05 Maggio 2018

“La cosa più importante è la disciplina”: Gianluca Barbera dialoga con Demetrio Paolin

Qualcuno si domanderà con che criterio scelgo gli autori da intervistare. Semplice: mi interessa solo chi credo abbia realmente qualcosa da dire, chi mi pare dotato di uno sguardo capace di trascendere le mode e l’abituale chiacchiericcio; chi mostra di non avere paura di buttarsi e nuotare controcorrente rischiando di affogare. Autori che conosco direttamente o attraverso le opere e ai quali, magari durante una cena, rivolgerei le stesse domande che pongo qui, proprio in quanto sinceramente interessato alle loro risposte. Non scelgo in base al successo, alla notorietà, al curriculum. Né per star dietro alle mode, o perché è appena uscito il loro nuovo libro. Mi piace l’idea di dare corpo a una vasta e composita galleria di ritratti che in qualche modo rappresenti il meglio (e a volte anche il peggio) del nostro tempo. Con Demetrio Paolin ero sicuro che avrei fatto centro. Ma naturalmente sta a voi giudicare. Sapevo anche che avrei corso qualche rischio, visto che il suo punto di vista è spesso così insolito da risultare “pericoloso”… Sul suo conto non aggiungo altro perché credo che molto di ciò che mi premeva sia contenuto nell’intervista. Il resto lo potete trovare nei suoi libri: Una tragedia negata. Il racconto degli anni di piombo nella narrativa italiana (2008), Il mio nome è legione (2009), La seconda persona (2011), Non fate troppi pettegolezzi (2014), Conforme alla gloria (2016).

Demetrio, come ti ha cambiato il fatto di essere entrato, due anni fa, tra i dodici finalisti dello Strega con il romanzo “Conforme alla gloria”? Come è cambiata la tua vita, tra inviti, presentazioni, nuove collaborazioni coi giornali? E quanto ad autostima? L’impressione è che tutto questo sia servito solo a ingigantire la tua umiltà…

Intanto vorrei sfatare l’idea che io sia umile. Non sono umile ma realista, credo di essere un buon scrittore di romanzi e un critico letterario con una qualche intelligenza interpretativa; scrivo con tutta la dedizione e la disciplina che posso, pur sapendo che nessuno dei miei libri rimarrà nella storia della letteratura. Questo lo pensavo prima della nomina nei dodici e lo penso tutt’ora; la differenza sostanziale è che in qualche modo il mio pensiero – anche questo su me stesso – un tempo rimaneva confinato alle mie ubbie mattutine ora viene stampato in una intervista. La nomina allo Strega mi ha reso più responsabile delle parole che dico, credo che sia un dovere anche etico per noi che passiamo la maggior parte della nostra vita a scegliere le parole giuste per dire un determinato accadimento. Per il resto, la mia vita materiale si è incasinata, più impegni, più cose fatte di corsa, più notti in albergo, ma sono fortunato, ci sono cose peggiori nella vita.

il mio nome è legioneNon credi che alla base delle nostre azioni ci sia l’amor proprio, anche quando questo si traveste da altruismo?

La soddisfazione personale e il lavoro ben fatto stanno alla base di ciò che facciamo. Io quando ero ragazzo osservavo mio padre lavorare. È vero, c’era bisogno di sbarcare il lunario e papà lavorava tantissimo, ma nessuno mi toglie dagli occhi il suo sguardo soddisfatto, quando – finito l’ultimo collegamento dell’impianto elettrico – tirava su il contatore. Qualche attimo di attesa e tutto si accendeva. Lui era contento, in quel momento smemorava la persona per cui stava lavorando, pensava solo che aveva fatto tutto per bene. Mi colpisce fare le cose “per bene”. Torna l’etica: non si fanno le cose per gli altri o per sé, ma si fanno “per bene”, come fine ultimo il bene; cosa ben diversa dall’altruismo in salsa attuale che sembra simile alla tenerezza che si riserva ai cani con quel misto di superiorità e di infantile tacitamento della propria coscienza.

Perché scrivi? Se non avessi fatto lo scrittore cosa avresti voluto fare? Bolaño sosteneva per esempio che avrebbe fatto il detective…

Sai che non lo so. In realtà ho sempre scritto, ho fatto prima il giornalista e poi l’ufficio stampa, quindi non ho una idea precisa di cosa sarei se non fossi ciò che sono, ovvero uno che scrive. Forse sarei stato un bravo insegnante. Insegnare mi piace, mi sembra che contenga in sé il meglio della scrittura: la comunicazione di un sapere, la descrizione di una visione, il tentativo di produrre qualcosa di nuovo. Oppure sarei stato un impiegato in un qualche ufficio, hai presente? Sarei rimasto al paese dei miei, avrei sposato la ragazzetta a cui avevo fatto l’animatore in parrocchia, me la sarei coltivata negli anni, avrei avuto tre figli e ogni giorno macchina lavoro, casa, volontariato, il coro, la messa la domenica, e infine il suicidio intorno ai 55 anni di età.

Per fortuna è andata diversamente. Conta più scrivere o vivere per te? O sono una cosa sola?

Vivere è un insieme di azioni come mangiare, dormire, riprodursi e morire e, perché no, scrivere; io vedo la scrittura non come qualcosa che si oppone alla vita, ma qualcosa subordinato a essa. Se non fossi vivo, se non respirassi, se non provassi fame, freddo, sonno e desiderio di cosa scriverei? Quando penso a questa domanda mi torna sempre in mente quel racconto folgorante di London su come si accende un fuoco. London ha vissuto ciò che ha scritto, ma ciò che ha scritto supera di gran lunga ciò che ha esperito nella sua esistenza. La scrittura quando si mette profondamente a servizio della vita la supera, la trascende. Farsi servi, è questo il problema, concepire la scrittura come una forma di servitù, di servizio è il più grande dei nostri limiti. Noi vediamo nella scrittura una sorta di attività demonica, tutta tremori e slanci, in cui la vita ci è di ostacolo; in realtà ogni scrittura è una biografia, cioè un segno grafico della nostra vita.

seconda personaChi o cosa è per te Dio? In che modo entra in ciò che scrivi? Non è che a volte la fede può rappresentare un limite alla libera espressione artistica e del pensiero? Quel è il ruolo di uno scrittore cristiano? Si differenzia in qualcosa da uno scrittore non credente?

Se mi avessi fatto questa domanda due o tre anni fa, ti avrei rispondo che esiste la fede e l’immaginario cristiano; cioè avrei diviso in qualche modo il mio atteggiamento di credente dal mio operare di scrittore. Negli ultimi tempi non sono più così netto nella separazione: il mio credere e il mio sperare sono in qualche senso profondamente collegati a ciò che scrivo, a come lo scrivo e come lo immagino. Credo che spesso si sbagli pensando che le opere di uno scrittore cristiano siano consolatorie, pie, apologetiche. Poi faccio un semplice elenco: Testori, Parazzoli, Coccioli, Pomilio, Mozzi, Zaccuri e mi dico che lo scrittore cristiano è tutt’altro che pacifico. Essere scrittori e credenti significa stare dentro lo scandalo di Dio che si carne e che si fa parola; è una sorta di tensione continua tra il verbo, la sintassi e la forma e il corpo reale di Dio. Credo che sia questo a rendere la mia prosa e la mia immaginazione più interessanti. Come vedi ho lasciato alla fine l’ultima domanda chi è per me Dio. La risposta è in realtà molto semplice; il mio Dio è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe; è insomma un Dio che si incarna nella storia e che vive nel tempo, che si sporca, che sente su di sé il peso della vita e della morte. È un Dio carne.

Scendiamo di qualche gradino. Sei uno che vive alla giornata o fa programmi? Cosa stai scrivendo? A cosa stai lavorando?

Diciamo che tra le ricadute dello Strega possiamo aggiungere quella di aver iniziato a tenere una agenda e prendere impegni e rispettare scadenze. Programmo il più possibile i corsi di scrittura, le presentazioni, le consegne degli articoli maggiori. Per quanto riguarda la mia scrittura invece ne faccio a meno. In questi due anni dopo lo Strega ho scritto tre racconti, che mi paiono buoni, e da due anni sto lavorando a una sorta di ri-scrittura del libro del profeta Geremia. È un libro molto sui generis: non è un saggio, non è auto-fiction, non è un romanzo; contiene versi, prosa e parti più strettamente teologico/filosofiche. Credo che la cosa più simile a ciò che vado producendo sia Il regno di Carrère, non tanto come termine di paragone ma come possibile definizione di genere. E se mi chiedi di più, ti dico che no, non ho un editore o un contratto. Faccio quello che faccio di solito: scrivo e poi ci penso, anche se ho l’impressione che questo testo avrà una vita difficile, ma le cose facili non mi interessano e quindi vado avanti.

Che cos’è per te l’amicizia e quanto vale?

Ho pochi amici e molti conoscenti. Gli amici più cari che ho e sono due, li sento pochissimo e li vedo ancora meno, ma so benissimo che nel momento in cui avrò bisogno loro ci saranno. Nei tempi attuali siamo tutti amici, siamo tutti connessi, siamo tutti social. Io sono una persona di compagnia, mi piace andare fuori, in questi anni sono stato spesso ospite di festival, presentazioni e mi sono sempre affidato a persone che non conoscevo con cui ho stretto rapporti, ma la parte più vera di me l’ho tenuta nascosta. Pochi mi conoscono veramente, pochi sanno ciò che vivo nella mia esistenza quotidiana. Io poi tutto sommato sto bene anche da solo.

conforme alla gloriaC’è chi dice nel nostro piccolo mondo editoriale gli amici pubblicano solo gli amici e recensiscono solo gli amici. C’è chi risponde che si è amici proprio in quanto vi è stima reciproca, con ciò che ne consegue. Che ne pensi?

Ti rispondo con una frase di Montale: “Ognuno riconosce i suoi”. Nel senso io non recensisco le persone perché sono mie amiche, ma perché riconosco in loro un percorso comune, una medesima lingua e una medesima tensione narrativa. Io credo ancora in un discorso letterario possibile e comune; un po’ come lo è anche questa intervista. Si potrebbe dire che tu mi intervisti, perché circa un anno fa ho recensito il tuo libro, oppure accettare che semplicemente io e te abbiamo delle cose da dirci, che le nostre opere in qualche modo si parlano. Non ci vedo nulla di male, penso che sia normale. È così nelle arti, pensa alle collettive di pittura o di scultura, e non vedo perché non farlo in ambito letterario. Abbiamo perso la bellezza di ragionare su libri altrui, come se fosse un peccato. Un tempo Moravia recensiva Pasolini che recensiva Calvino, che a sua volta parlava di Levi etc. etc., nessuno trovava niente da dire. Forse il problema è la qualità, ecco. Il problema è scrivere una recensione di qualità, una recensione che affronti i nodi di testo senza che non sia un elogio o una mera stroncatura. Il problema, quindi, è lo stato della critica oggi, la mancanza di un vero discorso critico. Avevo trovato interessante la serie di interviste di Caterini – toh, un amico comune! – proprio sullo stato e sullo statuto della critica in Italia; che mi pareva si potesse così riassumere: la critica è viva, ma non ha luoghi adatti per esercitare il suo magistero.

Come darti torto… Che cosa è per te la libertà? È giusto dire sempre quello che si pensa? Nella vita vale una regola, nella letteratura un’altra?

La libertà è un abisso, quello nel quale tutti quanti ci affacciamo. Ci sono dei momenti nella nostra vita in cui la libertà, il poter non essere quello che si è, ci chiede ragione. Essere liberi è qualcosa di tremendo, perché sei nudo davanti al mondo. Non è un caso che quasi tutti i filosofi e teologi vedano un nesso tra libertà e male; il male entra nel mondo nel momento in cui si sceglie, in cui si è liberi, quando si acquista la condizione umana, rinunciando a quella paradisiaca. È un cosa un tremenda, e infatti Dio prima di decidere a rinunciare alla sua condizione divina per farsi servo (il buon San Paolo insegna) ci mette un po’ di tempo. Se libertà è questo abisso, in cui si sceglie di essere ciò che si è, allora è necessario sempre dire quello che si pensa, con educazione, con attenzione e ascolto, ma senza troppi infingimenti. Nella letteratura spesso si confonde la libertà con la sincerità del dettato. “In questo libro sono stato sincero”, ecco a me che l’autore sia stato sincero me ne importa il giusto; non è quello che cerco.

Chi sei tu veramente? Chi è Demetrio Paolin? Se dovessi far incidere un epitaffio o lasciare una testimonianza ai posteri? Come e per cosa vorresti essere ricordato?

Sono uno che scrive delle storie che alcune persone trovano belle, gioco bene a calcetto soprattutto quando mi metto sull’ala sinistra pur essendo io destro, sono un papà buono, un marito distratto, una persona scontrosa. Non sono né meglio né peggio di altri. Ho fatto cose buone e tanti errori. Non mi pento di nulla.

Quanto conta da uno a dieci l’intelligenza? E l’immaginazione? Cosa le supera per importanza, nella vita e nell’arte?

Io penso che la mia qualità sia l’immaginazione, io le cose non le capisco, ma le immagino. E credo che questa sia la mia qualità come scrittore. Credo, però, che la cosa più importante nella vita e nell’arte sia la disciplina. Essere disciplinati è il segreto.

Cos’è il male per te e come entra nei tuoi libri? E il bene?

Per me il male e il bene sono i due assi cartesiani su cui far muovere i miei personaggi, ci sono personaggi che desiderano il bene e finiscono per fare il male, personaggi che fanno il male e producono bene o altri che credono di produrre bene. Io non so cosa siano il bene o il male, non sono un filosofo. Credo che sia compito dei filosofi dare definizioni complesse e che sia compito degli scrittori produrre storie, immaginazioni e azioni complesse: ciò che io penso e so del male e del bene è il modo in cui i miei personaggi agiscono nel corso della narrazione.

La letteratura sopravvivrà o sarà soppiantata da altro? Non ci sono forse oggi decine di cose più interessanti da fare che leggersi un romanzo?

Credo che siano sempre esistite cose migliori o più importanti del leggersi un romanzo. Eppure queste cose migliori sono scomparse e il romanzo è rimasto. Questo significa che il raccontare storie, l’invenzione delle storie è qualcosa di non essenziale ma di cui non riusciamo a liberarci. Non ne conosco il motivo, ma un certo punto un uomo ha deciso che invece di andare a cacciare, a procacciarsi cibo o coltivare i campi, lui avrebbe raccontato una storia; quell’essere umano ha fatto una scelta che ha realmente modificato il corso della nostra – nel senso di comune e umana – esistenza terrena. Per capire le ragioni del nostro narrare dobbiamo veramente tornare ai nostri progenitori primitivi, mi vengono in mente tre libri che in un certo senso girano, almeno nelle loro prime parti, su questo tema e sono Il discorso dello stemma e dell’ombra di Manganelli, Lettori Selvaggi di Montesano e Biologia delle letteratura di Casadei. C’è in noi un istinto a narrare che in qualche modo fa sopravvivere la narrazione e quindi il romanzo a tutto il resto. Il romanzo sopravvive, e in un certo senso non verrà mai soppiantato dal cinema o da altre forme comunicative, perché vive di parole: se ci pensi è in assoluto la più grande sospensione di credulità che noi abbiamo. Fare in modo che alcune parole combinate insieme producano qualcosa di reale e vero, e vivo. Non c’è niente di più strano che rendersi conto che i personaggi sono solo un insieme di consonanti e vocali.

pettegolezziGià. Un libro che avresti voluto scrivere tu? Una qualità che hai come scrittore e una che non hai e vorresti avere? E come uomo?

Io avrei voluto scrivere due libri. Il primo è Il quinto evangelio di Pomilio e l’altro è Le operette morali di Leopardi. Sono due libri che mi hanno sempre profondamente toccato e che mai riuscirei neppure a concepire. Sono due testi che per bellezza, per stile, per invenzione, per forza di verità sono tra le vette della nostra letteratura e non solo. Sul resto. Una qualità che mi riconosco è il non avere mai uno sguardo comune su un avvenimento e questo credo che aiuti a produrre una immaginazione e una storia particolari. Una qualità che non ho è che vorrei avere è una certe intelligenza emotiva, una cosa che non difetta ad esempio a Dickens o a King… Come uomo, beh… sto così, non perché sia perfetto, ma perché giunto alla mia età ciò che potevo essere lo sono diventato.

Qual è la tua idea di letteratura. Che cosa lo è e cosa non lo è? Non ogni romanzo che esce è letteratura o invece sì? Dove si situa il confine?

Questa è una domanda difficile, perché qualsiasi risposta darò potrà essere usata contro di me. Proviamo così. Ogni testo che viene pubblicato è letteratura, cioè ogni testo che entra in un discorso pubblico è letteratura. La definizione è generica, lo so; non è interessante, lo so; è vaga, lo so. Mi permette almeno di uscire dall’empasse di usare categorie troppo soggettive, che non sono mai una buona cosa quando si tratta di una definizione icastica, come è quella che tu chiedi in questa domanda. Data questa premessa, ogni romanzo che esce è letteratura, ma ci saranno romanzi brutti e romanzi belli. Forse parafrasando Wilde potremmo dire che non esiste la letteratura, ma solo libri belli e libri brutti. Sul confine credo che la mia definizione di prima lo tracci, ciò che non è pubblicato, ciò che non appartiene al discorso pubblico non è letteratura: e il romanzo postumo di un autore, diventa letteratura non appena gli eredi lo pubblicano altrimenti rimane qualcosa di sconosciuto e destinato a perire. Mi rendo conto che è una definizione difettosa, ma in questo momento non me ne viene un’altra.

Qual è secondo te lo sbaglio più grande che può commettere uno scrittore?

Pensare che il lettore non abbia un cuore intelligente, cioè che non abbia la capacità di seguirlo fino in fondo a ciò che scrive e dice. Si tende a sottovalutare il lettore, dico così perché vedo la proposta letteraria media, ma nella realtà io credo che i lettori – i pochi lettori che abbiamo – siano molto migliori di così. Sono gli scrittori che non osano per paura, perché mal consigliati oppure per intento pedagogico (una cosa del tipo: caro lettore io ti spiego tutto, ti do il compito facile facile perché tu lettore sei scemotto e io debbo dirti una grande verità e quindi te la dico piana). Io vorrei che il mio lettore fosse partecipe e vivo nella lettura del mio testo. Io so che chiedo molto a chi legge i miei libri, ma credo che sia necessario.

Il libro che salveresti e quello che butteresti, essendo costretto a fare una scelta…

Il libro che salverei è la Bibbia, il perché è abbastanza facile da comprendere; non è tanto un discorso di fede, ma proprio un discorso di contenuti e di umanità: dentro la Bibbia c’è il germe del nostro essere creature. Un libro che butterei, se costretto, è più che altro una somma di libri ovvero quelli alla Paulo Coelho: che sono l’esatto opposto della Bibbia. Libri che credono di essere sapienti e profondi, libri che hanno una risposta a tutto, ma che in realtà riducono l’enigma uomo a qualcosa che può essere raccontato. Ecco, quelli li butterei tutti.

Sei uno scrittore sicuro dei tuoi mezzi o ogni volta che scrivi temi di non riuscire?

Credo di essere uno scrittore che sa cosa fa quando si mette a scrivere, quindi sono sicuro della mia opera. Sono così consapevole di quello di ciò che scrivo che ne vedo anche la scarsa pubblicabilità, le possibili zone di crisi, i possibili passaggi che se messi in un altro modo renderebbero il libro più commerciale. Li vedo, li noto, ma continuo a scrivere nel modo che so.

Ti piacerebbe condurre una trasmissione tv o radiofonica sui libri? Che impostazione le daresti?

Sinceramente no. Non credo di avere la verve e la capacità di fare questo. Mi piacerebbe invece arrivare ad avere una rubrica fissa di recensioni su di un quotidiano, mi piacerebbe esercitare la mia critica in maniera continuata. Quello credo che sarebbe interessante e arricchente.

Leggi filosofia? Cosa ti piace e cosa non ti piace della filosofia? È utile a uno scrittore e perché?

Questa è un po’ una mia pecca. Ne ho letta molta, ma ora no. Diciamo conosco molto poco i filosofi contemporanei e lo stesso vale, anche se in misura minore, per i teologici. Comunque per dire. Io non credo che la mia scrittura e la mia opera sarebbero la stessa senza la lettura di Hegel, senza Pascal, senza Heiddeger, senza Platone, ma anche senza Camus o Kierkegaard. E credo che non sarebbero la stessa senza Tommaso D’Aquino, Meister Eckart, o Cornelio Fabro o Sergio Quinzio o Paolo De Benedetti.

I tuoi cinque libri capitali?

“Le lettere” di Paolo, “La Commedia” di Dante, “Amleto” di Shakepeare, “I Fratelli Karamazov” di Dostoevskij e “Viaggio al termine della notte” di Céline.

Cosa manca alla letteratura italiana odierna? E cosa ci possono invidiare all’estero?

La manca il fatto di sentirsi letteratura, siamo così occupati a dire questo è brutto, questo libro fa schifo, questo non merita tale premio che ci perdiamo il buono che produciamo e anche una certa continuità di opere assolutamente interessanti. Il problema è che non riusciamo ad avere un discorso di insieme o più ampio. Ci sono libri che in un certo senso provano a fare questo discorso ma di solito si fermano alla triade Mari, Moresco, Siti. Ma ti faccio un esempio: se tu leggi Eleonora Caruso, Sandro Campani, Maurizio Torchio, Michele Vaccari, Veronica Tomassini, Ivano Porpora, Gabriele Dadati, Mary Barbara Tolusso, Enrico Macioci, vedi che esiste veramente qualcosa di più e più ampio che ancora stentiamo a definire ma che c’è (l’elenco è puramente casuale è dettato dai primi testi che ho sullo scaffale delle cose lette e che mi sono piaciute). All’estero ci possono invidiare la lingua. L’italiano è una lingua musicale, complessa e piena di sfumature, di costruzioni sintattiche e grammaticali che prevedono una grandissima gamma di soluzioni narrative, che rendono la nostra lingua – se usata con cura – adatta a qualsiasi forma di discorso narrativo.

Un’ultima domanda. Da poco dirigi una collana digitale per l’editore Laurana. Puoi parlarcene? Quale il tuo piano editoriale? Su quali criteri baserai le tue scelte?

L’idea che muove Laurana Reloaded è una sorta di sguardo critico sugli anni ’90 delle letteratura italiana. Fu un’intuizione di Marco Drago, di Gabriele Dadati e Giulio Mozzi, e che Lillo Garlisi appoggiò; ovvero di rendere nuovamente fruibili una serie di testi che erano stati fondamentali in quel decennio e che per ragioni varie non erano più in commercio. Sostanzialmente io vorrei tenere fissa questa idea allargando un po’ il campo d’azione anche ai primi 2000 e andando indietro nel tempo a testi pubblicati negli anni ’70, testi bellissimi e interessanti che hanno avuto un grande successo che sono stati pubblicati con editori di prestigio e poi sono finiti nel dimenticatoio. Per quanto riguarda il piano editoriale vero e proprio, prevediamo circa dodici titoli in un anno a partire da Giugno 2018. Per i nomi aspetto ancora qualche settimana, perché sto cercando di firmare alcuni contratti per poi dare l’annuncio, ma ti posso dire che i libri che abbiamo scelto sono interessanti e forniscono una idea della letteratura italiana contemporanea molto diversa. Il criterio base è la curiosità: non sono uno direttore di collana che pubblica i libri che vorrebbe scrivere lui, per il fatto che se fosse così li scriverei io, ma pubblico anche testi lontani da me, che però hanno in comune una tensione emotiva e etica, una tensione che quando li ho letti mi han fatto: questo è bello, lo pubblico.

Lo ringraziamo per il tempo che ci ha dedicato. Ci sono interviste che lasciano il segno. Interviste al termine delle quali la mente continua a girare, pensando e ripensando alle cose dette e non dette. Eccone una.

Gianluca Barbera

Gruppo MAGOG