24 Dicembre 2019

“Che cosa fa lo scrittore se non sputare in faccia ai suoi lettori?”. Elogio di Andrej Sinjavskij, un genio che ci fa paura

Leggendo Cristina Campo – anzi, masticandola – ritorna il nome di Andrej Sinjavskij. Mi sembrava sepolto da tempo, in una bruma bruna, inesorabile. Ora mi attacca, come una turba di locuste di ferro.

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Cristina Campo parla di Andrej Sinjavskij ne Gli imperdonabili. Lo definisce “il solo poeta religioso oggi vivente” in un saggio che si intitola Sensi soprannaturali. In realtà, ho letto il suo nome qualche tempo fa, me lo ero scavato in testa. Nell’introduzione ai Racconti di un pellegrino russo la Campo trova un gemellaggio tra lo stile delle Vite dei santi, “tramandate da scribi greci, copri, siriaci, attraverso Bisanzio e la letteratura ecclesiastica slava” e “lo stile narrativo puramente russo, dal Pellegrino a Gogol’, da Dostoevskij a Cechov”. Il capoverso conclude così: “Stile narrativo che non ha l’aria di voler finire se molto della sua monumentale innocenza e dignità troviamo ancora nel linguaggio liturgico di Pasternak, nei brevi apologhi severi di Solzenitzin, nei bianchi fogli di taccuino di Andrej Sinjavskij”. L’introduzione termina così: su quel concetto, monumentale innocenza e dignità, che è questione di stile e di vita, soprattutto, e su quel nome, Andrej Sinjavskij.

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Inoltre, c’è l’intrusione del caso. Luca Orlandini mi invia una straordinaria raccolta dei suoi saggi. La raccolta è inaugurata da questa frase, “I pensieri non sono assimilati dai libri, spuntano dalle ossa”. L’autore è Andrej Sinjavskij, appunto. Gliene chiedo. Mi sembra un assedio.

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Naturalmente, non posso non conoscere Sinjavskij. Nato a Mosca nel 1925, seguace di Boris Pasternak, Sinjavskij pubblica alcuni libri alieni all’ideologia sovietica e al ‘realismo socialista’ in Occidente, con lo pseudonimo Abram Terc. Arrestato nel 1966 insieme all’amico poeta Julij Daniel – che muore nel 1988, a fine anno, scegliendo, comunque, di restare in Russia – subisce un processo tristemente celebre: per la prima volta, è sotto accusa l’attività di uno scrittore, esercitata tramite libri, che comprovano la criminalità di chi li ha scritti. Daniel fu condannato a cinque anni di lavori forzati; Sinjavskij a sette. A nulla servirono le proteste internazionali. Sinjavskij fu rilasciato nel 1971, due anni dopo emigrò in Francia, diventando il simbolo della dissidenza al nuovo regime sovietico.

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Michail Solochov, Nobel per la letteratura nel 1965, si scagliò duramente contro Sinjavskij, difendendo i valori dello Stato contro la libera creatività dell’individuo. “Io mi vergogno per coloro che hanno calunniato la Patria e infangato ciò che abbiamo di più caro. Essi sono degli amorali… Altri, nascondendosi dietro frasi umanitarie, lamentano la severità della condanna. Vedo qui delegati politici del nostro amato esercito sovietico. Come si comporterebbero se in uno dei reparti comparissero dei traditori?”. Secondo Marco Clementi, la straordinaria durezza nei riguardi di Sinjavskij fu adottata perché “si voleva interrompere la nascente usanza di pubblicare all’estero opere di difficile collocazione in patria… Un ruolo non secondario fu giocato dal fatto che le pubblicazioni all’estero erano state firmate con degli pseudonimi: già questo, secondo la logica del Kgb, costituiva un’ammissione di colpa (celare significa cospirare)” (in: Storia del dissenso sovietico, 2007).

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“I problemi che Sinjavskij solleva, la frattura tra individuo e società, la contraddizione tra crescita del progresso tecnico e immiserimento spirituale dell’uomo, il rapporto tra gli scopi e i mezzi per il loro raggiungimento sono al centro della cultura contemporanea”, scrive Aleksandr Ginzburg in Libro bianco (1967). Non sono forse i problemi capitali dell’oggi? Già. Solo che Libro bianco – che fu libro di culto per chi sbracciava a liberare l’individuo dalle storture dello statalismo, dalla burocrazia dell’intelletto – è fuori dal convegno editoriale. E anche Sinjavskij, un tempo lettura essenziale per lanciarsi al tormento dello spirito, chi lo legge più?

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Pubblicato da Jaca Book, oggi di Andrej Sinjavskij trovate, ancora disponibili, Pensieri improvvisi con ultimi pensieri e Passeggiate con Puskin. Il libro più importante di Sinjavskij, Una voce dal coro – un tempo stampava Garzanti – come altri libri – cito a caso: Nell’ombra di Gogol’, Buona notte, Compagni entra la corte, La gelata – sono introvabili. Un autore un tempo inevitabile, necessario, ora è editorialmente scomparso. Forse non abbiamo più voglia di scrittori inquieti, in lotta, radicalmente radiosi.

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Fu Boris Pasternak il punto di svolta nella vita letteraria di Sinjavskij. L’ultimo Pasternak, quello per cui l’arte letteraria è, infine, pittura di icone, estetica d’estasi, esclamazione che lascia spazio ad altro, un fare spazio, appunto. Così ne dice Sinjavskij: “cominciò a parlare di Cristo, che viene a noi da laggiù, dal profondo della storia, come se quelle lontananze fossero il giorno che viviamo, e insieme al giorno si facessero trasparenti e declinassero nella sera, congiungendosi a un domani senza fine. Nelle parole di Pasternak, come mi parve, non v’era neppure l’ombra di un’aspettativa apocalittica. Cristo veniva oggi perché la nuova storia veniva da Cristo e dal Vangelo, compresa la nostra giornata e Cristo era di questa giornata la realtà più naturale e familiare. La storia con il suo passato, il suo presente, il suo futuro, era come un campo, un unico campo, uno spazio che s’apriva ininterrotto allo sguardo. Guardando dalla finestrella i campi e i declivi nevosi Pasternak parlava di Cristo che viene a noi da laggiù. E parlava senza affettazione, né enfasi, senza pompa alcuna, ma con semplicità quotidiana, come se là e laggiù fossero stati gli orti contigui e la fila dei campi biancheggianti che s’allargavano attorno”.

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No, Sinjavskij non è antimoderno – didascalia all’occidentale – è arcaico, come possono i russi, i tolstojani. “Osservando il digiuno e le feste, l’uomo viveva secondo il calendario di una storia comune che cominciava da Adamo e finiva col Giudizio Universale. Per questo, fra l’altro, un qualsiasi settario semianalfabeta poteva qualche volta filosofare non peggio di Tolstoj e innalzarsi al livello di Plotino, senza aver sottomano nessun testo fuorché la Bibbia. Il contadino manteneva un legame permanente con l’immensa creazione del mondo, e spirava nelle profondità del pianeta, accanto ad Abramo. Invece noi, scorso il giornale, moriamo solitari sul nostro divano angusto e superfluo… Dove va a finire tutto il nostro orizzonte, tutta la nostra capacità ricettiva quando ci togliamo i calzoni o ce li sfilano di dosso? Oppure quando portiamo il cucchiaio alla bocca. Prima di impugnare il cucchiaio, il contadino cominciava col farsi il segno della croce e con questo solo gesto riflesso si legava alla terra e al cielo, al passato e al futuro”.

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Il compito dello scrittore. “Certe espressioni mi danno l’orticaria: ad esempio ‘si ritiene’ invece di ‘sembra’ o aggettivi come ‘speciale’ invece di ‘particolare’. Del resto, vi chiedo, cosa credete che faccia lo scrittore nella sua letteratura, se non regolare i conti con il prossimo? Che altro fa lo scrittore nei suoi libri se non scaricarsi delle passioni che l’angustiano e annoiano? Che cosa fa lo scrittore se non sputare, quasi apertamente, in faccia ai propri lettori? E quelli sopportano, si leccano le labbra dicendo grazie, merci. Immaginatevi dunque di quale libertà e pienezza di vita gode lo scrittore!”. Da uno scrittore voglio essere sconvolto e disfatto – con ferocia o tenerezza – voglio che mi sconfigga e che mi laceri. Certo, voglio anche che mi sputi in faccia.

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Non è un austero aforista, Sinjavskij, ma un uomo animato da una poetica feroce, irrequieta, che va senza timore nel torbido, nel tormento. “Non si sa perché fango e immondizia si accumulino intorno all’uomo. Ciò non esiste nella natura. Gli animali non sporcano se non sono rinchiusi in una gabbia, in una stalla, ossia in mano e in balia degli uomini. Ma anche se sporcano, la cosa non diventa ripugnante, e la stessa natura, senza sforzo da parte loro, s’incarica di ripulire assai presto. Invece gli uomini si devono mondare tutta la vita, dal mattino a sera… Ultimo detrito, il nostro corpo esanime, che richiede pure di essere rimosso al più presto. Un mucchio di letame superstite”.

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Irritante esegeta dei costumi e dei riti odierni – “L’attuale cristianesimo pecca di buona educazione. Si preoccupa soltanto di non sporcarsi, di non mostrarsi indelicato, teme il fango, la grossolanità, la franchezza, preferendo una meticolosa mediocrità a tutto il resto” – Sinjavskij sfoga sempre lì, nel tema per eccellenza della letteratura russa, da Tolstoj a Pasternak, la morte. “L’uomo vive per morire. La morte comunica alla vita la finalità di una trama unitaria e precisa… Chiederemo al destino una morte degna, onesta; chiederemo di muovere incontro alla morte secondo le nostre forze, in modo da compiere convenientemente il nostro ultimo e principale atto, l’atto di tutta la vita – morire”. Forse ci accontentiamo di una letteratura devota al quotidiano, oggi, facilmente ‘d’inchiesta’, docile, piena di provocazioni che suggestionano il protagonismo dei saputelli. Chi ci ricorda che siamo uno sputo, che si vive per morire degnamente, non ci piace. Ma altro scavo non va chiesto, siamo uomini, cioè adatti al volo e alla fiamma. (d.b.)

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