03 Gennaio 2019

“Riempio di angoscia le filastrocche, questo è un libro senza precedenti”: dialogo con Tiziano Scarpa

Nel 2018 è sbocciato un poeta. Nel 2018 Tiziano Scarpa, con cui dialogo spesso, per “un ingorgo editoriale non premeditato”, come dice lui, ha pubblicato un romanzo – Il cipiglio del gufo, con Einaudi – e due raccolte poetiche, una s’intitola Le nuvole e i soldi (stampa sempre Einaudi), l’altra, che a onor di sottotitolo è una raccolta di “storie in rima”, si chiama Una libellula di città (stampa minimum fax). In realtà, il genio di Scarpa è che tiene il piede linguistico in più scarpe: fa romanzo, teatro, poesia, mantenendo la stessa posa, ma mutando il peso della forma. Se altri esperimenti poetici – Nelle galassie oggi come oggi, Groppi d’amore nella scuraglia – non sono stati ben digeriti dal mio cranio lirico – cioè: gonfio di pregiudizi e di astuzie – quest’ultimo, questa collezione di libellule in versi, all’apparenza fragile, effimero come uno sbuffo di luce, che Scarpa si porta appresso da lustri – “La più vecchia di queste storie in rima è… scritta nel 2000” – mi sorprende. Con atletismo letterario e tempra da alchimista, Scarpa rinnova l’arte bambina, e rischiosa, della filastrocca – distici in rima baciata, endecasillabi – incatramandola di tenebra, tuffandola nell’angoscia, nell’horror, nel grottesco. A me fa venire in mente un David Lynch che beve una china calda con Palazzeschi, mettendo in scena Twin Peaks con una falange di ‘scapigliati’, lui mi dice che ha preso a spunto Edward Lear, virtuoso del limerick. In ogni caso, questa libellula di città custodisce sketch corrosivi, come la storia del ragno leopardiano (“Sono contento di essere nato?/ O questo mondo è tutto sbagliato?”) che cerca la verità nei lamenti delle sue prede (“La vera musica che sognavo,/ dalle mie vittime la aspettavo”), quella dello Scultore più retto del mondo che “doveva squadrare/ il più grande tabù circolare”, quella della Giocoliera di Tolmezzo che ha un finale epigrafico, canonico, straziante (“Il grande artista è sempre quello morto”). Soprattutto, filastroccheggiando, ci occhieggiano versi molto belli, piccoli pezzi di cristallo, come questi: “Volano verso il fiotto splendente./ Cieche, risalgono alla sorgente”; “Da quella stirpe illusa e felice,/ si staccò un’indole controluce”; “Qualcosa pullula in mezzo al nulla./ Alle mie spalle il buio sfarfalla”, tutti tratti da Una falena a Cinecittà. Anche l’intervista, d’altronde, per sua natura è falena – e a volte felina – godetevela così, come una fiammata di verbi nella trita oscurità. (d.b.)

ScarpaIntanto. Due raccolte poetiche nello stesso anno (l’altra è Le nuvole e i soldi, stampa Einaudi), fanno di te più che altro e più che tutto un poeta. Parola – “poeta” – passata di moda, che sta tra il marmo e la sfiga. Cosa dici, ci stai nella didascalia – poeta – o per te la poesia è gioco, “anello che non tiene”, sfogo liminare alla prosa, alterità che si fa verbo?

Che questi due libri – Le nuvole e i soldi e Una libellula di città – siano usciti nello stesso anno è casuale, un ingorgo editoriale non premeditato. Nessun gioco: scrivo poesie quando sento il fervore della forma. Quanto a Una libellula di città, non sono sicuro che si tratti di poesie; io le chiamo storie in rima: scusa se faccio il puntiglioso nel precisare questo, ma se ci pensi è un modo di risponderti, perché la parola “poeta” è una specie di piedistallo, può indicare il posto da cui hai intenzione di parlare; più o meno così: «Ecco, adesso salgo sul piedistallo di marmo dove è incisa la parola “POETA” e vi parlo da lì». No, per favore. Non guardate da dove vi parlo. Leggete, se ne avete voglia, le parole che ho scritto, prendetele per quello che dicono, senza badare al presunto piedistallo da cui vengono pronunciate.

In questi versi poco civici e piuttosto cinici leggo, in controluce, Palazzeschi, Govoni, un poco di Dossi: è vero? Da dove arrivano queste filastrocche macabre e colorate?

Quasi tutte queste storie cominciano come i limerick di Edward Lear: si indica un personaggio in maniera generica, accanto alla città di provenienza: “There was an Old Person of Dover”, “There was a Young Lady of Dorking”; “C’era un elefante di Pordenone”, “C’era un mastro vetraio di Murano”… Il riferimento principale è quello, i limerick, anche se poi ogni mia storia è molto più lunga, e ha una sua coerenza, non è un nonsense. È raccontata con le rime baciate, che di solito si usano nelle storie per bambini. C’è un libro Rizzoli, del 1968, intitolato Le nuove filastrocche, con testi di Landolfi, Arpino, Rodari (che mi piace anche se non lo ammiro formalmente, perché era metricamente sciatto) e altri, fra cui un autore bravissimo e dimenticato, Vezio Melegari. Ma in Una libellula di città io racconto agli adulti storie tragiche e disperate usando le rime e la metrica che gli adulti stessi riservano ai bambini. Capisci? Ritorco contro noi adulti una forma che riteniamo puerile, e la riempio di angoscia. Perciò penso che questo libro non abbia precedenti nella nostra letteratura; o almeno, io non ne conosco.

Parli, spesso, con l’arma della rima in apparenza facile, di morte: perché? Non c’è davvero, dunque, altro tema che questo? 

Una storia su due parla di morte, ma quasi sempre negli ultimi versi. Ciò che conta non è la morte, ma da dove ci si arriva, che percorso si fa per raggiungerla.

“Sono contento di essere nato? / O questo mondo è tutto sbagliato?”: a parlare è un ragno esistenzialista. La domanda che si pone il tuo ragno, la faccio io a te, rispondi!

È significativo che ti abbia colpito proprio questo testo, che è anomalo in un libro fatto di storie in terza persona: Una libellula di città è antilirico, parla di altri, donne e uomini che non sono io, piante, animali: non c’è quasi mai identificazione tra chi dice “io” e il protagonista della storia. Te lo faccio notare solo per mettere in evidenza che la nostra cultura poetica è fatta così: tutto ciò che è scritto in versi tendiamo a considerarlo un’immediata effusione dell’io, della sua posizione esistenziale. Quando uno sale sul piedistallo di marmo dove è incisa la parola “POETA” e parla da lì, ecco che si dà per scontato che stia parlando di sé. Ma Una libellula di città ha sì e no cinque storie su trenta raccontate in prima persona. Comunque, non voglio sottrarmi alla tua domanda: “Sono contento di essere nato? / O questo mondo è tutto sbagliato?”, si chiede il ragno. Ammetto che mi ha fatto effetto scrivere quei due versi, anche se li ho messi in bocca a un personaggio diverso da me: lì il pronome “io” è in prestito. Io sono contento di essere nato anche se questo mondo è tutto sbagliato. In quella storia il ragno pretende un canto di verità dalle sue vittime durante la loro agonia. Spero di non essere altrettanto sadico, ma penso anch’io che la vita sia ipocrita. Non ci si dice la verità, che è fondata sulla coscienza di dover morire prima o poi. La letteratura è uno dei modi per rimediare a questa ipocrisia.

Non mi pare che al primo posto dei piani culturali del paese ci sia la poesia, letta, semmai, nel suo aspetto liofilizzato, via Instagram, e…

Scusa se ti interrompo. Ma anche la scuola liofilizzava la poesia, o la incaprettava dentro categorie assurde che a me sembrano modi per disinnescare la forza di ogni singolo testo annebbiandolo dietro un’etichetta: pensa a “decadentismo”, “crepuscolarismo”, “ermetismo”… Spero che oggi le cose vadano meglio; non so, non conosco gli attuali programmi scolastici né i manuali. Giorni fa in una bancarella ho trovato il primo volume dell’Antologia popolare di poeti del Novecento, curata per Vallecchi da Vittorio Masselli e Gian Antonio Cibotto negli anni Cinquanta: poesie di Saba, Govoni, Rebora, Palazzeschi, Campana, Sbarbaro, Ungaretti, Montale e altri, scelte per il grande pubblico, pubblicate per colmare una lacuna. Senti che cosa scrivevano i due curatori nella prefazione, rivolgendosi al lettore: «Tu sei uno dei tanti che durante gli anni scolastici hanno letto le poesie di Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi, Carducci, Pascoli, D’Annunzio e ne conservano ricordo. Ma se ti si parla della poesia del Novecento, scorgi distintamente, nel fondo della memoria, soltanto La signorina Felicita di Guido Gozzano. Degli altri poeti del Novecento hai una pallida idea perché mai nessun critico letterario del nostro tempo ha saputo o voluto parlartene con semplicità di linguaggio nei giornali comuni che legge il cittadino comune». Quindi, anche allora “non mi pare che al primo posto dei piani culturali del paese ci fosse la poesia” (per citare le tue parole). Instagram e Facebook sono le antologie popolari dei nostri tempi. Così le poesie arrivano anche a chi non prenderebbe mai in mano un libro di versi. Tra un post su Salvini e uno sui gattini, la poesia cresce come una piantina interstiziale che ha attecchito chissà come sul muro rasente un marciapiede: cammini per la strada con gli occhi fissi sul tuo smartphone, navighi in rete e ti imbatti per caso in una poesia che sboccia sul tuo minuscolo schermo. Le nuvole e i soldi e Una libellula di città sono i miei libri di versi di cui ho potuto constatare per la prima volta la propagazione sui social. Il mio libro precedente, Discorso di una guida turistica di fronte al tramonto, era del 2008, quando Twitter, Instagram e Facebook non erano così pervasivi. Una poesia rilanciata su quei canali, oggi, raggiunge decine di migliaia di persone, spesso per caso, cogliendole di sorpresa. Su carta, la leggono sì e no in mille: con la differenza che questi lettori devono aver deciso di prendere in mano un libro di versi e aprirlo. Cosa dici? È un bene? È un male? Meglio leggere poesia per caso o per volontà? Era meglio prima? È meglio adesso?

Non mi pare, devo dire, che la cultura in sé sia il primo dei pensieri di questo e di altri governi. Come si reagisce (ma poi, c’è bisogno di reagire?), che cosa bisogna fare quando anche il gesto stesso di “pubblicare” pare atto medioevale, vetusto, in fondo inutile? 

Io le porto in giro, le leggo in pubblico, da solo o con una musicista formidabile, Debora Petrina. Per me le letture sceniche non sono né un cavallo di Troia né una strategia pop: sono una forma d’arte, perché la parola non è solo inchiostro, è anche suono, voce, suggestione fonosimbolica, percussione degli accenti. Stampare un libro è un atto moderno, non lo definirei medioevale: fonda un rapporto gutenberghiano, individuale, diretto, silenzioso, interiore, protestante, fra il testo e chi lo legge: non è che oggi le cose siano cambiate troppo; come succede da sempre per la letteratura – aedica, orale, papiracea, amanuense, su codici, a caratteri mobili, linotypistica, digitale – pubblicare innesca anche conseguenze sociali, relazionali, comiziali fra l’alfabeto e i corpi.

***

Una ragazza che vive in Alaska

 
Una ragazza che vive in Alaska
vuole viaggiare senza niente in tasca,

senza coltello né soldi né mappe:
lascerà al viaggio dettarle le tappe.

Farsi guidare dalla libertà.
Intanto andarsene, poi si vedrà.

Pensa al suo viaggio, si immagina i monti,
picchi, cascate, voragini, ponti,

gorghi, vertigini, cavalcavia,
fiordi, caligini, periferia.

Boschi notturni, ululati, creature.
Sarà fantastico: quante avventure!

Muoversi a caso, da nord verso sud:
Canada, Messico, Cuba, Perù,

poi con l’aereo volare a Hiroshima
solo perché dopo Lima fa scena.

Senza un criterio, così, allegramente,
cogliere ciò che racchiude il presente.

Non stare lì a criticare ogni bivio:
prendere il largo e sfruttare l’abbrivio.

“Parto”. Si chiude alle spalle le porte,
vede una freccia con la scritta Morte.

Segue quel senso, ridendo di cuore.
Fa un passo, incespica, ruzzola, muore.

Tiziano Scarpa

*da “Una libellula di città e altre storie in rima”, minimum fax, 2018

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