29 Maggio 2019

“Siamo noi, proprio noi, a destare i nostri mostri”: Rilke e la musa assoluta, Baladine Klossowska

Nel 1919 il poeta, Rainer Maria Rilke, sente il dovere di fare pulizia. Deve perfezionare il suo eremitaggio artistico. La guerra è finita – a Parigi, l’amico André Gide si è premurato di salvaguardare i suoi documenti, dacché il poeta è esule – e il poeta ha la gola marmorizzata nel silenzio. Non scrive. Non scrive – come intende lui, nel gorgo dell’opera – da molti anni, dal 1913. Il “Malte”, quella sorta di magmatico testamento, è pubblico dal 1910. Nel 1919, con una sorta di angelica ferocia – ma l’arte, se è tale, chiede ogni spasmo – Rilke si congeda dalla figlia Ruth, avuta dalla scultrice tedesca Clara Westhoff. Non la rivedrà mai più. Clara, cresciuta artisticamente con Rodin, aveva sposato Rilke nel 1901 – quasi subito il matrimonio si avviò al naufragio. Ruth ha 18 anni quando perde misticamente il padre per sempre. Di queste potature sentimentali bisogna tenere conto leggendo Rilke, quel poeta che sembra rivelare, con indubbia lucidità, il segreto dell’uomo, del creato, a discapito della vita – la propria, l’altrui. Il 2 giugno del 1919, Rilke si congeda per sempre da Lou Salomé, l’antica amata, con cui esattamente vent’anni prima aveva fatto l’indimenticabile viaggio in Russia, culminato con la visita a Lev Tolstoj e a Leonid Pasternak, il padre di Boris, che sarà suo futuro seguace. Tuttavia, a Lou continuerà a scrivere, il poeta.

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In questa specie di ordalia, per trovare l’adatta postura, per fronteggiare la disciplina e predisporsi al ritorno – che sarà entusiasta e prepotente – della poesia – il poeta è strumento al canto, è mezzo concesso al linguaggio, per questo il corpo è tutto, lo stato eretto, la statura – accade l’incontro con Baladine. Si erano sfiorati a Parigi, distrattamente, nella spirale di amici comuni, ma è nel tardo giugno del 1919, a Ginevra, all’Hotel Richmond, che prendono ad amarsi. Baladine fa di cognome Klossowska, perché è la moglie dello storico dell’arte Erich Klossowski: Pierre, il primo figlio, nato nel 1905, sarà il demonico scrittore de Il bafometto e del ciclo “Le leggi dell’ospitalità” – oltre che traduttore di Nietzsche, Heidegger, Kafka, Virgilio, lanciere di Sade ed esegeta di Carmelo Bene. L’altro, Balthasar, meglio noto come Balthus, nato nel 1908, diventerà uno dei pittori più alti e ambigui del secolo, supportato e consigliato, fin da giovanissimo, proprio da Rilke – che farà in modo di finanziargli il viaggio in Italia, dove è folgorato dalla ieratica grandezza di Piero della Francesca. Balandine è nata a Breslavia come Elisabeth Dorothea Spiro, da famiglia ebraica, il papà è cantore nella sinagoga, lei ha doti da pittrice; dal 1917 è separata dal marito Erich. In alcune fotografie, Baladine ha la faccia quadrata e gli occhi virili, consapevoli che amare è il baratro; Rilke ti ipnotizza, mentre è arcangelico e astratto il piccolo Balthus. In altre fotografie, di profilo, spicca l’inafferrabile bellezza di Baladine, capace, forse, di agili metamorfosi – Rilke è sempre uguale nelle fotografie, lei mai. “Longilinea ed elegante col viso illuminato da uno sguardo intensamente espressivo, Baladine sfiorò anche il mondo della danza. Il fratello Eugen – pittore a sua volta – la ritrasse nel 1901 mentre accennava un passo alla maniera di Isadora Duncan e in quell’immagine la ragazza compare con il nome di Merline: una creatura magica e fantasiosa dunque” (Enzo Restagno). In ogni caso, l’incontro è fatale, tra chi si riconosce dopo ere immerse alla ricerca: Rilke ha 43 anni, Baladine ne ha 33.

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Gli incontri tra Rilke e Baladine sono tra i rari momenti in cui il corpo del poeta – lui, monaco all’evanescente – riconosce un altro corpo, e lì si salda – l’oceanico epistolario di Rilke, piuttosto, parla di una pattuglia di affetti del tutto verbali, metafisici. Nel tardo agosto del 1920, a Berna, ad esempio, “il loro amore conosce un’epoca particolarmente intensa e felice” (nella Cronologia delle Poesie di Rilke curate da Andreina Lavagetto per Einaudi). Baladine sa chi è Rilke e a cosa è votato: lo aiuta a cercare casa e soprattutto ad allestire il castello di Muzot, per renderlo adatto allo studio e alla scrittura. Capisce, perfino, quando bisogna allontanarsi, perché il poeta è allevato in una claustrale solitudine. Il giorno in cui Werner Reinhart, tra i tanti mecenati del poeta, compra per lui il castello, nel maggio del 1922, la figlia di Rilke, Ruth, si sposa con Carl Sieber: naturalmente, il padre, che quell’anno ha preso ad amare Paul Valéry, non c’è al matrimonio. Proprio a Muzot, come si sa, avviene il miracolo. Rilke, preparato anche dalla dedizione discreta con cui lo ama Baladine, trova la voce, ed è l’Himalaya della lirica europea: tra il 2 febbraio e il 23 febbraio, colto da maniaca folgorazione, il poeta ‘risolve’ le Elegie duinesi, lì da un decennio, e scrive i Sonetti a Orfeo. Il momento micidiale accade il 9 febbraio del 1922, e ne scrive così, sommariamente, alla sua Baladine-Merline: “Merline, sono salvo! Ciò che più mi pesava e angustiava è fatto, e splendidamente, credo. S’è trattato solo di pochi giorni: ma mai ho sopportato un simile uragano di cuore e di spirito. Ancora ne tremo – questa notte ho creduto di non farcela; ma eccomi vincitore… E sono uscito per accarezzate questo vecchio Muzot, un istante fa, al chiar di luna”.

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L’amore tra Baladine e Rilke è testimoniato da un lago di lettere – 167 di Rilke e 189 di lei – nell’opera di un compulsivo scrittore di lettere, quando le lettere misuravano l’abisso di una relazione (il 16 dicembre 1920 a Baladine: “pensate – le ho appena contate questa mattina – ho scritto 115 lettere… non una che sia inferiore alle quattro pagine e molte che ne contano otto o addirittura dodici”). Alcune sono raccolte nelle Lettere a Merline stampate da Archinto (2015; traduzione di Francesco Bruno e prefazione di Enzo Restagno), altre sono nelle Lettres françaises à Merline, edite da Seuil. I due si scrivevano in francese, a volte Rilke si dava al tedesco. A volte, Rilke si dona all’amare in modo totale, impareggiabile: “L’istante in cui mi guardavi con occhi ‘di fanciulla’. Il tuo volto abbandonava di colpo ogni espressione, abdicava, si liberava di tutto, d’ogni compiacimento, d’ogni amabilità, d’ogni suo incanto abituale, diventava scuso, vacuo per la millesima parte di un secondo… e in quello spazio appena fatto, che era quello di un momento di creazione, nasceva, sorgeva quella chiarità nuova, oh, una chiarità che mai uomo o Angelo saprebbe descrivere e che solamente un bambino potrebbe concepire nell’aria mattutina del suo giorno d’estate più innocente. Io ho visto ciò. A partire da quell’istante, quanto alla vita, posso morire”.

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Amare il compito cui è disposto l’amato, che supera ogni avvenimento, ogni fatto, ogni progetto quotidiano. Il 22 febbraio 1921 Rilke pretende la solitudine, perché a quello lo stringe la poesia. “Perciò lasciami, Adorata, nei prossimi mesi, lasciami mettere ordine e far chiaro nella mia vita, fintatoché mi sarà concesso questo rifugio. (Non saprei sopravvivere in questa oscurità che dura da anni!)… Il tuo amore in certi momenti ha contribuito infinitamente a fortificarmi: in certi giorni sento che devo ad esso il mio avvenire, alla sua vastità e magnificenza. Ma le decisioni si pronunciano soltanto in solitudine, e occorre ch’io mi riappropri della mia e la colmi, che la sottometta a quelle grandi corrispondenze cui aspiravo fin dall’infanzia, oh infinitamente di più che a qualsivoglia felicità!”.

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In effetti, qualche mese prima, il 18 novembre 1920, Rilke condivide con l’amata la sua concezione d’arte.

Rilke e Merline a Muzot, nel 1923

“Oh Cara, quante volte nella mia vita – e mai come adesso – mi son detto che l’Arte, così come la concepisco, è un movimento contro natura. Senza dubbio Dio non ha mai previsto che qualcuno di noi potesse compiere questo terribile esame di coscienza, consentito solo al Santo, giacché pretende d’assediare il suo Dio attaccandolo da questo lato imprevisto e maldifeso. Ma noi, a chi ci avviciniamo noi, volgendo le spalle agli eventi, al nostro stesso avvenire, per gettarci nel gorgo della nostra anima che c’inghiottirebbe senza quella sorta di fiducia che colà ci accompagna e che sembra più forte della gravitazione della nostra natura? Se l’idea del sacrificio è che il momento di maggior pericolo coincida con quello in cui si viene salvati, non v’è certamente nulla che più somigli al sacrificio di questa terribile volontà dell’Arte. Quanto è tenace, quanto insensata! Tutto ciò che gli altri dimenticano, per rendersi possibile la vita, sempre noi lo andiamo cercando e perfino ingigantendo; siamo noi, proprio noi, a destare i nostri mostri, ai quali non siamo abbastanza contrapposti per farcene vincitori; giacché in un certo senso ci troviamo d’accordo con loro: sono essi, quei mostri, che detengono il sovrappiù di forza indispensabile a chi deve superare se stesso”. Dio colpito nel lato imprevisto, il sacrificio – che fa dell’amore un unico amore, all’opera – la marcia con il mostro. In Baladine, Rilke precisa se stesso e il suo voto.

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Baladine ama l’uomo, poi il poeta, infine l’eremita dell’arte. Ama il talento di Rilke, la sua disposizione al destino, la grammatica della gloria. Più che al proprio, è interessata al dono: ama il micidiale di Rilke, la cosa di cui è preda. Poco dopo la morte del poeta, nel 1927, uno stampatore di pregio pubblica Les Fenêtres: una manciata di poesie di Rilke, in francese, illustrate da Baladine – immagine, forse, del loro amore tra i vetri e le tende, dallo squarcio di una finestra. Il 23 dicembre del 1926 il poeta scrive l’ultima lettera alla sua amata, una settimana prima di morire. Il 13 dicembre ha scritto l’ultima lettera a Lou Salomé. Era molto malato da un anno, il poeta. L’ultima volta che vede Baladine è l’11 settembre del 1925. Baladine, invece, sopravvive distillando i ricordi: muore nel settembre del 1969, cinquant’anni fa, cinquant’anni dopo l’incontro con Rilke.

Davide Brullo

*In copertina: Rainer Maria Rilke, Baladine Klossowska e il piccolo Balthus

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