19 Luglio 2023

“Fabbriche privilegiate di cretini di Stato”. Ecco perché l’università è inutile

In un’epoca in cui l’hegelismo spadroneggiava nelle facoltà filosofiche tedesche Schopenhauer, nel non lungo periodo in cui fu titolare di una cattedra, fece coincidere ad arte i propri corsi con quelli di Hegel, tenendo così le proprie lezioni ad un uditorio semideserto, mentre quelle dell’autore della Fenomenologia dello Spirito erano gremitissime. 

Schopenhauer ne trasse un’acredine imperitura nei confronti dei filosofi di professione, dei cattedratici del pensiero, e nei Parerga e Paralipomena dette sfogo alla sua avversione con l’incandescente pamphlet La filosofia delle università, a distanza di oltre un secolo e mezzo ancora inarrivabile e attualissimo. Mai la cultura ufficiale delle aule universitarie era stata strapazzata con tanta verve satirica e con tale freschezza di pensiero e di stile.

Troppo note le tesi cardinali di Schopenhauer per stare qui a ripercorrerle, sino alla conclusione perentoria che sollecitava tout court l’abolizione delle cattedre di filosofia. Il caustico libello fu attentamente meditato da un altro gigante della storia del pensiero, Nietzsche, che nelle sue Considerazioni inattuali applicò il suo modello del filosofare col martello sferrando una serie di bordate magistrali al professorume tedesco e allo stato in genere della cultura germanica, asservita a un accademismo e a un filologismo pedanteschi che tarpavano le ali in partenza a una più ampia considerazione della filologia, quella considerazione che aveva già improntato le rivoluzionarie pagine della Nascita della tragedia e che aveva visto Nietzsche contrapposto al massimo filologo classico del tempo, il Wilamowitz. Si trattava del colpo di testa del genio indocile e prepotentemente individualista di fronte alla pretesa di imbrigliare la cultura classica, e la cultura in assoluto, nelle maglie dell’accademia, di una filologia autoreferenziale e il cui concetto della grecità egli aveva sovvertito e ampliato con una larghezza di visione che d’un colpo spazzava il terreno da incrostazioni secolari. 

Schopenhauer in relazione al filosofume universitario e Nietzsche in relazione alla filologia per la filologia, non supportata da una visione speculativa più ampia e vivificante, compirono un’azione parallela che ancora oggi dovrebbe essere monito e riferimento per chiunque si avvicini ai due termini della questione.  Philosophia et philologia geminae ortae suona l’immortale detto vichiano che in una sorta di sintesi a priori non solo logica ma anche storica salda in un unico circolo la speculazione e l’indagine filologica o, per meglio dire, storica. Le randellate somministrate da Schopenhauer e Nietzsche ai pedanti teutonici non rimasero senza frutto neanche in Italia visto che, in quella straordinaria atmosfera di rinnovamento culturale che pervase il nostro paese all’inizio del ’900 si contano ben due pamphlet che nello spirito si riallacciarono idealmente a quei sommi progenitori. 

Il turbinoso autodidatta Giovanni Papini, ribelle (almeno in gioventù!) a qualsiasi assoggettamento sfornò un irriverente libretto, Chiudiamo le scuole, che costituì un geniale paradosso, una provocazione dinamitarda contro la cultura fossilizzata delle istituzioni scolastiche. Papini caldeggiò nelle sue irriverenti pagine un modello di anarchismo culturale diretto contro le “fabbriche privilegiate di cretini di Stato”, le scuole. 

Altro che la fantasia al potere degli inconsapevoli epigoni sessantottini! E altro che il velleitario ‘vogliamo tutto’ dei primi radical chic italiani, sdoganatori di un operaismo di cartapesta buono per i salotti letterari..

I grandi artefici del rinnovamento della cultura italiana e della sua sprovincializzazione, da Papini a Prezzolini, da D’Annunzio a Croce, figure fra loro diversissime e talora antitetiche o nemiche, furono tuttavia accomunati da un unico denominatore, di essere tutti degli autodidascali di genio, dei non laureati (Prezzolini conseguì la terza media e non portò mai a compimento gli studi liceali) totalmente estranei ai giochi delle accademie e delle università. Proprio il Croce studioso solitario, il “Papa laico”, stilò nel 1909, più o meno negli stessi anni di Papini, un pamphlet anch’esso violentissimo, Il caso Gentile e la disonestà nella vita universitaria italiana, che meriterebbe di essere riesumato e che fu occasionato dalla preferenza accordata (complici Filippo Masci ed altri professoroni del tempo che agirono dietro le scene come burattinai) ad Aurelio Covotti alla cattedra di Storia della filosofia presso l’Università di Napoli. Grazie alla cooptazione delle cosche universitarie l’oggi dimenticato Covotti fu preferito a una delle massime menti filosofiche che l’Italia abbia avuto, Giovanni Gentile, preferenza che suscitò l’accesa polemica di Croce. 

“Io non so che gente ci sia in codesto mondo universitario: certo, è gente che non ha ricevuto la più piccola ed elementare educazione morale, quella che fa obbligo di osservare la parola data… ho sempre avuto pochissima fede nella moralità universitaria”. 

E osservava come “tra la filosofia e i suoi professori corre di solito lo stesso rapporto che tra il sale e il tabacco e le persone che ne hanno ottenuto la rivendita, i bassi ufficiali al riposo e vedove d’impiegati”! Croce auspicava poi che, una volta morto, se mai gli avessero eretto un busto o una statua in un paesello degli Abruzzi o in una stradicciola di Napoli, i posteri scrivessero sotto di esso come elogio:

“Tolse la filosofia e la letteratura dalle mani dei professori universitari”. 

Auspicio purtroppo non realizzato e non realizzabile, visto che a distanza di quasi 120 anni le cricche universitarie continuano a detenere l’oligopolio della cultura e i rivenditori di sali e tabacchi dei nostri atenei non paiono intenzionati ad abdicare al loro monopolio di Stato. La superstizione del blasone, del certificato (la malattia italica della ‘titolite’) seguitano a farla da padroni, a dispetto della battaglia ingaggiata sempre in quegli anni frenetici da Luigi Einaudi col suo aureo scritto Vanità dei titoli di studio.

“Sono vissuto per quasi mezzo secolo nella scuola; ed ho imparato che quei pezzi di carta che si chiamano diplomi di laurea, certificati di licenza, valgono meno della carta su cui sono scritti”. 

Parole che meriterebbero di essere scolpite a lettere d’oro sul frontone di ogni Università italiana.

In anni più recenti un altro outsider ingiustamente rimosso dalla cultura italiana come Anacleto Verrecchia, anch’egli allergico a qualsiasi accademismo, era solito paragonare le Università a dei trogoli dove i professori nutrono i loro allievi con “ghiande ideologiche” e ricordava opportunamente come nessuna facoltà di filosofia quasi mai avesse formato un filosofo.

In altro ambito di studi, il più vertiginoso connaisseur di dipinti antichi che l’Italia abbia mai avuto, Federico Zeri, non ricoprì mai alcun incarico di insegnamento in Italia, a conferma del trito detto Nemo propheta in Patria. Dopo aver tracciato un ritratto al vetriolo delle Università italiane nel libro satirico Sbucciando piselli, scritto a quattro mani con Roberto D’Agostino, nei suoi ultimi anni fu tardivamente insignito della laurea honoris causa dall’ Università di Bologna. Di fronte all’impettito uditorio dei baroni universitari, Zeri definì i professori “ignoranti e corrotti”, suscitando un vespaio di reazioni che gli interessati cercarono maldestramente di rattoppare addebitando le dichiarazioni alla “nota perfidia” di Zeri o a un amore del paradosso. 

Nulla è mutato e, ahimè, nulla muterà, la stasi bizantina, l’immobilismo cronico, il clientelismo, la corruttela sono esattamente gli stessi, forse addirittura amplificati. La “Rivoluzione” del ’68 fu in buona misura un’illusione democratica, che invece di scalzare le élite dai loro feudi sostituì a un modello classista sbagliato un modello a sua volta sbagliato, favorendo la demagogia, l’abbassamento del livello culturale di docenti e discenti e una crassa ignoranza rivestita di tronfia solennità.

Come uscire da questo vicolo cieco? 

Senza voler rispolverare la tesi di Papini, brillantemente provocatoria ma alla lettera non praticabile, si potrebbe forse iniziare a privilegiare, almeno in ambito umanistico, le competenze anziché i titoli, l’effettiva preparazione anziché il feticismo sbandierato dei certificati. Pia illusione, sogni che tuttavia, nell’utopia di una scuola e di un’educazione migliori o comunque perfettibili, ci piace tuttavia ogni tanto accarezzare col pensiero.

Alessio Magaddino

Gruppo MAGOG