25 Settembre 2018

“Sono disperato, burbero, isterico, ma ho agito con il cuore in mano, non sono mai stato furbo, non conosco l’invidia”: dialogo con Andrea Di Consoli

Andrea Di Consoli è tra i grandi, poliedrici scrittori del tempo presente. Poeta (“Discoteca”, 2003; “La navigazione del Po”, 2008; “Quaderno di legno”, 2009) e narratore (ricordiamo almeno, per Rizzoli, “Il padre degli animali”, 2007, “La curva della notte”, 2008 e “La collera”, 2012), agitatore culturale (ha diretto la casa editrice Avagliano, è intensa la sua attività pubblicistica sulle maggiori testate del Paese), lavora in Rai come autore televisivo.

Di ConsoliDal leggendario Discoteca (Palomar, 2003) fino a Quaderno di legno (Edilet, 2009): raccontaci il tuo percorso poetico.

Non è facile riassumerlo in poche righe. Posso solo dire che i primi poeti che amai furono Rocco Scotellaro e Umberto Saba. Del primo mi segnò la concretezza realistica, il sentimento strappato nei tumulti della realtà; del secondo la sincerità, il dire piano, colloquiale, fraterno. Poi arrivarono letture più complesse, anche un lungo periodo di ammirazione per la sperimentazione, finanche la più estrema. Però da questa distanza posso dire che la “linea” poetica che più mi appartiene è quella “narrativa”, dimessa, confessionale: una “linea” che, per rimanere in ambito italiano, parte da Pascoli, passa per Gozzano e i crepuscolari, Pavese, Pagliarani, Pasolini, e si spinge fino a contemporanei quali Bordini, Fabi, Fiori, Damiani, Rondoni. La mia è una poesia scoperta e sentimentale, commossa e creaturale. Una poesia minore, credo – e lo dico con serena consapevolezza critica – ché i grandi poeti non sono mai sentimentali.

I maestri vanno uccisi. Sei d’accordo con questa affermazione? E quali sono state – o sono ancora oggi – le tue guide di sentiero?

Ho avuto tre maestri in carne e ossa: Walter Pedullà, Franco Cordelli e Franco Scaglia. Pedullà mi ha insegnato la centralità del linguaggio e dello stile e, diciamo così, la possibilità attraverso il linguaggio di sovvertire l’ordine anche politico della realtà. Cordelli mi ha insegnato la voracità letteraria, il potere dell’intelligenza, la centralità della fraternità. Scaglia mi ha insegnato a vivere, a conoscere il mondo; ad approcciarmi al lavoro, e anche al potere, con fantasia, estrosità, libertà. Franco Scaglia trattava con tutti, sapeva conciliare mondi tra loro contrastanti, ma era un indipendente, un puro. Non lo dimenticherò mai, ogni giorno ho un pensiero per lui. Per me è stato come un secondo padre. No, i maestri non vanno uccisi. Bisogna portarli sempre con sé. Poi, certo, si cambia, ci si perde, le idee mutano, ma credo bisogna vivere, come dice il mio amico Carmine Abate, per addizione e non per sottrazione.

Di ConsoliSei narratore e autore televisivo, oltre che giornalista; come concili questi vari aspetti con la tua ricerca personale, poetica?

Sono sempre lo stesso, qualsiasi cosa faccia. L’approccio è quello, non cambia mai: viscerale, pensoso, sentimentale, spesso con il senso di responsabilità tipico di un padre di famiglia del Sud. Tra l’altro non credo nemmeno ci sia una cesura vera tra la mia vita privata e quella pubblica. Una cosa che però accomuna tutti gli aspetti della mia vita culturale è questa: io sento fortemente chi mi sta di fronte. Sento, cioè, il dovere di dare molto, di essere sincero, onesto, di mettere a disposizione quel poco che so. Non sono mai stato furbo o avaro. Non ho mai cercato scorciatoie. Non ho mai preso in giro i lettori o i telespettatori. Ho sbagliato, certo. Sono stato ingenuo, sicuramente. Non mi sono tutelato, questo sì. Ma ho agito col cuore in mano. Con generosità, ecco. Una cosa che vorrei mi venisse riconosciuta, al di là dei tanti demeriti, è la generosità. E sono stato generoso per un motivo molto semplice: perché nonostante tutto – il pessimismo, i periodi neri, la visione spesso negativa della natura umana, i malumori lamentosi – ho sempre amato la vita, le persone, le controversie e il calore del mio tempo. Dico sempre che l’unica cosa che lascio in eredità ai miei figli è il calore. Al di fuori di questo calore – pieno di difetti e di mancanze – io non sono niente.

Di ConsoliE con la tua generazione? Che rapporti hai?

Bellissimo. Ho appoggiato, valorizzato, aiutato tanti miei coetanei come ho saputo e come ho potuto. Non ho mai provato invidia. Non conosco l’invidia. Forse perché, nel mio piccolo, mi sento un uomo realizzato. Sono un disperato, questo sì; un isterico, non lo nego; un burbero insopportabile, non dico di no. Ma non sono mai stato né frustrato né invidioso. I miei coetanei li abbraccio, quando li vedo. Quando vincono, sono felice. Quando perdono, li porto a bere al bar.

Progetti in corso e in divenire?

Fare una buona stagione de “Il caffè di Raiuno”, di cui sono autore responsabile. Continuare il mio lavoro a Rai Teche, valorizzando sotto la guida di Maria Pia Ammirati lo straordinario patrimonio audiovisivo della Rai. Scrivere una sceneggiatura per Alessandro Haber. E scrivere un libro. Ho voglia, dopo tanti anni, di scrivere un libro intimo, scoperto, dove raccontare quest’ultimo anno della mia vita. Un anno complesso, ricco, anche drammatico, doloroso. E vorrei ambientarlo tra Roma e Napoli, le due città dove ho vissuto l’anno più intenso della mia vita.

Gabriele Galloni

Gruppo MAGOG