è disperso, Šemarjah, disertore nella sua patria, è costretto ad arruolarsi come soldato per l’esercito degli Stati Uniti ora che la Grande Guerra è scoppiata, Mirjam si innamora prima di un uomo, amico di Šemarjah e che con lui è partito alle armi, poi, con l’amante in guerra, si innamora di un altro. Di Menuchim non si hanno più notizie, lo si crede mai guarito e già morto. E poi ancora: il ritorno del primo uomo di Mirjam dal fronte che la farà impazzire e sentire indegna; la notizia che Šemarjah è morto al fronte, notizia che causa la morte di crepacuore di sua madre Deborah. È in questo deserto affettivo, in questa devastazione di una vita intera che Mendel cede, crolla, si dispera, nonostante i suoi amici cerchino di consolarlo, così come gli amici di Giobbe volevano consolarlo dal dolore consigliandogli di nuovo di affidarsi con fede alla volontà di Dio. Ma quegli amici pronunciano parole troppo ragionevoli. Parole che lo stesso Mendel (lo stesso Giobbe) avrebbe pronunciato se non avesse vissuto l’assurdo della sua condizione. Ma ora che in quell’assurdo abita, la ragione non gli è di alcun conforto, perché niente spiega né dimostra. «“Tu stai bene, Deborah!” le diceva. “Peccato solo che non hai lasciato nessun figlio, sono io che devo dire la preghiera per i morti, ma morirò presto, e nessuno ci piangerà. Come due piccoli granelli di polvere siamo stati soffiati via. Come due piccole scintille ci siamo spenti. Io ho procreato i figli, il tuo grembo li ha messi al mondo, la morte li ha presi. La tua vita è stata piena di miseria e senza senso. Negli anni giovanili ho assaporato la sua carne, negli anni successivi l’ho disprezzata. Forse era questo il nostro peccato. Perché dentro di noi non c’era il calore dell’amore, ma tra noi il gelo dell’abitudine, tutto moriva intorno a noi, tutto deperiva ed è stato rovinato. Tu stai bene, Deborah. Il Signore ha avuto compassione di te. Tu sei una morta e sepolta. Di me Egli non ha avuto compassione. Perché io sono un morto e vivo. Egli è il Signore, Egli sa ciò che fa. Se puoi prega per me, che io venga cancellato dal libro dei vivi. Vedi, Deborah, i vicini vengono da me per consolarmi. Ma sebbene siano molti e tutti si impegnino con le loro teste, non trovano nessuna consolazione per la mia situazione. Batte ancora il mio cuore, ancora vedono i miei occhi, ancora si muovono le mie membra, ancora camminano i miei piedi. Mangio e bevo, prego e respiro. Ma il mio sangue ristagna, le mie mani sono avvizzite, il mio cuore è vuoto. Non sono più Mendel Singer, sono il rimasuglio di Mendel Singer. L’America ci ha uccisi. L’America è una patria, ma una patria di morte. Quello che da noi era giorno, qui è notte. Quello che da noi era vita, qui è morto. Il figlio, che da noi si chiamava Šemarjah, qui si è chiamato Sam. Sei sepolta in America, Deborah, anch’io, Mendel Singer, sarò sepolto in America”».
Eppure, nonostante l’aderenza col libro di Giobbe, non bisogna dimenticare che si tratta di un calco. Cosa voglio dire? Che il romanzo di Roth non ha nulla di profetico e di realmente miracoloso. Neppure la guarigione di Menuchim e il suo comparire, in conclusione, di nuovo dinnanzi a suo padre nelle vesti di un compositore di talento è qualcosa che abbia a che fare con un miracolo vero e proprio, piuttosto si tratta del riscatto di quella vecchia colpa di averlo abbandonato a se stesso, di non aver creduto fino in fondo alla sua guarigione, di non aver avuto sufficiente fede, insomma. Il fatto è che Roth ha preso il libro sacro e ne ha fatto una vicenda antropologica, prima ancora che umana. Per questo Giobbe, per lui, più che un angelo della fede, come lo era per Kierkegaard Abramo, è l’archetipo dell’ebreo orientale. E in quanto archetipo la sua vicenda può essere narrata sempre, modellandola a ogni tempo. Ma la disperazione di Mendel non è solamente quella dell’uomo che ha perso tutti gli affetti, a cui si è svuotato il cuore per la morte dei suoi cari, ma l’uomo che vede svanire tutto ciò in cui ha creduto e per il quale ha vissuto. È l’uomo moderno; l’uomo solo che grida in un deserto, in un mondo che non esiste più. In Roth il deserto umano e antropologico è vissuto sì come una tragedia, ma la tragedia di chi, costretto a vivere da senza patria, in perenne esilio (per questo in Giobbe, così come in molti altri suoi romanzi, l’elemento autobiografico è fortissimo), grida, ma sognando ancora la sua Heimat, una terra in cui tornare: la patria (una patria tutta ideale, che non assomiglia quindi né propriamente alla Terra Santa cara agli ebrei di tutto il mondo, né a una nazione specifica) malinconicamente agognata.
Andrea Caterini