07 Dicembre 2020

“Niente abracadabra su Dio e sulla morte”. Lettera a Philip Roth, nell’aldilà

Questa è una lettera al morto. All’arci morto.

Immagino che Philip Roth, ora, stia seduto sul trono, in qualche attico superbo celeste, con salone oceanico e immane finestra che dà sul mondo, e che sia lì, fregandosene della storia della letteratura, a guardare il movimento incessante degli uomini, avido, ancora, nel dopo vita, di vita, di carne, di corpi in convulsione. Come un creatore. Si mangerebbe le nuvole pur di toccare un corpo, le maniche di una giacca, il profilo turgido di un bidè, perfino quello.

La letteratura è, in modo ambivalente, alternativa al creato. Crea mondi e creature che solo la nostra positivistica, umanitaria deficienza può farci credere utili a capire questo mondo e queste creature. La letteratura è rivolta, ribellione, apocalissi – o, semplicemente, piroetta da trapezista sul nulla. Non gioco a fare lo gnostico e arrivo al bersaglio: Roth ha scritto molto, troppo. Del suo vagone di romanzi preferisco La macchia umana (in seconda battuta Il teatro di Sabbath), gli altri mi sono, in serie, un poco indigesti. Eppure, caro Roth, caro scrittore a cui la gloria ha sorriso come a nessuno su questa terra, io provo compassione per te – e tu, peraltro, mi odierai per questo – perché un uomo deve aver sofferto atrocemente per scrivere quella perla nera, quella lapide che è Everyman. A riconoscere che un uomo è questa cosa mediocre e che «la morte è soltanto la morte, e nient’altro» son buoni tutti, dopo una buona dose di solitudine e qualche buon libro, ma scriverci un romanzo brutale e conchiuso, agghiacciante e biblico nessuno lo ha fatto prima.

Penso che per scrivere Everyman Roth sia andato al di là della letteratura. In Pastorale americana o Il complotto contro l’America si parla dei vivi, e in modo leggendario; qui, con quattro parole in croce, si scava nell’enigma che ci portiamo dietro dai babilonesi. Perché la morte è l’unica cosa che il nostro pensiero si affanna a spiegare, perché il dolore è l’unico argomento degno di essere pensato, perché «la morte è così ingiusta. Perché quando uno ha gustato il sapore della vita, la morte non sembra neppure una cosa naturale».

La storia di questo “ogni uomo” che non ha nome e che sei tu – solo a pagina 92 leggiamo che l’“ognuno” è nato nel 1933, come te, Philip non più Philip (come si chiamano, a proposito, i morti, lassù?) – che si è sposato tre volte più per caso che per desiderio, che ha avuto figli e successo come molti, che ha sbagliato come tutti, che non ha peccato più di quello che pecca ogni uomo, e che semplicemente muore, e impietosamente ci descrive la sua morte e la morte, anzi no, il lento, letale, violento consumarsi di chi gli sta al fianco, è la nostra storia. E io ho capito che tu, Philip spettrale, hai buttato nel bidone la Genesi, il libro del principio, con quelle picaresche vicende di patriarchi e figli, di esili e riconciliazioni (leggersi Erich Auerbach per mettere polpa alle mie affermazioni buttate lì), per il Kohèlet, il libro della fine. E che quando tocchi il culmine del tuo delirio morale, altro che romanzo, spazzando via ogni tuo libro precedente, con frasi come «Niente abracadabra su Dio e sulla morte, né obsolete fantasie, per lui. Esisteva solo il nostro corpo, venuto al mondo per vivere e morire alle condizioni decise dai corpi vissuti e morti prima di noi», oppure, «È impossibile rifare la realtà. Devi prendere le cose come vengono. Tener duro e prendere le cose come vengono», tu sbirci il devastante, acuminato Kohèlet. Perché questo tuo libro sull’indecenza del morire, sulla primordiale debolezza dell’uomo (che colpo di biliardo inventarti che l’“ogni uomo” fin da fanciullo armeggiava per conto del padre in diamanti, la cosa indistruttibile, luminosa ed eterna, l’unghia di Dio in tasca alla creatura di carne) sta tutto in questo mucchio di versetti, «La sorte dei figli dell’uomo e la sorte della bestia è una: la morte degli uni è la morte dell’altra, uno spirito solo è per tutti. Scarto tra uomo e bestia non c’è» (Ko 3, 19); «Conobbi che tutto ciò che fa Dio è per sempre, su esso non c’è da aggiungere, da esso non c’è da togliere» (Ko 3, 14). Ce n’è a sufficienza per passare la vita a meditare. E morire come tutti, come cani. Perché lo sguardo di Dio si è fermato sul Sinai, e da allora nessuno sa più nulla.

Ti dico grazie per questo, da questa vita all’oltrevita, Philip, per avermi mostrato che cosa banale, e perciò stordente e struggente è la morte. Ogni morte. Tu parli di quelli che hanno un tumore e di quelli che hanno una paralisi, di quelli che si suicidano (mirabile interrogativo, il tuo: «come si fa a scegliere volontariamente di lasciare la nostra pienezza per quel nulla sconfinato?») e di quelli che muoiono troppo giovani per pensarci sopra. Non abbandoni nessuno, nel tuo lieve, radicale, fulminante catalogo dei morti. E se fossimo polvere, beh, questa caduta sarebbe nebbia, argento. (d.b.)

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