I Vangeli non sono scritti nella lingua che parlava Gesù. L’ebreo Paolo, nato a Tarso, il ‘fondatore’ del cristianesimo, scrive in greco, la lingua franca dell’epoca. Il cristianesimo, in sostanza, nasce straniero, mendicante di linguaggio, in mancanza. Le parole di Gesù ci giungono tradotte/tradite: il bacio di Giuda ne è la serratura, come quello – millesimato e a migliaia – del Cantico è lo spioncino dietro cui si scorge la nudità di Dio. Questa latitanza è affascinante: il cristiano non ha neppure un ‘libro’ da idolatrare, non ha neppure una lingua sacra a cui prestar fede. Estremismo della solitudine, equinoziale passaggio nel deserto dall’Io-sono-colui-che-è (il Nome ri-velato, cioè velato due volte, a Mosè) al Chi-credete-che-io-sia.
Il cristiano non ha una lingua su cui poggiare il capo.
Le ha tutte, dirà l’entusiasta. L’atto Pentecostale è linguistico: “cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi” (At 2, 4). L’ispirazione permette ai discepoli di discernere il Verbo e di distillarlo secondo il gergo degli spettatori: Romani e Parti, Elamiti e Frigi, egiziani, libici, cercatori giunti dall’Asia, Cretesi e Arabi. Babele torna Eden: le molteplici lingue si fondono nell’unica. Secondo l’immaginario cristiano, il miracolo appare in “lingue come di fuoco”: lingua che incendia, certo, annuncio – vangelo – che si realizza incenerendosi.
Al contrario, ciò che affascina dell’ebraismo è la transustanziazione del messaggio nel mezzo, e viceversa. La lingua ebraica è sacra: pur cifrata, essa dice tutto Dio; il vero tempio è la Torah. Dio parla in ebraico: la sua è parola che crea, dona la vita e semina morte. Il Libro, per sua natura, è un labirinto; un deserto: all’ombra di ogni lettera sboccia un roveto che arde. Ogni lettera: sangue coagulato; colatura di Dio.
Questa visione può portare – secondo una sintesi selvaggia – a due atteggiamenti. Il primo è quello legalista. Il Libro è Legge. Interpretarlo significa costruire un coerente sistema di norme, rispettando le quali si abita nel foyer celeste di Dio. Il Libro è un tribunale. L’altro sguardo è mistico, ergo profetico. Il Libro è infinito, è un universo: ne devo scovare i più remoti insegnamenti per afferrare un lembo di Dio, devo incessantemente meditarne l’enigma. Da una parte si preme sulla ‘carne’ del testo – parola incarnata, parola marchiata a fuoco – dall’altra sul suo ‘cuore’ – parola che non si volatilizza perché fa volare. Da una parte la legge, dall’altra l’energia; da una parte il governo della terra dall’altra l’ascensione ai cieli; da una parte il braccio dall’altra la mente.
Il più importante interprete della mistica del Libro – meglio: della “Qabbalah profetica” – è Abraham Abulafia, cabbalista nato a Saragozza nel 1240, predato da convinzioni messianiche, ideatore di alcune formidabili tecniche di meditazione per uscire fuori di sé. Vagabondo per lignaggio sapienziale, Abulafia si recò in Oriente alla ricerca del mitico Sambạtyōn, il “fiume di sabbia” che scorre soltanto il sabato – o che il sabato smette di fluire, a seconda dei riferimenti leggendari – dove si sarebbero rifugiate le perdute tribù d’Israele. Nel 1280 decise di recarsi dal Papa, “a nome degli ebrei”: Niccolò III lo avrebbe preferito al rogo, morì prima di incontrarlo e di combinare la pena. Certo dei suoi poteri, dal 1291, da Comino, Malta, Abulafia fece perdere le tracce di sé.
Il genio mistico di Abulafia agisce sul linguaggio: la meditazione che propone, il primo gesto per congiungersi a Dio, passa attraverso uno scoscendimento nell’alfabeto ebraico. Bisogna ‘scarcerare’ le lettere, insinuarsi nei loro marchingegni fino a farli esplodere. Il Chokmath ha-tzerùf, “La scienza della combinazione delle lettere”, è una sorta di manuale che insegna la meditazione secondo l’arte combinatoria dell’alfabeto ebraico. Quando Rimbaud scrive a Paul Demeny che il poeta, per essere tale, deve giungere “all’ignoto”, balzando “attraverso cose inaudite e innominabili”, indagando la propria anima, nell’aldilà del “dizionario di qualsiasi lingua” (per scrivere il quale “bisogna essere accademici, più morti di un fossile”), propende per la via profetica della poesia. Per questo, meditando le vocali, Rimbaud le vede a colori, immagina “fieri ghiacciai” ragionando sulla E, “vibrazioni divine di verdi mari” speculando sulla U. La meccanica è simile: togliere i lacci al linguaggio, sgangherare le segrete delle parole. Come negli abbecedari dei bimbi, in cui ogni lettera nascondeva una belva, un’epopea – e infine, uccise tutte le immagini, resta l’insolvibile, ciò che non ha più punti di divisione, la fiera oltre le fiere.
Secondo Gershom Scholem, “Lo scopo di Abulafia è di ‘dissigillare l’anima, sciogliere i nodi che la legano’. Tutte le intime forze e tutte le anime nascoste negli uomini sono distribuite e differenziate nei corpi. Ma quando i nodi sono sciolti, ogni forza corre secondo la sua natura alla sua prima origine, che è unitaria, priva di ogni duplicità e che comprende in sé la molteplicità infinita. Lo ‘scioglimento’ è dunque un ritorno dalla molteplicità e dalla separazione all’unità originaria” (in: G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, 1993).
Nei suoi scritti – tortuosità con vicoli in diamante – Abulafia forza il linguaggio oltre i limiti della comprensione (il mercato del linguaggio): ammette il discepolo se costui spacca i vetri, senza vedere differenza tra sangue e vento. Anche i testi teorici hanno il passo profetico: ai nostri occhi apparirà lirico ciò che ha venatura sacra; Isaia, per intenderci, non è Shakespeare, leggere Giobbe non è leggere Leopardi. In calce all’articolo, alcuni testi di Abulafia nell’interpretazione di Peter Cole (The Dream of the Poem: Hebrew Poetry from Muslim and Christian Spain, 950-1492, 2007) e di Aryeh Kaplan (Meditation and Kabbalah, 1979).
In “Le porte della giustizia” (Sha‘aré tzèdeq), Abulafia sintetizza il suo pensiero in questo modo: per realizzare il “salto” dal mondo materiale alla materia di Dio “bisogna svolgere in rapido movimento le combinazioni delle lettere. Questo riscalda il pensiero e così cresce la gioia e il desiderio, mentre si annulla il desiderio di nutrimento, di sonno e di qualsiasi altra cosa del genere”. La pratica “della scrittura e del linguaggio” aiuta a raggiungere “uno stato che è al di là di ogni controllo del proprio pensiero” e che Abulafia chiama “la fiamma della spada rotante”. In quegli istanti, “uno vede che il suo più intimo essere è qualcosa di fuori dall’io stesso”. Je est un Autre. Pare quasi di assistere a una poetica. Scrivere per sprigionarsi, per spogliarsi da ogni scritto.
“Ho approfondito il mio cuore per le vie della grazia verso l’espansione spirituale”, scrive, in più tenera forma, Abulafia. È sempre lì, allora, il senso dello spirito: andare al bandolo del cuore, divorarlo.
***
E Yhwh parlò: vidi il nome Suo
effuso e congiunto al sangue del mio cuore
separati il sangue dall’inchiostro, l’inchiostro dal sangue:
e Yhwh parlò dicendo: Ecco
il sangue è sigillo della tua anima, l’inchiostro il verbo del tuo spirito:
tuo padre e tua madre, vasi del mio nome, puro segno.
Capii la differenza tra lo spirito e l’anima
e una folgore di gioia mi ha trapassato.
L’anima abita il rossore del sangue
dello spirito è l’oscurità dell’inchiostro.
Guerra infuria nel cuore
tra sangue e inchiostro: sangue nel vento
inchiostro nella polvere – l’inchiostro
soggiogò il sangue – come
il sabato primeggia sugli altri giorni della settimana.
Così il cuore riposa in me – e lo offro
in lode a Lui, al Nome per sempre inciso nel mio cuore.
*
La lettera è nostalgia
desiderio celeste
di conoscere la volontà
che Lo muove e presta
grazia allo spirito
e misericordia al potere
che rettifica ogni azione,
Regno ineffabile
e Legge che lo regge –
le lettere e le vocali:
il canto che rivela
le segrete del sangue…
*
Comunque
il respiro
che viene
per secondo
è il
santo
tabernacolo
del cuore.
Ascendi
con l’Unico Nome
fino al cielo
per rettificare le Unità
il rapporto
tra tutto ciò che
per la scienza è impossibile
da pronunciare.
Soltanto
nel Nome è la vita.
Ricordo sigillato
nel Libro dei Vivi
perché il singolo uomo
viva nella passione
che illumina
ogni istante quando
ogni pensiero
ogni anima
su Lui è concentrata.
*
e il segreto:
la sua misura è destra e sinistra
misura della destra la sinistra
misura della sinistra la destra
non ha cieli a sua immagine
immagine della sua destra la sinistra
immagine della sua sinistra la destra
e la sua nascita essere giunto dal non essere
paternità dal nulla nomi
il mio nome è altro
da ciò che immagine non ha
la mia immagine è altro
da ciò che nome non ha
e non ho nome oltre all’immagine
e non ho immagine oltre il nome
en yah en yah nella sua interezza
il nome immagina la mia verità
*
(primo cerchio – bordo interiore)
sii cauto perché i padri ti hanno avvertito in merito al fuoco: non lasciarti bruciare né scorticare dalle acque
(irradiazione)
non
annegare
dentro
i ricettacoli
del vento
che non ti
ferisca
il suo utilizzo
(secondo cerchio – bordo interiore)
a condizione che chiunque assume un nome per proprie esigenze trasgredisca dal compito
(irradiazioni)
riguardo al nome
è creato
per la sua
gloria
solo così
il profeta
può dire attorno
al suo segreto
(terzo cerchio – bordo interiore)
qualunque cosa possegga il mio nome è per onorarlo, ha veritiera funzione, informa
(irradiazioni)
i suoi profeti (sia benedetto)
sostano sul nome
nei tre modi
della creazione
dei cieli
della terra
dell’Uomo
(quarto cerchio – bordo interiore)
perché tu sappia che il più onorato nome è Israele perché il resto del nome è il suo popolo, il prediletto
(irradiazioni)
in Israele
il più onorato tra i Leviti
è il
sacerdote
e il più onorato
dei sacerdoti
è il Messia
Abraham Abulafia