19 Marzo 2019

“Studio gli atti estremi per cercare di conoscermi”: dialogo con Andrea Tarabbia

In un altro contesto, tentando una lettura articolata del suo libro, livido e lirico, ho detto che è un “addestratore di Minotauri”. Poi ho scritto quello che penso: che Madrigale senza suono (Bollati Boringhieri, 2019; eppure è brutta la copertina ed è spudorata la ‘quarta’, con la lista buona di quelli che hanno scritto di lui, da D’Avenia in giù: l’autore ha una spada nella spina dorsale, si regge benissimo da sé, senza stampelle giornalistiche) è un romanzo, finalmente, fieramente, con un Risiko narrativo riuscito, che a me ricorda Mario Pomilio – una lunga lettera in cui Igor Stravinskij ricalca, per il professor Glenn E. Watkins, una ignota e truce e barocca e stralunata e stravolta Cronaca della vita di Carlo Gesualdo Principe di Venosa – e una carica etica (tema di fondo: dal ‘mostro’ nasce il bello, dal gorgo del male scaturisce la forma perfetta) che inquieta, un tormento. Tarabbia, insomma, fa così: addomestica il Minotauro, stende i panni fra le sue corna, ne scandaglia la claustrale bellezza. Poi te lo scaglia addosso, affari tuoi. La storia di Gesualdo da Venosa, di per sé affascinante – fu straordinario madrigalista, un avanguardista della musica, nel 1590 uccise la moglie, la bellissima cugina Maria d’Avalos, sorpresa in flagrante tradimento con Fabrizio Carafa, accoppato pure lui, poi s’accoppia, misogino, demonico, a Eleonora d’Este – rinnovata da Stravinskij nel Monumentum pro Gesualdo da Venosa ad CD annum (1960) e resa pop dalla coppia Battiato-Sgalambro nell’album L’ombrello e la macchina da cucire (1995), ha oscurità nervose da pittura della Controriforma. “Parla di musica, di bene, di male, di padri, di figli, di morte, di Dio, del diavolo, di malinconia, di omicidi ahimè dovuti, di cognomi, di Novecento, di demonietti, di carte (forse) ritrovate, di donne bellissime e forse fatali, di nani, di poeti folli e di streghe, infine di genio e talento. Insomma le solite cose”, scrive Tarabbia, abile a sfilettare le tenebre (Il demone a Beslan, 2011; Il giardino delle mosche, 2015) e soprattutto nel domare il mostro romanzesco senza che dilaghi nel grottesco, nell’horror. Di fatto, Madrigale senza suono è una decisa riflessione sull’atto spietato, spenta l’assoluzione, dell’arte. Pensai naturale, dopo aver scritto del libro, confrontarmi con l’autore. (d.b.)

Vorrei entrare nella tua testa romanzesca. Come è nato Madrigale senza suono? Intendo, la struttura formale, il gioco di far parlare Stravinskij, la voglia di sondare Gesualdo da Venosa.

Gesualdo da Venosa è un personaggio assolutamente fuori dall’ordinario, di cui in Italia sappiamo molto poco: bulimico, scontroso, solitario, geniale, devoto e demoniaco insieme. Ho incrociato la storia della sua vita e la sua opera circa cinque anni fa e ho subito capito che avrebbe potuto diventare un personaggio “mio”: nella sua parabola si sintetizzavano tutti i temi che io da sempre tratto nei miei libri – la colpa, il dolore, ma anche la creazione, l’idea della bellezza. Così ho cominciato a studiarlo, sono andato una prima volta a casa sua, a Gesualdo, in Irpinia, ho parlato di lui con alcuni suoi esegeti e con certi musicisti che si occupano di musica rinascimentale e barocca. Volevo conoscerlo, guardarlo da vicino per capire se davvero avrei potuto lavorare su di lui. Ora, quando si studia Gesualdo è inevitabile incappare in Stravinskij. È Stravinskij che l’ha riscoperto, a metà Novecento, è lui che lo ha rimusicato e che ne ha rivelato al mondo il genio. Ma non solo: ha fatto capire che esiste un legame stretto tra la musica di Gesualdo e un certo Novecento – ha detto che Stravinskij è “figlio” di Gesualdo. Questa cosa ha fatto scattare la scintilla definitiva: fino a quel momento, avevo in mano materiali per fare un romanzo biografico su un musicista di genio, uxoricida e stravagante; ora avevo i materiali per fare un romanzo che, oltre che raccontare la vita del principe, poteva parlare del Novecento, del suo rapporto con la modernità, e di concetti che mi sono vicini come il rapporto con il passato, la rielaborazione della tradizione e così via. All’inizio avevo una storia, straordinaria ma pur sempre solo una storia; adesso avevo una storia e un grande tema, una sfida possibile. Così ho cominciato a immaginarla e ho capito che la forma del libro, in qualche modo, doveva rispecchiare alcuni concetti fondamentali: per esempio, ci dovevano essere molte voci, molti “io narranti”, perché i madrigali gesualdiani hanno cinque, a volte sei o sette voci; ma soprattutto, bisognava fare con la letteratura del passato ciò che Stravinskij aveva fatto con la musica di Gesualdo rimusicandola: vale a dire prendere temi e modi della tradizione e giocarci, rimetterli in modo, investigarli e renderli contemporanei. Così, Madrigale senza suono fa i conti con la tradizione cominciando con il ritrovamento di un manoscritto, e poi riproponendo la forma epistolare e diaristica. Ma il romanzo non prende di peso questi cliché letterari: li mette in dubbio, ne fa la parodia (in senso etimologico), li immerge – o almeno prova a farlo – in quello che qualcuno, una volta, ha chiamato “il vapore della modernità”.

Che rapporto c’è (estrapolo concetti che mi abbagliano dal tuo romanzo) tra crudeltà e purezza, tra male e arte, tra perdizione e dedizione, tra etica ed estetica, insomma? Lo chiedo a te attraversando lo specchio del romanzo.

Io me lo chiedo attraverso Stravinskij. A un certo punto, lavorando su Gesualdo e leggendo la cronaca apocrifa della sua vita, Stravinskij comincia ad avere dei dubbi: come è possibile, si chiede, che io, uomo razionale, regolare, addirittura freddo quando compone, mi innamori di un autodidatta tutto estro, tutto istinto? E soprattutto: come è possibile che io mi scopra figlio, artisticamente parlando, di un essere ributtante, dionisiaco e omicida? Insomma: Stravinskij trova la bellezza nel suo contrario e non sa cosa pensare: ha più di 70 anni, è il musicista più importante del Novecento e lo sa, eppure segue la storia gotica di un matto vissuto quasi 400 anni prima di lui e si riconosce in lui. Questo è un tema forte, per me, è una cosa che sento molto, che mi spinge a visitare le case degli scrittori, a guardare fuori dalle loro finestre, a immaginarmi la loro vita quotidiana. Thomas Mann è più Thomas Mann se lo guardi da dentro la stanza dove si lavava la faccia. Tutto questo per dire che c’è un rapporto diretto tra la grandezza e la vita spicciola, tra la bellezza e l’orrore. Io cerco di mettere in scena questa relazione nei miei libri, ma mi è molto difficile spiegarla razionalmente: forse il male e il bello sono la fronte e la schiena dello stesso essere, e noi se vogliamo descriverlo dobbiamo guardarlo da entrambi i lati. Nei miei libri fin qui mi sono occupato di figure borderline, capaci di grandezze e di infinite bassezze – come l’uomo del sottosuolo – perché mi pare che, se guardiamo alle manifestazioni dell’umano quando raggiunge o oltrepassa i suoi limiti (etici, morali, fisici, psicologici ecc.), quello che vediamo è una versione tirata allo spasimo di quello che siamo.

Il ‘mostro’ che valore ha nei tuoi libri? Anche lo scrittore, forse, quando mostra il mostruoso è egli stesso mostro.

Credo di aver in parte risposto nella domanda precedente. Non mi interessa il mostro in sé, ma il mostro che, nella sua mostruosità e in virtù di essa, dice qualcosa di me. Credo di poter ragionevolmente affermare che io, nella mia vita, non ucciderò mai nessuno: eppure so di possedere, in dosi ragionevoli, quell’istinto di sopraffazione, la rabbia e la capacità di distruggere che, drogati, possono portare a compiere atti estremi. Ecco, studio gli atti estremi per cercare di conoscermi.

Cosa hai letto per arrivare al Madrigale? Intendo, come prepari i tuoi libri, con quale impeto di studio? (In calce: dimmi che letture ti hanno formato, per così dire).

Molti libri di musicologia, e tutto quello che ho trovato su Gesualdo; molti libri di e su Stravinskij; libri sull’alchimia, sulla stregoneria, sulla licantropia, manuali di storia moderna e di storia del Meridione, libri di pittura e architettura; guide turistiche dell’Irpinia; libri su Ferrara e su Venezia; programmi di sala storici della Fenice, del Metropolitan e della Royal Albert Hall; carteggi vari tra Stravinskij e chiunque; ho riletto Giordano Bruno, Cardano, Cusano; vecchi romanzi su Gesualdo scomparsi perfino dai remainders; e poi ci sono i libri che ho tenuto sul tavolo mentre scrivevo: Dostoevskij (lui c’è sempre), Bulgakov, Sebald, Pomilio (Madrigale è debitore del Quinto evangelio, che viene citato qua e là nelle parti stravinskiane), Malaparte, Piovene, Volponi, Parise – tutta quella generazione di giganti che ha scritto tra gli anni ’50 e gli anni ’80 del secolo scorso e che ha creato quell’impasto di lingua in cui mi riconosco. Credo che l’elenco potrebbe continuare perché sai: da quando ho cominciato a pensare al libro a quando l’ho davvero finito sono trascorsi quattro anni e mezzo e tutto quello che ho letto in quest’arco di tempo l’ho letto con la consapevolezza che, forse, mi avrebbe potuto aiutare per una data scena, o per rendere più credibile un personaggio. Per le letture che mi hanno formato: sono figlio dei russi, di quella teoria di giganti che va da Gogol’ a Bulgakov (Dostoevskij più di Tolstoj, Andreev più di Pasternak, Čechov più di Turgenev); poi la grande letteratura mitteleuropea: i galiziani, i polacchi (una scoperta recente e straordinaria è Andrzej Szczypiorski), i tedeschi del secondo dopoguerra, degli italiani ti ho detto sopra.

Ti interessa la narrativa italiana contemporanea? Cosa, in particolare?

Certo, anche se ultimamente non ne ho letta molta. Mi interessa perché è l’ambiente in cui vivo e dove trovo alcuni maestri a cui posso telefonare (è un vantaggio, ma non sempre). Ma credo che tu voglia qualche nome. Eccolo: Filippo Tuena, per me un punto d’arrivo, Antonio Moresco – ho fatto su di lui la mia tesi di dottorato –, Laura Pariani (Se Dio non ama i bambini non è il romanzo italiano più bello degli anni zero è perché c’è Ultimo parallelo di Tuena). Ho letto recentemente Il dono di saper vivere di Tommaso Pincio – che per certi versi è un libro parente di Madrigale e che fa un’operazione su cui chi, come me, lavora con il linguaggio dovrà prima o poi fare i conti.

Ho letto, in alcune tue riflessioni, che ritieni Madrigale la fine di un ciclo, la chiusura di un cerchio romanzesco. Questo significa che stai lavorando a qualcosa o che lasci lavorare il vuoto?

Significa che ho la sensazione di aver scritto tutto quello che potevo su certi temi e certe questioni letterarie. Ma ripeto, è una sensazione. Il prossimo libro – di qualunque cosa tratterà – dovrà per forza di cose discostarsi un po’ da quello che ho fatto finora, altrimenti non avrebbe senso: potrei riproporre temi e modi di Madrigale solo se avessi l’assoluta certezza di fare un lavoro migliore di questo e avessi da dire qualcosa di nuovo sull’argomento. Ma questa certezza non ce l’ho.

Esiste un libro che vorresti avere scritto? Preciso: l’invidia è anche uno dei temi sottili del tuo romanzo, che mi pare, in fondo, puoi contestarmi, una riflessione sul gesto artistico.

Non sono un invidioso. L’invidia è un sentimento limitato, perché si invidiano solo i vivi, mentre la letteratura ha duemila anni di storia da cui si può attingere. Voglio dire: non ha senso invidiare Senofonte, eppure lui ha scritto quella cosa pazzesca che è l’Anabasi. Provo fastidio quando vengono esaltati i mediocri (succede spessissimo): ma mi passa subito. In ogni caso, ci sono libri che vorrei aver scritto ma che sono contento di aver letto, perché mi hanno insegnato molte cose. Ci sono senza dubbio vite che vorrei aver vissuto, e sono sicuro che da quelle vite diverse dalla mia avrei tratto linfa per scrivere. Ma forse no.

Perché si scrive? Per indagare le oscurità, per snidare se stessi, per toccare quel grammo di candore, perché? 

È una domanda alla quale non so rispondere. Se avessi una risposta, non scriverei libri pieni di domande. In ogni caso, sono convinto di una cosa: benché mi capiti di sentire l’impulso irrefrenabile di prendere in mano la penna, scrivere non è la cosa fondamentale. La cosa fondamentale è leggere: posso stare anche due anni senza scrivere, ma non riesco a stare due giorni senza leggere. Divento nervoso, irascibile, e mi sembra di sprecare il mio tempo. Quello che mi tiene vivo sono i libri degli altri.

*In copertina, Andrea Tarabbia photo Fondazione Premio Campiello

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