Fu, soprattutto, qualcosa di inevitabile. “Non vedevo alcuna ragione di difendermi da questo canto spontaneo che mi si andava imponendo con purezza”, scrive ad Arthur Fischer Colbrie, il 18 dicembre del 1925. Il 1925 è l’anno del commiato. Due settimane prima di scrivere quella lettera, “Rilke trascorre in solitudine, a Muzot, il giorno del suo cinquantesimo compleanno” (Andreina Lavagetto). A luglio, ha salutato André Gide, che salpa per il Congo, per sempre – poco dopo Ferragosto lascia Parigi, ed è un addio definitivo, l’ennesimo. Il poeta non si difende dallo “spontaneo”: fa spazio.
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Dopo aver raggiunto il culmine della ricerca lirica con l’esplosione, prodigiosa, nel 1922, delle Elegie duinesi e dei Sonetti a Orfeo, Rainer Maria Rilke muta linguaggio. Sceglie, cioè, di spostare la sedia: si mette in un’altra stanza, vuota, azzurra. Passa dal tedesco al francese. Non che non scriva più in tedesco – quell’ultimo rauco respiro, “Sono ancora io che qui ardo irriconoscibile?” – semplicemente, il francese è la lingua del lungo addio, dell’ultimo atto poetico.
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Traduce Paul Valéry, in quegli anni; il “Malte”, del 1910, era ambientato a Parigi, a Parigi Rilke – che avrà sempre la Russia nel cuore, patria al futuro – lavora per Rodin. La Francia, appunto, non è una sorpresa: è come se sulla soglia della morte Rilke avesse bisogno di una nuova innocenza. Le Poesie francesi (tornate ora per Crocetti Editore, nella traduzione del poeta Roberto Carifi; l’edizione Cederna del 1948 era a cura di Piero Bigongiari e Giorgio Zampa) hanno un ritmo mistico, il tenore di ciò che è fragile, sussulto ultimo, relegato nell’oro della rivelazione. Il ciclo delle Rose, ad esempio, sembra una limpida variazione dagli epigrammi di Angelo Silesio:
Rosa, tu perfetta tra le cose
all’infinito ti contieni
e all’infinito ti spandi,
testa di un corpo per troppa dolcezza
assente, nulla ti eguaglia, suprema
essenza del vagante soggiorno;
di questo spazio d’amore
dove si sparge il tuo profumo intorno.
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Il ciclo Le finestre è dedicato invece a Baladine Klossowska, tanto amata da Rilke. La finestra è un altro modo di significare le labbra, un lago – scintillio nel vetro di una gioia che fu estiva. È etica dell’assenza, “addio smisurato”, affronto, la trincea dei morti. “E gli amanti, vedete,/ fragili e stupiti,/ trafitti come le farfalle/ per la bellezza delle loro ali”. La finestra è un fiume, una fonte: la barriera tra il regno di qua e quello di là. Da tempo Rilke guarda le cose per l’ultima volta.
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Canta all’ingresso del dolore, Rilke. Il poeta muore alla fine del 1926; due settimane prima, il 15 dicembre, scrive a Rudolf Kassner: “Io sono ammalato in una maniera miserabile e infinitamente dolorosa, un mutamento poco conosciuto delle cellule sanguigne è l’origine dei più crudeli processi, dispersi in tutto il corpo. E io, che non ho mai voluto vederlo in faccia, imparo ad adattarmi al dolore incommensurabile anonimo. Imparo a fatica, e con uno stupore così turbato”. Nelle poesie estreme, Rilke sposta lo sguardo verso i boschi, con penetrazione ferina, come se potesse scegliere la forma della prossima nascita.
Cerva, foreste antiche
colmano il tuo sguardo,
un puro affidarsi
mischiato alla paura.
E tutto portato dalla viva
gracilità dei tuoi balzi.
Ma nulla turba
l’ignaro abbandono
della tua fronte.
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L’animale non è più stimmate lirica, araldica, gioco dei misteri. Esso, ora, ha un odore, una entità autentica.
Ho visto nell’occhio animale
la quieta vita che dura,
la calma imparziale
della serena natura.
La bestia sa la paura;
ma senza esitare avanza
e sul prato d’abbondanza
si pasce d’una presenza
che non ha il sapore dell’altrove.
Qualcosa di terrestre rende famelico il poeta – chiudere gli occhi non significa ascendere. Le note del dottor Hammerli che lo ha in cura, a Val-Mont, sono in francese: in quella lingua è detta la morte di Rilke. Egli, nel sonno, trova la nobiltà a quattro zampe, l’estro della bestia. Dicono somigliasse alla volpe. (d.b.)