E raccolsi la sfida. La sfida era dello scrittore con un tavolo pieno di libri, si capiva che era un giornalista. Vidi sul tavolo una matassa di carta ma distinsi La nube purpurea, un sottile presagio dall’Ottocento sulla fine del mondo, e dissi al giornalista che conoscevo il traduttore, Juan Rodolfo Wilcock. Perché non scriverne, disse il compagno indiavolato?
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Wilcock nasce nel 1919 in Argentina dal consueto sangue misto anglofrancese ed emigra per necessità (pur avendo già lavorato e in patria e a Londra). Se ne va in Italia a 28 anni suonati. Per maturare questa scelta ha già visto il vecchio continente in diverse occasioni, prima da fanciullo poi da giovanotto con la fedifraga Ocampo e il vero e unico latin lover, Bioy Casares. Che bello doveva essere vederli assieme. Con Wilcock a fare da reggicandele…
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Wilcock è un autore che ti possiede con la forza di una premonizione. Leggete questo frammento dal suo Avviso ai saggi:
Presto, finché la lingua esiste:
su colonne di porfido il cielo trema,
porfido verde con vene di malachite
incrostato di fave di madreperla
e un filo d’oro che traccia d’alto in basso
corsivamente l’identica Parola.
Il mondo è pieno di figli di nessuno.
Tremano le colonne, dai cespugli emergono
bestie con tre o più teste, bestie nuove;
le stelle cadono come gocce di pioggia,
sciiti e mongoli muovono eserciti
e alla luce dei lampi fuggono facce
bianche atterrite e unte di petrolio.
Nascondete questo rotolo nelle grotte
Ora capite perché Einaudi lo stampò nella bianca e perché i suoi versi spagnoli furono messi in circolo da Guanda nel 1963?
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In alternativa, sentirlo in questa conversazione Rai, ‘sentirlo’ perché la qualità video è infima. Vi discute la sua opera forse oggi meglio nota, La sinagoga degli iconoclasti che è l’antistoria del progresso scientifico, vera per tre quarti e falsa quel tanto che basta.
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Difficile parlare in teoria di quel che si ama. Se uno ama Wilcock ma non sa nulla della sua vita tranne che era omosessuale (capirai) e che i suoi primi libri se li stampò privatamente in Argentina dopo aver fatto discreti soldini coi suoi primi lavori come ingegnere meccanico che costruiva ferrovie transandine, ne sappiamo meno di prima. Le opere di questo poeta in terra machista si intitolano Passeggiata sentimentale e Musa minore maltratta e ancora, per chi non ne avesse abbastanza, Saggi di poesia lirica.
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Quanto al resto è presto detto. Fece di tutto per distruggersi in Italia. Si fece riprendere da Pasolini nelle vesti di sacerdote ebreo e questo un paese bigotto non te lo perdonerà mai. Poi si mise contro Moravia e la sua cricca quando l’industria culturale stava sbocciando e suggerì a Vassalli giovane che amore e amicizia vanno e vengono mentre solo l’odio permane, avvicinandoti agli altri.
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Detto da uno come Wilcock che lanciava epigrammi oltre poesie, l’aneddoto che coinvolge Vassalli acquista lustro e nitore.
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Un programma di Wilcock. “Appena si sente parlare di impegno morale, mettersi a letto”.
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E in effetti è giusto così, che se ne sia andato il 17 marzo 1978 mentre i giornali tiravano fuori le trombe per parlare di Moro. Sequestrano Moro lo statista e muore lo scrittore antisociale, che simpatica coincidenza.
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Se volete fare una passeggiata nel catalogo Adelphi, vi leggete in un paio di pomeriggi Fatti inquietanti per vedere Wilcock con taglio giornalistico in un’Italia accelerata da autostrade e progresso dove nessuno capiva più niente ma si facevano indagini sociologiche a strapotere mentre c’era lui, Wilcock, a tracciare biografie di prostitute di alto e basso bordo. Con occhio attento. Con compassionevole cinismo distaccato.
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O ancora, passare a Lo stereoscopio dei solitari per smettere di credere a tutto e poi Il reato di scrivere per assaporare due righe di lui giornalista aulico. Se non si vuol smettere di sognare, infine, c’è Il libro dei mostri.
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Va sempre così alla fine. Ti opponi al sistema e lui ti ingloba. Così fu per Wilcock che ebbe l’audacia di aiutare Calasso giovane nelle traduzioni – William Carlos Williams, La nube purpurea appunto e poi Marlowe, oh Marlowe.
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Come fu decisiva la lettura di Marlowe. Fin dal nome del traduttore, Wilcock. Una cosa che ti colpisce quando sei ancora abituato ai ‘referti’ letterari del liceo. E poi quelle voci del Cinquecento rimesse a nuovo, tirate a lucido, un bestemmiare giocoso e lui Wilcock che ti fa sentire il rombo del poeta giovane vissuto prima di Shakespeare. E quella nota in calce che diceva che Marlowe “sembra morisse in circostanze ignote assassinato in una taverna mentre era impegnato al servizio della corona spiando contro i Francesi”. La cosa mi piacque tanto che pensai di regalare il libro donatomi a sua volta da un professore. Aggiunsi una dedica a quella che c’era già e poi la cancellai. Passioni di ordinaria follia giovanile. Il Teatro di Marlowe Adelphi è rimasto da allora sano e salvo in bottega.
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Insomma Wilcock si consegnò legato mani e piedi a Calasso e da allora non si sa più nulla. Non se ne può sapere altro, eccezion fatta per le ricerche dei tessuti che vanno troppo a fondo e sono condannate a rimanere scollegate. Poi ci sono queste simpatiche commemorazioni a base locale, da etnografia poetica laziale. Poca cosa.
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Certo abbiamo salde in mano le sue versioni dal Finnegans Wake e le poesie di Beckett. Ma ci bastano? Quanto ancora vorremmo sapere? Temo di no. Per quello ci va buon senso e dedizione extraconiugale, extraletteraria.
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Per chi si interessa di poesia, infine, e non delle prose brevi di Wilcock di cui vi ho detto prima, suggerisco questi brani da Luoghi comuni del 1961:
Ali turchine
A chi giova il piacere dei sensi? All’intelletto,
Che d’altronde sopporta dolori e infermità
Indipendentemente dalla sua capacità
Di godimento proprio; perché non è perfetto
E sfoggia carne e peli come gli altri animali,
Senza mai liberarsi dagli ingombri carnali,
Senza essere del tutto lieto e neppure del tutto abbietto;
Lui che sognò di volare sul mare senza confine
Con dietro le spalle un paio d’ali turchine…
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Sensi
Nonostante i trionfi della scienza applicata
Gli strumenti migliori per osservare l’universo
Sono ancora la penetrante lampada del verso,
La musica, la voce di una gola privilegiata,
Oppure nella penombra delle candele sparse
Il pulpito cosmatesco di diorite incrostata;
Qualsiasi luce indicante dove un pensiero arse,
Semplici torce o splendidi lampadari,
Monasteri carpatici tra i boschi secolari,
Rune d’Islanda con princìpi bruschi,
Falli d’ambra nella foresta, sarcofaghi etruschi.
Alla luce di questi lumi l’uomo si muove più sicuro,
Vede i tramonti, vede le rive del mare,
E pronuncia parole il cui senso oscuro
Gli si comincia alfine a rivelare.
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Certo se vogliamo andare sul sicuro c’è il suo canzoniere italiano. Gli mise proprio questo titolo Italienisches Liederbuch ma nonostante tutto il riferimento non è Petrarca quanto invece Michelangelo che appare nella mise-en-abyme della copertina con questa citazione: “Chi mi difenderà dal tuo bel volto?”.
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E allora leggiamolo questo canzoniere supposto omoerotico. È comunque di una tempra virile che nel 1974, a 56 anni e rotti, non teme di finire a stampa così:
Fatti vedere nella tua nudità,
il mondo ha questo bisogno di bellezza
per diradare i pensieri cattivi
che sono sempre dei pensieri vestiti,
rendi visibile la sublimità
senza badare se desta scalpore:
non cadrà il firmamento quando cadranno
le tue mutande e la tua camicetta,
soltanto nei paesi freddi gli dèi
portavano questi indumenti. Poi,
in questo Olimpo da te scelto a dimora
con tutt’e nove i colli dell’Urbe ai piedi
verrà eretto un palazzo pieno di specchi
e in ogni specchio una tua immagine riflessa,
e lì terranno le cerimonie di Stato,
i congressi, gli esami di maturità,
alla presenza della verità nuda.
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Chiaro che la poesia ci piace e ci accende ma rischia di diventare una delibazione ad uso interno dei cenacoli poetici. Mentre la prosa richiede immediatamente il consenso del lettore. Per questo anche se la poesia di Wilcock mi parla nel tempo, non riesco a cancellare quel pomeriggio milanese quando mi trovavo ad attendere cose assurde in un atrio elegante e nel frattempo leggevo la penna elegante di Wilcock…
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E poi, amarlo a ritroso fin da quando aveva 26 anni e diceva in spagnolo:
Se questo istante fosse l’eternità immutabile,
sempre, sempre davanti a me il tuo corpo così bello,
come lontane musiche che salgono esaltate
tra luci cangianti e vapori iridati!
Voglio chinare la fronte e baciarti le mani
mentre dietro ai tuoi occhi passa un giardino incredibile,
un luogo voluttuoso dove il pensiero
si immerge nelle acque dolcissime e in un sogno.
E accostarmi alle tue labbra, e conoscere la morte,
uno spazio di angeli, l’oblio.
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Meglio fermarsi alle ipotesi su Wilcock. Come passò dalla lingua spagnola a quella italiana? Lui se lo disse così andando a capo in spagnolo: “L’esiliato trova quella parola sola/ e per un attimo ridiventa/ in questo esilio che ti tormenta/ il poeta che non sei più”. Meglio continuare ad amarlo in via ipotetica.
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Spulciando sui siti internet arcaici della Campo e su quello ufficioso di Wilcock si raccolgono le margherite delle sue interviste giornalistiche: “Per me l’inglese è un po’ troppo folcloristico, ormai; che dire poi dell’inglese degli Stati Uniti, quando prende il volo per conto suo e si appiattisce in centoventicinque parole. È come se a un giocatore di scacchi gli dicessero: ‘Qui si gioca a modo nostro, con un solo cavallo e senza torri’. Beckett, forse non se ne accorge, ma scrive quasi in latino; il suo poema Sans, del ’70, va più indietro nel tempo, sembra sumero, anzi pittografico”.
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Da una lettera di Wilcock a Miguel Murmis del 23 giugno 1952 riscoperta da uno dei vari tesisti: “La convinzione che ho sperimentato fu di non potere cadere mai, perché ero artista fino a tal punto (bravo o meno, in questo caso non cambia nulla) che la mia chiarezza sarebbe emersa da qualsiasi lordura”.
Andrea Bianchi