27 Marzo 2020

“La mia mente è lontana, la solitudine in sé mi chiude”: Robert Frost, il poeta necessario

Ne è passata di vita, prima di quel giorno. Sembrava un falco, intagliato nella roccia. Il poeta. La prima poesia pubblicata, il secolo prima, nel 1894, su un giornale; gli anni nella fattoria che gli aveva comprato il nonno, a Derry, nel New Hampshire. Il fallimento e il viaggio in Europa; quell’uomo che nel verso vedeva un’estensione del bosco, che parlava con accento di corteccia. A Londra, nel 1912, conosce Ezra Pound – non ha parenti nobili nel salotto poetico, ma un talento sgargiante. Pound, con la burrascosa vitalità che lo distingue, forza David Nutt a stampare il libro di quel tizio. Robert Frost ha quasi quarant’anni quando pubblica il suo primo libro di poesie, A Boy’s Will. È il gennaio del 1913. William Butler Yeats sfoglia, legge e decreta che quella è la più bella raccolta di versi from Usa che abbia letto dopo troppo tempo. Quel giorno, è pur sempre gennaio, Robert Frost sembra un falco di pietra, ha 87 anni, il poeta, c’è troppo vento e troppo sole, Lyndon B. Johnson gli si fa accanto, per tenergli fermi i fogli, è il 1961. Il poeta, di fronte al leggio. Come un falco di pietra. È il giorno dell’insediamento di John F. Kennedy e il nuovo Presidente ha scelto un poeta per cingerlo di gloria. Proprio così. Come i re, nella Bibbia, erano unti dal profeta, con le mani e le parole – parole non ornamentali, che confinano in un patto.

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Nel frattempo, è passata la vita. Robert Frost è onorato, tra il 1924 e il 1943, con quattro Premi Pulitzer, un record. È stato nominato al Nobel per la letteratura 31 volte. Nel 1961 lo nomina W.H. Auden – “il suo discorso poetico è quella di una mente totalmente attenta, che ha il controllo di sé, senza concessioni al sogno, alla passione”, ha scritto – ma il Nobel va a Ivo Andrić. L’anno dopo lo nomina C.S. Lewis, ma gli preferiscono John Steinbeck. Era in lizza anche nel 1954, quando il Nobel va a Ernest Hemingway. “Era duro e irriverente con la vita… era duro ma non si è mai risparmiato… fortunatamente per noi, ha avuto il tempo di forgiare la sua grandezza”, scriverà, onorando la sua morte.

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Più di tutti, Robert Frost rappresenta lo splendore selvaggio del mondo americano, ogni verso è un albero piantato, un cervo che scatta, l’ombra di un uomo che si avvia a colonizzare una fetta di terra, a costruire una casa, a radicare una famiglia. “Che appigli ha il sogno se come uno spettro/ passando tra i covoni affastellati,/ da solo entro nel campo di stoppie/ dove son morte le voci dei braccianti,/ e nell’antifona dell’imbrunire/ e salir della luna piena, siedo/ sul lato di luna piena del primo/ covone e mi perdo tra i miei simili”. Vastità, urlo di déi, tentativi a vuoto e cessione di ogni primizia di eredità sono in questo canto da cui si irradia Kerouac e McCarthy e Malamud e chi vi pare. “Amo Thoreau. In quell’unico libro, Walden, egli supera tutto ciò che abbiamo avuto in America. L’hai scoperto da solo, senza che te lo indicassi; come io l’ho scovato senza il tuo consiglio. Non è bella una simile complicità? Non chiedermi altro, è l’unico ‘stare insieme’ che sopporto”, scrive in una lettera a un giovane poeta, raccolta, in The Letters of Robert Frost. Volume II: 1920-1928 (Belknap Press). Nella propria scontrosa solitudine, il poeta si cala nella foresta di sé.

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Quel giorno, appunto, più che l’introduzione di JFK alla Casa Bianca pare che il poeta, che morirà poco dopo, alla fine di marzo del 1963, prenda possesso del proprio trono, in fronte alla nazione. Perché in effetti è questo: la Storia accade se il poeta ne rintocca il ritmo, una nazione esiste se il poeta, sacrificato all’oscurità, erige parole che cerchiano il futuro – con la millimetrica paternità di chi sa calare l’aratro nei flutti della terra. Fatalmente, il sole, il vento, il tempo, non permettono a Frost di leggere il testo che si è preparato. Recita, allora, a memoria, una poesia. Si intitola The Gift Outright, è stata pubblicata la prima volta nel 1942, poi raccolta in A Witness Tree (1943). La voce di Frost verifica i volti, vetrificati dal vento, dilania: “La terra era già nostra prima che noi fossimo della terra. / (…) Tali come eravamo ad essa ci donammo/ (atto di dono dopo molti atti di guerra)/ alla terra, che verso ovest si andava realizzando, / ma ancora senza storia, senz’arte, senza ricchezze, / proprio come essa era, come sarebbe diventata”.

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Sposato a Elinor, nel 1895, Robert Frost ha avuto figli – sei –, ha sofferto tanto. La moglie se ne va nel 1938; il primo figlio muore di colera, a quattro anni, un altro si suicida, a 38, una figlia muore, a 29 anni, dopo aver partorito, l’ultima poco dopo la nascita, nel 1907. In una lettera del 1924, al poeta Louis Untermeyer: “Lo stile, in versi o in prosa, indica cosa lo scrittore crede di sé e di ciò che ha scritto. Lascia che il ritmo di Stevenson ti attraversi la mente e capirai che non si è mai preso troppo sul serio. Swinburne, invece, si riteneva una meraviglia. Molte nature sensibili hanno dimostrato con il loro stile di essere capaci di difendersi. Sono gli ironici. Alcuni buoni scrittori non hanno stile, ci lasciano insaziati. Quanto a me, credo che l’ironia sia una forma di codardia… Credere è meglio di ogni altra cosa, è meglio lasciarsi sopraffare dal rispetto verso le proprie convinzioni che dai dubbi del primo che passa”.

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Mi sembra strano – dirò, assurdo – che un poeta importante come Robert Frost sia pressoché sconosciuto in Italia. Insieme a Wallace Stevens, è il poeta più rappresentativo del Novecento americano. Al di là dell’antica raccolta di Poesie scelte allestita nel 1961 da Franco De Poli per Guanda e delle traduzioni di Giovanni Giudici in Conoscenza della notte (Einaudi 1965, poi Mondadori, ormai introvabile), di Frost c’è nulla. La stessa considerazione l’ha fatta nel 1997, su “la Repubblica”, Enzo Siciliano (titolo orrendo: Robert Frost, un poeta per JFK), che redige uno stringato ritratto del poeta: “Robert Frost è un poeta poco conosciuto da noi. Ne tradusse una buona scelta di versi Giovanni Giudici. Frost appartiene al ventre profondo d’America, un nume della lingua consolidata nel New England, che era nato per caso a San Francisco nel 1874, ma tornò ragazzo sulla East Coast, e fece grande fortuna con libri di poesia, passando e ripassando l’Atlantico. Morì nel 1963 in una clinica di Boston, il 29 gennaio. Di lui non si può dimenticare il grande consenso che riscosse in patria, ma anche l’amicizia e la stima che gli riservò Ezra Pound. A Londra, nel 1913, Pound trovò a Frost un editore per la prima raccolta di versi. Frost aveva lasciato gli Stati Uniti: come un personaggio di James innamorato dell’Europa, aveva venduto la fattoria, polli e uova, nel New Hampshire dove viveva da oltre dieci anni, e con quattro figli più la moglie si era trasferito in Inghilterra. Dunque, Pound gli fece stampare il libro, A boy’s will, e, quando l’editore fu per darne a Frost la prima copia, il futuro poeta dei Cantos non ci pensò due volte a sottrargliela. Anzi, se la mise in tasca senza che l’autore potesse neppure sfiorarla con un dito. ‘Devo recensirla’, disse. Nel 1958, Frost si batté perché a Pound fosse restituita la libertà dal manicomio dove era stato rinchiuso a guerra conclusa”.

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Qualche mese fa, ho avuto il privilegio di leggere alcune traduzioni di Silvia Bre da Frost (certi versi li ho calcati sopra). Spero sia la promessa di un libro. Dalla scelta antologica, erompono alcuni poemi magistrali, come The Mountain e The Fear. Una poesia, Betulle, porta gelo e trasparenza nella stanza, inizia così: “Quando vedo oscillare le betulle/ tra le file di piante dritte e scure,/ immagino un ragazzo a dondolarle./ Ma dondolarle non le fa inclinare quanto una bufera/… Ma dicendo, quando il Vero si è imposto/ con tutta la realtà della bufera,/ preferirei un ragazzo a inclinarle/ mentre andava a riprendere le mucche”. La concretezza dei versi – narrativi, di ruvido bronzo – è punteggiata da astrazioni: l’uomo resta sempre una anomalia nell’etimo della natura. “I boschi intorno sono padroni del campo./ Ogni animale soffoca nella tana./ Io non conto, perché la mia mente è lontana:/ La solitudine in sé inavvertito mi chiude”: questa è una porzione di Luoghi deserti, nella versione di Giudici. Bisogna sempre stare in agguato, giusti, leggendo Frost. (d.b.)

 

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