06 Febbraio 2020

Biblica, atroce, immensa Grazia Deledda. Ecco perché “Canne al vento” è un romanzo memorabile

Uno dei primi articoli della nostra Costituzione non scritta è che siamo un popolo di incontentabili. Non si può ciucciare in santa serenità dal boccale di vino senza pensare che quello del vicino è sempre più saporito o che qualcuno abbia inasprito la nostra bevanda con qualche malsano succo. Insomma, non ci va mai bene nulla, siamo sempre dietro ad articolare proteste, rivoluzioni, sfottò. Lo stesso atteggiamento i critici col cappello a punta lo adottano riguardo ai nostri Nobel. Eppure, chi non lo sa che per sbancare il banco di Stoccolma ci vogliono, in egual misura, da una parte una “carriera politica” priva di grinze e dalla parte giusta – essere un bel partito, lassù, significa avere la tessera al buon partito – e dall’altra il favore delle dee irritabili, come le chiamava Leopardi, «fortuna» e «caso»? Così, si accetta il Carducci, benché la sua tromba si faccia roca anno dopo anno, però sarebbe stato meglio Pascoli o D’Annunzio, senza ricordarsi che il primo fu definitivamente messo sul podio da Pasolini e che il secondo apparteneva alla parte sbagliata della mela, cioè a quel frutto marcio che infettò pure la candidatura di Ungaretti. Così, se su Pirandello e Montale nessuno mette becco, su Quasimodo vien da farsi quattro risate e su Dario Fo ancora di più.

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Medesimo trattamento ebbe una scrittrice dalla penna felice quanto pochissimi come Grazia Deledda (1871-1936; sia lode, per altro, alle Edizioni Il Maestrale che la pubblicano con ostinata coerenza), che lo scettro delle meraviglie lo ottenne nel 1926. Pure attorno a lei lo sciame dei critici fece sfaceli. Renato Serra, tanto per dire, giudicava le novelle della sarda «d’una mediocrità esasperante», giudizio che faceva radici anche riguardo ai romanzi, nelle cui pagine, però, «è un che d’umano e sincero, una certa ingenuità che le rende noiose e le fa rispettare». D’altro indirizzo Attilio Momigliano, che sguainava il fioretto e così affondava: «Nessuno, dopo Manzoni, ha arricchito e approfondito come lei, in una vera opera d’arte, il nostro senso della vita». E mentre qualche antologia scolastica alquanto viziata come quella di Guglielmino e Grosser non la antologizzava neppure, un critico ricco di acume quale Emilio Cecchi, tirando le redini della questione, si mise nel mezzo, né di qui né di là, parlando, sì, di una «non so che barbarica e corrusca raffinatezza», in quel «suo mondo fra barbaro e medievalesco», ma non andando oltre nel giudicare «un’opera esagitata e foscheggiante». Sarà che in un Paese corporativo come il nostro, in cui gli affari di lettere si lavano in casa, cioè tra illustri illuminati che rosicano nelle accademie – non fatevi illusioni, con le dovute differenze è così ancor oggi: l’italico scrittore, inglesizzandosi, non rinuncia alla tessera esclusiva del “club” –, non andava a genio una “dilettante”, una “estrema principiante”, e che per di più aveva cominciato scrivendo racconti su giornaletti per signore, come la Deledda.

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Ebbene, sì, è così, la Deledda, tutta intuito e buona volontà, era, come dire, una “scrittrice della domenica”. Gli batteva il cuore quando leggeva Victor Hugo («Oh, la penna di Victor Hugo per un’ora sola, per descrivere queste lotte interne, queste tempeste in un cranio!») e De Amicis («Oh! avere la tavolozza di De Amicis per rendere i colori, le sfumature, i meandri arabescati, le ombre, le luci, le fantasmagorie delle montagne lontane»), si arrabattava tra le più vivaci letture dell’epoca, da Balzac a Byron, da Tolstoj a Manzoni, da Dumas ad Ada Negri. Ergo: faceva esperienza. Reclusa nella casa romana dove viveva con il marito Palmiro Madesani, chiusa al mondo, nella propria hawthorniana “camera stregata” da cui avrebbe partorito capolavori. Uno fra tutti, Canne al vento, del 1913. Vien da gettar lacrime a pensare che nell’italietta dominata da quel grammofono del Vate, in cui alla meglio spuntava un Fogazzaro, prima di Tozzi e Svevo e Gadda, passata la sbornia del trittico delle meraviglie Verga, De Roberto, Capuana, potesse sorgere un tale diamante grezzo. La vicenda “biblica” di caduta, purificazione e ambigua redenzione del servo Efix, che assume su di sé, dopo aver ucciso incidentalmente il suo padrone – quello che nel libro è detto il suo «male segreto» – e aver aiutato a fuggire dall’isola materna e malefica una delle figlie, l’intero destino della famiglia Pintor, è emblematica – rudemente scavata. A partire dalla cruda lettura del Vecchio Testamento, in cui è la colpa a innescare l’azione di ciascun personaggio, sbalzato nel piombo, come in questo fragoroso passaggio: «il terrore della fine lo soffocava, aveva paura che l’anima gli sfuggisse d’improvviso dal corpo, come era fuggito lui dalla casa dei suoi padroni, e scacciata dal mondo dei giusti si mettesse a vagabondare inquieta e dannata coi fantasmi della valle».

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Efix è la figura desolata ma bianca del “servo sofferente” descritta da Isaia, che trova il suo culmine nel capitolo 53 di quel vasto libro profetico, e sulla schiena del servo giusto davvero potrebbe essere siglato a mo’ di marchio il versetto «Egli ha portato i peccati dei molti e ha interceduto per i prevaricatori». Lieve analisi toponomastica: le tre donzelle per cui Efix è al servizio si chiamano Ruth, Ester e Noemi, ogni riferimento al Vecchio Testamento va da sé. A Ester e a Ruth sono intitolati due rotoli della Bibbia; di particolare interesse rileggere la storia di Ruth, a cui si accompagna quella di Noemi, la di lei suocera. Ruth sarà costretta a lavorare e poi a sposare un parente di Noemi, Boaz, proprio come la Ruth della Deledda, alla fine del libro, sposerà, forzatamente, il cugino don Predu. La sorella fuggitiva, manco a dirlo, si chiama Lia, come la prima moglie di Giacobbe, ovvero, ebraicamente, la “stanca”, o, secondo altra etimologia, la “pecora madre”. Di fatto la Lia della Deledda è “stanca” dell’isola e fugge sul “continente” dove si sposa e partorisce un figlio, Giacinto. Proprio lui sarà causa della rovina definitiva, prima del fosco lieto fine, della famiglia. Ancora una volta, tutto, come vogliono le leggende primordiali, è già nel nome: Giacinto è bello e impossibile come il Giacinto ovidiano, e per questo causa di perdizione per sé e per gli altri.

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Ma dove sta il “moderno” nella Deledda? Nell’antico riscritto in codice impressionista e moraleggiante. E nella potente figura dei suoi “perduti”. David Herbert Lawrence, che capì tutto e subito, la adorava, e, diversamente dai nostri critigonzi dell’epoca, già aveva capito che con Verga la Deledda c’entrava pochissimo, quasi nulla. Semmai Verga ha dato spunto e turbo alla Deledda. No, a leggere lei vien da pensare a Joseph Conrad: in entrambi la fa da padrone un Dio che gioca a rimpiattino con le sue creature e una scrittura fortemente “decadente”, parecchio jugendstil. Se per il primo, cioè, fu utile più di ogni cosa, con la Bibbia sul comodino, la lezione di Henry James, per la sarda fu necessario D’Annunzio, magari con qualche stoccata dei tardi vittoriani come Thomas Hardy. L’“impressionismo” di entrambi è papale, così come una certa nebbiosità onirica: «tutto era stato, tutto era un sogno» scrive la Deledda; «Mi sembra di cercare di raccontarvi un sogno», sussurra il Marlow conradiano in Heart of Darkness.

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In una scrittura intercalata da radicali e radianti domande leopardiane («E perché nascere?»; «Siamo nati per patire»; «Tu credi che siamo noi a fare la sorte?») e proverbi scaturiti da una bibbia casereccia («Il bisogno, tu lo sai, sorella mia, rende pari tutti»; «La vita passa e noi la lasciamo passare come l’acqua del fiume, e solo quando manca ci accorgiamo che manca»), pare di intravedere uno scrittore “postumano” come Cormac McCarthy. Ci leggiamo, pur sempre con Conrad a cucire la tela, la stessa indagine quasi ossessiva dentro immagini assolute e scoranti, che perpetuano un senso di maledizione e di cose irraggiungibili («Gli pareva d’esser morto e di andare, di andare come un un’anima in pena che deve raggiungere ancora il suo destino eterno»; «Era già morto ed errava ancora per il mondo, scacciato dai regni di là»; «Per tutta la mattina fu uno sbucare di uomini a cavallo, dal sentiero nebbioso; smontavano taciturni, come per un convegno segreto in quel punto lontano del mondo. […] Parevano tutti banditi, esseri superiori alla legge»), e persino l’utilizzo di identiche figure-cardine. Nel suo percorso di redenzione Efix si accompagna a un cieco derelitto – e poi a un altro, che risulterà però un malandrino – che si dice innocente perché «cammino verso l’eternità», allo stesso modo McCarthy in più di un libro – ma si legga con particolare cura la “Trilogia della Frontiera” – fa dialogare i suoi eroi con vecchi dalle orbite scavate che hanno sempre qualche verità assolata da pronunciare. Persino il drammatico succo del romanzo, riassunto in questo dialogo mozzo, «“Perché la sorte ci stronca così, come canne” “Sì”, egli disse allora, “siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Siamo canne, e la sorte è il vento”», ne siamo certo, potrebbe benissimo essere sottoscritto dall’immenso McCarthy. (d.b.)

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