23 Novembre 2023

“Devi deporre tutto ciò che di bello possiedi”. Ivor Gurney, genio incompreso: dalle trincee alla follia

Londra, 1911. Quando Ivor Gurney arriva al Royal College of Music con una borsa di studio ha ventun anni e un’unica cosa in mente: studiare musica. Di famiglia modesta, da bambino è riuscito a entrare nel coro della cattedrale cittadina, quindi nella prestigiosa King’s School. I suoi insegnanti l’hanno definito un prodigio schubertiano: il Royal College of Music gli sembra un sogno.

Sir Charles Villiers Stanford, tra i fondatori del College, compositore di musica sinfonica e direttore d’orchestra sarà suo docente di composizione. L’incontro più rilevante per lui è però quello con Marion Scott, sempre allieva di Villiers Stanford nella classe di violino, tredici anni più di lui. 

Da non molto Marion formato il suo quartetto d’archi per diffondere la musica britannica contemporanea – sarà la prima donna a comporre per archi e voce –, ma già adolescente si esibisce con il suo Guadagnini accompagnata dal padre, avvocato e dotato pianista. Illuminati riformisti sociali – la madre è un’americana cresciuta a San Pietroburgo –, i genitori l’hanno coinvolta fin da piccola nella Crystal Palace School of Arts. Quando conosce Ivor ha anche pubblicato versi e fondato il sindacato degli studenti del College e la Società delle donne musiciste, lavoro pioneristico che ridisegnerà il ruolo femminile nella musica classica. Ha inoltre ideato i celebri At Homes, incontri informali in cui gli studenti possono scambiare idee o far musica insieme, spesso nell’elegante Westbourne Terrace, la casa londinese dei suoi. Negli anni la sua instancabile generosità di critico musicale e musicologo ne aiuterà moltissimi.

Marion Scott (1877-1953)

Gurney, figlio di un sarto di campagna, è un ragazzo di bell’aspetto ma un poco spaesato: non si trova a proprio agio in quegli ambienti raffinati, ha nostalgia della meravigliosa campagna del Gloucestershire. Malgrado la differenza sociale e di età, i due stringono subito amicizia. Marion non è la sola ad apprezzarne l’onestà, la mancanza di finzione, persino l’introversione. Lui appare inquieto, spesso assente, agitato: sono i primi segni del disturbo bipolare che l’affliggerà tutta la vita. È bravissimo nel mettere i versi in musica, ma soffre anche di squilibri alimentari, salta un pasto dietro l’altro, vorrebbe muoversi di più. A Gloucester aveva l’abitudine di girovagare come un cane sciolto, un vagabondo che dormiva nei fienili e non tornava per giorni.

La nostalgia di casa, l’avversione per la capitale, l’impegno esorbitante da allievo modello del College confluiscono in un primo tracollo nervoso nel 1913. Riesce comunque a terminare le Cinque canzoni elisabettiane da Shakespeare, Fletcher e Nashe, i “cinque eliza”, come li chiama.

*

Lo scoppio della guerra interrompe i suoi studi e le molte attività di Marion: concerti, conferenze di storia della musica, lezioni di composizione, armonia e orchestrazione per vari club e istituzioni londinesi. Lui, in un primo momento scartato perché porta gli occhiali, si arruola nel 2°/5° Reggimento del Gloucestershire: come altri, ha salutato nella guerra una possibilità di mostrare coraggio e patriottico amore del suo angolo d’Inghilterra. Nell’esercito spera anche di combattere la depressione con quel che definisce un «sano logoramento». Con orgoglio di poeta:  

Adesso, giovinezza, giunge l’ora della passione che temi;
Devi deporre tutto ciò che di bello possiedi;
E, come gli altri, devi affrontare il giorno lacerato
[…] Quando anche solo il rumore ottunde
Il sentimento di esistere e l’anima turbata tentenna,
Ricorda l’onore della tua grande arte, che nessuno
Possa gettare disonore sui poeti…

È il sonetto a se stesso, To the Poet before Battle. In guerra trova più congeniale comporre poesia che musica: un verso per volta, nei minuti tra un’allerta e un bombardamento. Marion Scott continua a incoraggiarlo. Lui le invia i versi, lei li legge e lo consiglia.

Il 7 febbraio 1917 le scrive alla luce di una candela in una baracca nei pressi di Amiens. Dopo oltre due anni (di cui nove mesi in Francia), è stanco di quella vita: spera per il futuro in un lavoro meno pesante, o almeno in un congedo. Alla lettera acclude il sonetto Pain, “Dolore, dolore continuo, dolore senza fine”, insopportabile a tutti ma di più a “coloro che sono / Affamati di bellezza”:

Grigia monotonia cede
Peso al cielo grigio, al grigio fango dove sfila
Un esercito di grigi spettri strappati al letto
Indifferenti alla più crudele chiamata del Fato,
E guardano gli occhi patetici di uomini condannati,
O cavalli colpiti, troppo stanchi anche solo per muoversi,
Morire insieme negli squarci creati dalle bombe, uccisi dal fango.
Uomini spezzati, che gridano sentendo uno sparo…

Pain farà parte di una serie: i “sonetti 1917”, una specie di contro canto ai “sonetti di guerra” di Rupert Brooke.

Diventata la sua protettrice, confidente, agente letterario – e innamorata non corrisposta –, è sempre a lei che Ivor, pur nella tragedia del Fronte, invia anche descrizioni comiche della vita militare. Persino l’ufficiale incaricato della censura, che gli chiede immancabilmente di accorciare le sue lettere, le trova spesso divertenti:

Oggi ho avuto un’ispezione da parte del Colonnello. Aspettavo tremando, sapendo che c’erano sei settimane d’ospedale, sporcizia da lavoro recente e un po’ di ruggine non eliminata del tutto: no, non definitivamente. Stavo lì in piedi, una pecora tra le capre (anzi, viceversa) e aspettavo tuoni e fulmini. E poi è arrivato, Colui-Che-DEVE-Essere-Obbedito. Mi ha guardato, incerto, mi ha guardato di nuovo, incerto, ed è stato richiamato dal Sergente Maggiore del Reggimento, che poi han sentito dire al Colonnello (qualche passo distante da me), “Un buon uomo, signore, molto a posto. Proprio un buon uomo, signore, ma è un musicista, e sembra incapace di tenersi pulito”. Quando il suddetto Sergente Maggiore è venuto a darmi un’occhiata, è uscito in una risatina soffocata, e mi ha detto “Ah Gurney, temo che non riusciremo mai a fare di Voi un soldato”.

Poco militaresco in modo impenitente, Gurney riesce a sopravvivere. Tra coloro che sono “affamati di bellezza”, ritiene l’esordio del Paradise Lost di Milton paragonabile a Bach, recita Milton e Wordsworth durante le marce. Ma vivere da spettro nelle trincee lo ha fiaccato: dedicare provocatoriamente la sua sequenza di sonetti a Rupert Brooke è un altro modo per far notare la sua protesta. Se Brooke, chiarisce a Marion, ha scritto di guerra solo come proiezione, lui intende mostrarla nel vivo: non da una visuale univoca, ma nelle sue molte sfaccettature.

*

Letti il mese dopo la morte di Brooke, a maggio 1915, i suoi sonetti di guerra gli sembrano splendidi: soprattutto The soldier (“Dovessi morire, pensate solo questo di me, che c’è un campo di terra straniera che sarà per sempre Inghilterra…”) e The Dead (“Questi cuori erano intessuti di gioie e preoccupazioni umane,/ Meravigliosamente lavati dal dolore, pronti all’allegria…”), tanto da chiedere all’amica di trovargli una copia del “Times Literary Supplement” che li ha citati per intero. In giugno la recensione ai Poems 1914 & Other Poems lo vede ugualmente entusiasta.

Qualche tempo dopo, però cambia idea: quei sonetti non gli sembrano più così belli. Comunque, Brooke è sempre nella sua lista di poeti che hanno saputo descrivere la guerra, con Thomas Hardy, Laurence Binyon, Wilfrid Gibson e Julian Grenfell.

Sta lavorando sodo alla ‘sua’ serie di sonetti ma senza volerlo fa eco a Brooke in più luoghi del suo canzoniere bellico, in cui adotta la rigorosa forma del sonetto petrarchesco. Come stanno scoprendo anche Sassoon o Graves o Sorley, non è semplice scrivere sonetti di guerra senza sembrare un epigono di Brooke. Nel suo caso solo Pain, con l’immagine terribile di uomini e animali che muoiono insieme nel fango, si distacca nettamente da fraseggio e cadenze brookiani.

*

In England the Mother, Madre Inghilterra, i soldati lontani pensano all’amore della loro isola oltre il mare, “Il Tuo Amore, il Tuo Amore ci custodirà, ci renderà completi”. Li difenderà riducendo a un nulla “impotente la Morte sbeffeggiata dai ragazzi”: nel cuore quei ragazzi soldati porteranno intatti “l’oro delle giunchiglie, la scia del tramonto,/ L’innocenza e la gioia dell’azzurro d’Inghilterra”. Un verso finale non molto diverso da quello che chiude Il soldato di Brooke, “In cuori in pace, sotto un cielo inglese”. Né è molto diversa è l’immagine dell’Inghilterra-madre che “custodisce” e alleva i suoi figli.

Anche When I am covered, Quando sarò sepolto fa eco al soldato di Brooke che chiede di essere “sepolto in un angolo di campo straniero che sarà per sempre Inghilterra”:

Quando sarò sepolto nella polvere della pace
E solo la pioggia bagnerà la mia argilla senza vita,
Ancora rimarrà un rimpianto in quell’inquietudine…

Poi tutto è cambiato. Il Fronte lo ha sprofondato in una guerra opposta all’avventura cavalleresca che Brooke, e all’inizio persino Owen e Sassoon, hanno immaginato. Adesso Gurney vuole competere con l’immagine pubblica di Brooke come “poeta di guerra” e rovesciarne la rappresentazione.

A metà luglio 1917 riceve un telegramma da Marion, che ha continuato a leggere e suggerire modifiche ai versi man mano che lui li inviava dal Fronte. Grazie all’aiuto di amici, gli ha trovato un editore: Sidgwick & Jackson, l’editore di Brooke e di Foster, vuole pubblicare le sue poesie. Nel frattempo, lui è stato ferito. Lo aspetta in ogni caso la terza battaglia di Ypres. Riflettendo su pregi e difetti della propria raccolta immagina che i lettori non vi troveranno quel culto dell’auto sacrificio e il desiderio di morte di Brooke, Grenfell e altri. La malattia è già un peso gravoso sulle sue spalle: una realtà contro cui deve già combattere ogni giorno anche mentre compone e che a tratti lo annienta, con un sordo, amaro rancore contro il sistema che mette a rischio di morte il fiore degli artisti inglesi.

La raccolta Severn & Somme esce a metà novembre 1917 con la dedica “Alla memoria di Rupert Brooke”, voluta con insistenza dall’autore. Il rapporto con il suo modello-antagonista si è trasformato in un complesso mix di omaggio e conflitto, ammirazione e rivolta. Per l’uscita del volume Gurney, che ha subito un attacco con il gas, si trova nell’ospedale militare di Edimburgo. Le recensioni sono in genere positive: l’autore possiede “la voce di un vero poeta”, dichiara il “Daily Telegraph”. Con Embers of War, Tizzoni di guerra del 1919, sarà il solo volume di poesia che vedrà pubblicato in vita.

In una di quelle liriche l’io narrante parla con tre apparizioni, la terza delle quali gli predice di sopravvivere alla guerra e di dover vivere poi con “molto dolore”. Ferito alla Somme e gassato, Gurney sarà congedato dall’esercito poco prima dell’armistizio nel 1918. Per allora, la profezia si sarà avverata: convalescente, scrive a Marion di aver parlato con lo spirito di Beethoven. In un’altra lettera la ringrazia di tutto ciò che ha fatto per lui: teme di diventare folle e non riuscire più a dirglielo in futuro. Ha deciso di uccidersi: il solo rimpianto è che suo padre non percepirà più l’indennizzo di guerra.

*

Gurney non si ucciderà ma per lui la profezia dello spirito è appena iniziata. Di nuovo, è ricoverato in ospedale psichiatrico. Si riprende, torna agli studi musicali al Royal College of Music. È costretto a lasciarli ancora: la malattia mentale lo segnerà per il resto della vita.

Nel 1922, dopo vari tentativi di suicidio la famiglia lo fa ricoverare al London Mental Hospital: vi trascorrerà gli ultimi quindici anni. Durante l’internamento mette in musica altra poesia rinascimentale e continua a scriverne: agli amati e perduti paesaggi del Gloucestershire dedica la lirica e ardente A Gloucestershire Rhapsody. Racconta i ricordi della guerra, le visioni che lo portano lontano nei momenti di buio del male. Qualche lirica appare nel “London Mercury”, per il resto la sua poesia è ignorata. Dopo uno strano corso editoriale, il lento, crescente favore dei lettori lo collocherà accanto al meglio dei soldati-poeti a lui contemporanei, tra i sedici della Prima guerra mondiale onorati nell’ardesia a Westminster.

*

Negli anni post bellici Marion Scott continua a promuovere la sua musica e la sua poesia. Gli resta vicino, parla con i medici, con loro prende decisioni per le sue cure, ogni giorno va da lui in ospedale e se il tempo lo permette lo porta fuori, gli offre aiuto finanziario. Riesce anche a convincere la sua famiglia, in particolare il fratello minore Ronald, a inviarle tutto ciò che hanno di Ivor: musica, poesie, lettere.

Dopo la morte di lui nel 1937, la legge le conferisce ogni diritto sull’opera dell’amico e collega, che continuerà a ricordare fino alla fine, nel 1953. A Ronald e alla famiglia Marion aveva detto di voler tenere gli scritti e la musica di Ivor per ricordo. In realtà ha trascritto e catalogato tutto: solo grazie alla sua dedizione i manoscritti di Ivor Gurney, disordinati, onirici, a volte coperti di frasi sconnesse e schizzi incomprensibili, sono sopravvissuti.

Paola Tonussi

Gruppo MAGOG