Una cosa è certa, niente è meglio della donna sognata, anche quando la si vagheggia in tutta la sua più viva carnalità. Fortuna vuole che, per dare forma alle nostre fantasie, esista una miracolosa tecnologia chiamata fotografia. Il bianco e nero, in tal senso, aiuta, aggiungendo alla rappresentazione una patina per certi versi onirica. E ciò sapeva bene Helmut Newton, il noto fotografo tedesco che, come pochi, riuscì a trasporre in immagini dai forti contrasti le sue visioni e ossessioni. Tra gli italiani che hanno saputo attingere alla sua veneranda e inimitabile lezione, ci piacerebbe segnalarvi il caso del bravissimo Marco Tenaglia. Le sue fotografie, dal piglio accattivante e provocatorio, hanno il grande pregio di fermare, pur nella costruzione del set, la magia di una situazione sospesa tra turbamento e incanto, sfarzo e decadenza, pulsionalità ferina e irrisione del desiderio. E le donne, viste attraverso il suo obiettivo, risultano sempre toccate da una ambivalente carica attrattiva che lacera l’occhio dell’osservatore in un moto contraddittorio di fascino e spavento, desiderio di vicinanza e volontà di fuga.
Siamo andati a sentirlo per capire cosa muova un uomo a voler fissare il mondo attraverso la distorsione della lente fotografica, creando un universo che attinge da quello reale ma creandone al contempo uno parallelo.
Direi di toglierci subito il dubbio: analogico o digitale? E, soprattutto, perché?
La pellicola mi piace perché ha carattere, è come sentire musica su vinile. Il digitale è molto più pratico e rapido. Io, comunque, ho un mio metodo di lavoro particolare, a tal proposito: uso il digitale come se fosse analogico. Niente computer sul set, per me sono una distrazione e una perdita di tempo. La post produzione la curo personalmente ed è limitata agli stessi interventi che si fanno in camera oscura. La stampa invece è chimica, su vera carta fotografica, gelatin silver per il bianco nero, e c-print per il colore. Odio il bianco e nero stampato su carta colore, anche nel caso in cui ti esca neutro prima o poi vira verso il magenta o il ciano. Fa schifo.
Sollevati da questa incombenza, possiamo finalmente venire a noi. Marco, come nasce la tua passione per la fotografia?
Ma con le donne, ovviamente! Però, se vogliamo metterci anche il lato romantico, all’inizio con una Polaroid Land regalatami da mio nonno. Avevo credo dieci anni. Mi divertiva vedere le foto svilupparsi davanti ai miei occhi. Ce l’ho ancora quella macchina. Poi, la vera passione è venuta col tempo. Al liceo avevo riempito il diario con foto glamour ritagliate dalle riviste, praticamente non c’era quasi più spazio per segnare i compiti. Sembra una cosa sciocca, ma quelli erano ancora i tempi d’oro di “Playboy”, “Playmen”, e dei film in VHS. Successivamente, ho pensato che potevo provare anche io a fotografare in quel modo e sono diventato un fotoamatore rompipalle. Se mi guardo indietro, penso alle poverette che stressavo per immortalarle… e che schifezze di foto! Alla fine, la decisione l’ho presa nelle aule di ingegneria. C’era una ragazza, anche lei con la passione per la fotografia. Saltavamo le lezioni per andare in giro a scattare. Poi, lei è rientrata nei ranghi. Io no.
Quali sono i tuoi ispiratori tra i colleghi fotografi e, più in generale, a livello estetico? Personalmente, vedendo le tue foto, mi viene in mente subito Helmut Newton, ma correggimi se sbaglio.
Non sbagli. Sono un grande ammiratore di Helmut Newton e non solo per quanto riguarda il suo stile. Credo che la mia passione-ossessione per le donne forti sia abbastanza simile alla sua. Anche altri fotografi hanno avuto una certa influenza, ma non così importante.
È, direi, facile convenire sul punto che ogni opera d’arte abbia alla sua base un ritmo. Pensa a una sinfonia, come a una semplice canzonetta. Lo stesso dicasi per una poesia, così come per la prosa in un romanzo. In una fotografia, e allo stesso modo in un dipinto, credo che si dovrebbe parlare piuttosto di un equilibrio nell’economia generale della composizione. Non so se tu concordi con questa visione. A ogni modo, come descriveresti questo che potremmo chiamare “l’ingrediente segreto, ma fondamentale” da cui deriva l’armonia generale di un’immagine?
Sono d’accordo. Una poesia, o un brano musicale, hanno un inizio, un percorso di una certa durata, e una fine. All’interno del percorso, il ritmo può cambiare. Nella fotografia l’inizio, il percorso e la fine, invece, coincidono. Si può parlare di ritmo nel caso di un portfolio. Non c’è un ingrediente segreto, ma un insieme di fattori tecnici ed emozionali che fanno più o meno funzionare una fotografia e veicolano un messaggio piuttosto che un altro.
Ogni grande fotografo ha solitamente un’ossessione. Penso alle immagini del già menzionato Newton, oppure alle conturbanti ninfette di David Hamilton, come al teatro erotico messo in scena da Jan Saudek. Marco, qual è la tua ossessione, il minimo comune denominatore che lega tutte le tue immagini?
Mi piacciono le donne forti, quelle che sanno cosa vogliono e come ottenerlo. Quelle che non si piegano, che non si arrendono, che gestiscono la loro sensualità e sessualità con intelligenza e una certa dose di arroganza, che dominano la scena. Insomma, quelle che incutono timore in molti uomini. “Strong Women” è il tema ricorrente delle mie fotografie.
E, infatti, nelle tue opere ci sono donne ovunque: a destra, a sinistra, in basso, in alto, a nord e a sud e via dicendo. Mai avuto problemi per la rappresentazione che ne hai dato? C’è stato per caso qualcuno che l’abbia trovata, secondo il pensiero femminista di ritorno oggi tanto in voga, oscena, o comunque lesiva nei confronti dell’altro sesso?
Ma sì, sicuramente. C’è sempre qualcuno che si scandalizza, che punta il dito contro il modo di raffigurare la donna. Ma, per affermare che le mie foto ritraggono donne oggetto, bisogna essere proprio idioti. Una donna dominante non sarà mai un oggetto, a meno che questo non faccia parte del gioco, ma anche in quel caso è un gioco diretto da lei. Altro che lesiva, al contrario, è un’esaltazione della donna.
La donna, per fotografarla come fai tu, deve essere vista attraverso gli occhi di un uomo, diciamo con la fascinazione nello sguardo che solo noi maschi possiamo avere nei loro confronti? Oppure, per esempio le fotografie di Ellen von Unwerth potrebbero essere tranquillamente il prodotto di una visione maschile?
Non è una questione maschile o femminile, quanto di orientamento sessuale e di come vedi la donna, di quale tipo di ruolo e carica erotica vuoi che trasmetta. Ci sono uomini che non fotograferebbero mai una donna come faccio io e ci sono donne cha vanno anche oltre, vedi appunto Ellen Von Unwerth.
Marco, cosa è e, soprattutto, esiste ancora un qualcosa che potremmo definire volgare in questo mondo di immagini in cui ci troviamo a vivere? Credo, senza ovviamente voler fare il moralista, che sia fondamentale capire come la pensi un artista in merito.
C’è talmente tanta volgarità in giro che non esiste più.
Da fotografo, cosa pensi del cinema? Lo segui? Ti piace? La sua fruizione ti torna utile nel lavoro che fai aiutandoti a crescere artisticamente?
Lo seguo, ma non in modo assiduo. Non mi interessa la ricerca del film d’autore. Sai, quei film che una certa critica giudica come capolavori assoluti. Se la trama mi interessa e ci sono attori che mi piacciono, lo guardo. Se in più ci vedo una scena o una fotografia che mi ispira, allora torna utile anche al mio lavoro.
Come costruisci una fotografia, prima di realizzarla materialmente facendo scattare l’otturatore? Mi piacerebbe che mi raccontassi dell’allestimento del set, del rapporto con le modelle, e con gli altri – perché immagino ci siano almeno alcuni assistenti al tuo fianco, quando lavori.
Per me è importante la pre produzione. Le mie fotografie sono una messa in scena di situazioni viste realmente, in precedenza, e che mi hanno ispirato. Non ho un punto di partenza fisso, nel senso che a volte mi capita di costruire l’immagine attorno alla modella, altre volte parto dalla location e ci metto dentro la storia. A ogni modo, all’inizio c’è un’idea. La sviluppo, la immagino finita, e poi si va sul set a realizzarla materialmente. Il set è sempre un posto vero, in interno o esterno che sia, non lo modifico né tantomeno lo costruisco in studio. Porto poche persone con me, e soprattutto pochissima attrezzatura. Ognuno ha il proprio ruolo e sa ciò che deve fare. Tutto ciò che è in più è un fastidio, una complicazione. Voglio rendere le cose facili per me e per chi lavora al mio fianco. Il rapporto con le modelle è decisamente semplice: io spiego ciò che voglio, faccio vedere il layout e le pose, e loro entrano nella parte e lo fanno senza problemi.
Una volta scattata la foto, dimmi, quanto dura il processo di selezione e successivamente di postproduzione? Mi piacerebbe ovviamente anche sapere come si svolge tutto questo.
Le foto le rivedo comodamente a casa, e vado con una prima selezione. Quella finale però la faccio a freddo, qualche giorno dopo. La postproduzione la curo personalmente e, comunque, è poca. Se una foto ha bisogno di un massiccio intervento, allora è da buttare. Terminato il lavoro eseguo delle prove di stampa e a quel punto le immagini sono pronte.
Qual è la cifra stilistica del tuo lavoro, ovvero quel qualcosa che ti contraddistingue da tutti gli altri?
Qualcuno mi disse che il mio lavoro non è allineato a quello degli altri fotografi. Ho pensato “bene così”. Allinearmi a una certa massa senza nome, che fa tutte cose uguali, non fa per me. Meglio cambiare lavoro. Io faccio ciò che mi piace, non ciò che mi viene chiesto, a meno che non coincida con ciò che mi piace. Se vieni da me è perché vuoi le mie fotografie, se vuoi qualcosa di diverso vai da un altro.
Marco, cos’è la Bellezza in fotografia e, più in generale, in arte?
La bellezza in sé non esiste. Se vedo una fotografia e dico che è bella, in realtà lo dico perché suscita in me qualcosa di piacevole, che mi attrae. Questo dipende dalla mia cultura, dal mio modo di vedere le cose. Certo è che, se formo la mia cultura su facebook o simili, allora difficilmente vedrò differenze tra la cioccolata e la cacca.
Matteo Fais