16 Marzo 2020

“Sì, quando mi misi la rosa fra i capelli, come facevano le ragazze andaluse”: il monologo di Molly nell’Ulisse, l’esplosione della vita, “la rapsodia della carne”

Quando Joyce descrive il capitolo finale di Ulysses come l’“ultima parola” e il personaggio di Molly-Penelope come il “ritorno ultimo” – non al mondo ma al grembo simbolico della natura – dà anche l’ultimo colpo di cesello alla triade del romanzo: la freschezza dello sguardo di Molly, la sua capacità di dire “Sì” alla vita sigillano il contrasto con il pallido Stephen Dedalus e lo sfibrato Leopold Bloom.

Da un punto di vista narrativo la molteplicità di voci che abbiamo ascoltato nel romanzo si chiude a imbuto sulla sola voce di Molly Bloom (e il lettore è a volte consapevole di non avere davanti un “narratore affidabile” ma non gli importa): l’unicità del punto di vista accentua la sua stessa unicità e completezza.

Se poi tutto il romanzo ha una tonalità grigia – simbolo della razionalità maschile dei due deuteragonisti –, nel monologo finale di Molly il racconto esplode in colori puri e una cascata di rossi, viola, gialli, blu e verde smeraldo filtra e contrappunta i pensieri della donna nella sua stanza. Apice del romanzo, parte conclusiva dell’ultimo capitolo, la chiusa orchestra e riassume temi, suggestioni, refrains del lungo resoconto di una giornata: gli dei qui non cadono come nel Walhalla wagneriano, bensì salgono – dopo molti agenti ritardanti, digressioni e divagazioni come nella vita – per aspera ad astra.

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Secondo Edouard Dujardin, il primo a usare il monologue intérieur (la definizione è di Valéry Larbaud), lo stream of consciusness joyciano “nella sostanza riflette i pensieri più intimi, quelli più vicini all’inconscio; nello spirito è un discorso che manca di organizzazione logica e riproduce i pensieri allo stato originario così come crescono nella mente” (Le monologue interieur, 1931). Nelle interviste parigine rilasciate a Djuna Barnes, d’altronde, Joyce dice: “Nell’Ulisse ho registrato, simultaneamente, cosa un uomo dice, vede, pensa e cosa questo vedere, pensare e vedere produce in rapporto a quel che voi freudiani chiamate l’inconscio”.

L’Interpretazione dei sogni ha fatto scuola. Anche mise en abyme di principi freudiani, in una forma di positiva “regressione” creativa il “flusso di coscienza” di Molly Bloom trasforma i pensieri in “immagini visive”, rileva gli affioramenti l’inconscio, la parte oscura della mente, il caos onirico. Il fantasticare diventa quasi sogno da un punto preciso in avanti: “vediamo se riesco ad addormentarmi 1 2 3 4 5”, let me see if I can doze off 1 2 3 4 5 …, con la sequenza dei numeri contati nel tentativo di addormentarsi. Il che le riuscirà solo a metà, e per fortuna, altrimenti l’artificio narrativo cadrebbe e il suo sonno coinciderebbe per il lettore con il silenzio.

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Il monologo inizia con la donna distesa a letto, quasi un animale femmina nella tana delle lenzuola: i suoi pensieri vagano sciolti, spaiati, dal passato remoto al giorno recente prima di fermarsi sulla carta da parati, dove i fiori sporgono “come stelle”, like the stars : “che tipo di fiori danno inventato come le stelle la tappezzeria a Lombard Street era molto più carina”, what kind of flowers are those they invented like the stars the wallpaper in Lombard street was much nicer.

Vicina alla natura, immediata e poco razionale, Molly non pensa secondo logica (come il marito e ancora di più Stephen), ma procede per associazioni e immagini libere, fantasie, analogie che affastellano categorie disparate della realtà in “metafore cumulative”: fiori e stelle accostati in virtù della vibrazione cromatica in una specie di operazione cubista, la luminosità delle stelle-fiori al vertice della prospettiva. Pensieri e gesti di Molly non sono semplici, ma semplice è la sua motivazione alla vita, immediata la sua felicità di essere viva, di esistere. Anche di volersi addormentare e, prima, di poter pensare a qualcosa: un fiore, la tappezzeria, le stelle, un acquisto.

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Secondo parametri razionali, Molly è inconsistente – “a prima vista il discorso di Ulysses pare il monologo di uno schizofrenico” dichiarerà Jung – ma la sua visuale è il non razionale che ci sostiene e permette di continuare vivere anche quando la vita sembra un inganno. Alogico in superficie, il “discorso” di Molly Bloom è perfettamente coerente con quel che lei è: come i bambini e i folli, crede in ciò che vede. Emotivamente autosufficiente, ‘inscena’ – a partire dall’immagine dei fiori-stelle – la carica rivoluzionaria della lingua, la qualità irrazionale e distruttiva in un mondo coerente incardinato sulla ragione e la logica.

Calata nell’immediatezza, dalla tappezzeria si sposta a considerare un altro oggetto quotidiano: “il grembiule che mi ha regalato era così”. L’umile ausilio da cucina è issato ad altezze sideree, The apron he gave me was like that: fiorato, perciò anch’esso per contiguità simile alle stelle.

Molly ignora completamente il mondo intorno e ne costruisce uno suo, alternativo, nemmeno consapevole delle proprie contraddizioni e lacune. Vede tutto solo in rapporto a sé – tipico del comportamento infantile o animale – e verso le cose e l’esterno si pone secondo la necessità, il momento, l’ospitalità dell’occasione con coerenza fortuita, in bilico e mai del tutto conquistata.

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Nella sua lingua lirica noi lettori dobbiamo spesso fare i conti con quanto non ci aspetteremmo, un mix particolare di emozione, ragionamento, percezioni, e ci ritroviamo spesso confusi dalle “fratture del pensiero” come le chiama Wilson nell’illuminante Axel’s Castle, che sprofondano i nessi necessari a capire le associazioni di idee, forme, memorie. Restiamo così a guardare l’esito di questa soppressione, sconcertati, nel dubbio ma con ammirazione: “appena Joyce ci introduce nella coscienza di uno di essi [personaggi] ci si apre davanti un mondo complesso e singolare, talora oscuro e fantasmagorico quanto quello di un poeta simbolista” (p. 183).

“Oscuro” forse, eppure funzionante alla perfezione: “Più di ogni altra opera narrativa, esclusa forse la Comédie Humaine, Ulysses dà l’illusione di un organismo sociale dotato di vita propria” (p. 188). Infatti l’allusione ai fiori sta dilagando e Molly ha già unito il pensiero sui fiori al programma domestico: I can get up early Ill go to Lambes there beside Findlaters and get them to send us some flowers to put about the place. “Posso alzarmi presto e andare da Lambes vicino a Findlaters e farci mandare dei fiori da mettere in casa”.

Il tema dell’ornamento continua, persistente, ma si sposta dalla strada o la zona della città al corpo femminile: il desiderio indefinito diventa decisione limitata ma molto chiara, whatll I wear I shall wear a white rose… Nella tensione verso il futuro il verbo si libera non solo della logica ma anche della sintassi, la cellula di significato whatll sembra il pensiero nascente vicino alla sensazione, prima di chiarirsi e solidificarsi nella mente: “cosa devo mettermi indosserò  una rosa bianca”.

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Nel cammino randagio di considerazioni e osservazioni – perché per ampiezza divagatoria Molly sembra spesso la controparte femminile del Prufrock eliotiano – il compito domestico funzionale prende il sopravvento, of course a nice plant for the middle of the table Id get that cheaper in wait wheres this I saw them not long ago, “certo una bella piantina per centro tavola la troverei a minor prezzo un momento dove l’ho vista non è mica molto”. La dolcezza dell’aggettivo nice e il sostantivo “pianta” sembrano appuntare nel generico il campo semantico dei fiori. Subito dopo però, I love flowers Id love to have the whole place swimming in roses, “mi piacciono tanto i fiori vorrei che tutta la casa nuotasse tra le rose”, le parole di Molly invertono la direzione dal più allargato ‘fiori’ allo specifico ‘rose’, con il verbo ‘amare’ ripetuto, collegato all’altro verbo liquido, acqueo, che dilata l’ondeggiare, l’ondulatorio all’intera casa.

Fiori-stelle-rosa-pianta-fiori-rose: dalla carta da parati fiorata alla rosa bianca da indossare e il grembiule con i fiori stampati, dalla pianta sul tavolo acquistabile in un negozio alle rose che invadono lo spazio, la fantasia di Molly scivola dal banale-concreto al lirico-astratto. I piccoli doveri di casa sono lasciati indietro, l’incanto del desiderio sovrasta tutto, la pagina è trasformata in quadro.

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A questo punto Molly Bloom, la donna distesa nella penombra della sua stanza a pensare e sognare, si lascia invadere da un senso di meraviglia per la natura, e nostalgia istintiva, primordiale per le montagne, il mare (anticipato dal verbo nuotare), i prati, gli animali, il cosmo: God of heaven theres nothing like nature the wild mountains then the sea and the waves rushing then the beautiful country with fields of oats and wheat and all kinds of things and all the fine cattle going about that would do your heart good to see rivers and lakes and flowers and all sorts of sheps and smells and colours springing up even out of the ditches primroses and violets nature  it is, “Dio del cielo non c’è niente come la natura le montagne selvagge poi il mare e le onde sfrenate poi la bella campagna con campi di avena e di grano e ogni specie di cose e tutti quei belle mucche che girano ti farebbe bene al cuore vedere laghi e fiori ogni  specie di forme e colori che spuntano anche dai fossi primule e violette è questa la natura”.

Molly fa un uso eccezionale della sineddoche e della sinestesia: per lei i colori sono profumi, le stelle sono fiori e tutto poi si confonde e precipita in caleidoscopica armonia. Quasi non fosse uscita dall’infanzia, vive in un’impellente predisposizione fantastica, innamorata della propria fantasia, del ritmo che fluisce simile all’acqua: nella sua libera sequenza di pensieri tocca acuminate felicità e profonda riconoscenza di essere viva.

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Principio femminile del romanzo, Molly ‘costruisce’ un suo “coraggioso mondo nuovo” dal nulla, dove le categorie sono sovvertite e mescolate o, se esistenti, ignorate: razionale e irrazionale, moralità e immoralità, dogma e eresia. Incarnazione dell’umanità nell’Eden, all’unisono con la natura e i cicli della natura, il suo telos, come quello degli animali allo stato brado, è sopravvivere, è continuità, resilienza. E qui come in altri passi, positivamente geotopica, Molly parla con la voce della madre Terra.

Fuori da ogni considerazione culturale, di ragione o di sistema, pronuncia una delle più belle e semplici asserzioni di panteismo della letteratura moderna, as for them saying theres no God I wouldnt give a snap of my two fingers for all their learning, “e quelli che dicono che non c’è un Dio non darei un soldo bucato di tutta la loro sapienza”. Incantata dalla bellezza naturale, Molly l’accetta e accoglie in toto, mentre disprezza chi, in nome di “conoscenza teorica”, rifiuta o combatte il divino.

Dietro la sua ingenua ignoranza si avverte la voce di Joyce, convinto che l’intelletto sia causa e origine del continuo tormento umano: why dont they go and create something I often asked him atheists or whatever they call themselves, “perché non creano loro qualcosa gliel’ho chiesto spesso gli atei o come si chiamano”. L’interrogativo, why why, si ripete e quindi è risolto: they might as well try to stop the sun from rising tomorrow, “tanto vale che provino d’impedire al sole di sorgere domani”.

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Il sole sorge tra i fiori, primo e ultimo anello della catena: Molly Bloom immette ora nella sequenza il giorno in cui lei, una ragazza, ha conosciuto l’amore tra i fiori e qualcuno le ha dedicato parole d’amore. La prosa si frastaglia e compare per la prima volta il “sì” più celebre della letteratura del ’900, semplice affermazione monosillabica reiterata che diventa cadenza del ricordo e del desiderio: The sun shines for you he said the day we were lying among the rhododendrons on Howth head (…) the day I got him to propose to me yes first gave him the bit of seedcake out of my mouth (…) yes 16 years ago my God after that long kiss I near lost my breath, “il sole splende per te disse lui quel giorno che eravamo stesi tra i rododendri sul promontorio di Howth (…) il giorno che gli feci fare la dichiarazione sì prima gli passai il pezzo di torta di semi dalla bocca (…) sì 16 anni fa Dio mio dopo quel bacio così lungo non avevo quasi più fiato”.

Paradossalmente, nella libertà totale del flusso di pensieri, Molly non sta ricordando un paese irreale ma uno vero, il promontorio sul mare dove ci sono fiori per terra e luccichii di stelle in cielo, e dove lei stessa è fiorita – il suo stesso cognome significa d’altronde ‘fiorire’: a un significato, il senso della vita. Allora, alla vita stessa.

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La forza di questa lunga meditazione priva di punteggiatura – quindi di ormeggi grammatico-sintattici e logici –, i pensieri dispersi di una donna assonnata cambiano peso specifico e, trasposti dall’autore nel loro nudo candore di rivelazione di sé, di testimonianza scritta, rivelano la loro forza di universalità.

Il sogno è più conciso, più breve della realtà, perché la memoria non è un meccanismo totalizzante. Conserva al contrario solo le immagini pregnanti, le istantanee più intense, le immagini di grande energia visiva. Partita dal fiore visto sulla carta da parati, Molly è arrivata al fiore sulla collina e a se stessa-fiore, alla donna-Molly-fiore di montagna: yes he said I was a flower of the mountain yes so we are flowers all a womans body yes that was one true thing he said in his life – “sì disse che ero un fiore di montagna sì allora siamo tutti fiori un corpo di donna sì è stata una cosa giusta che ha detto in vita sua”.

Le sorgenti di luce si spargono sul promontorio, sulla coppia abbracciata, su di lei nella stanza che ricorda la voce di lui dirle the sun shines for you today “il sole splende per te oggi”, oggi perché il tempo non esiste, il tempo è niente. E questo è l’unico episodio a cui Joyce non assegna un’ora, un momento preciso bensì i numeri dell’eternità e dell’infinito.

Al ripetersi dell’affermazione “sì”, yes, inizia ad alternarsi un’altra cellula minima di senso, la congiunzione “e”, and: tutto si somma al tutto per accumulo e potenziamento, ma anche in imitazione al balbettio infantile che non utilizza principali e subordinate bensì semplicemente “unisce”, “e poi… e poi …”, perché tutto ha la stessa rilevanza: uomo e donna, desiderio e bellezza, finito e infinito.

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Lo sfondo dell’unione e della felicità è Gibilterra, quando Molly era giovane, e allora ricorda altre ragazze come lei and the Spanish girls laughing in their shawls and their tall combs “e le ragazze spagnole che ridevano nei loro scialli e pettini alti”, ricorda una terra di profumi e colori, suoni e ombre vivide, contrasti drammatici tra biancori di calce e mantelli scuri, animali sfiniti sotto il sole, l’arsura del paesaggio e l’umidore confortante di taverne, proiezioni notturne ed echi di suoni modulati, and the auctions in the morning the Greek and the jews (…) and the poor donkeys slipping half asleep and the vague fellows in the cloaks aspleep in the shade on the steps and the big wheels of the carts of the bulls and the old castle thousand of years old yes and those handsome Moors all in white and turbans like kings asking you to sit down in their little bit of a shop and (…) the old window of the pasadas (…) and the wineshops half open at night and the castanets, “e le aste la mattina i Greci e gli ebrei (…) e i poveri ciuchini che inciampavano mezzi addormentati e gli uomini avvolti nei loro mantelli addormentati all’ombra sugli scalini e le grandi ruote dei carri dei tori e il vecchio castello vecchio di mille anni e quei bei Mori tutti in bianco e turbanti come re che ti chiedevano di sederti in quei loro buchi di botteghe e (…) le vecchie finestre delle posadas (…) e le vinerie mezzo aperte la notte e le nacchere…”.

Vibrante, il paesaggio s’infiamma, that awful deepdown torrent (…) and the sea crimsom sometimes like fire and the glorious sunsets and the figtrees in the Alameda gardens yes and all the queer little streets and pink and blue and yellow houses and the rosegardens and the jasmine and geraniums and cactuses and Gibraltar as a girl where I was a Flower of the mountain, “quel pauroso torrente sotterraneo (…) e il mare cremisi a volte come fuoco e i tramonti splendidi e i fichi nei giardini dell’Alameda sì e tutte quelle stradine bizzarre e le case rosa e azzurre e gialle e i roseti e i gelsomini e i gerani e i cactus e Gibilterra da ragazza dov’ero un Fiore di montagna”. Molly-che-è-stata-Fiore: ecco uno dei pochi punti fermi, assoluti, in una narrazione caoticamente scossa da ricordi, considerazioni sull’immediato, sovrapposizioni di passato e presente.

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In una lettera all’amico Frank Budgen, Joyce gli confida che Penelope è il “clou” del libro e per assurdo è proprio l’ultimo capitolo, con questo personaggio simbolico, ad ancorare tutto il libro alla solidità della terra. Se Bloom rappresenta l’immortalità dell’anima, Stephen l’immortalità della mente, Molly raffigura l’immortalità della materia, del corpo e della vita oltre ogni mortalità e decadenza: lei è la potenza della vita, la portatrice d’umanità nella nostra razza.

Molly Stephen ritraggono estremi, vertici che Leopold nemmeno riesce a sfiorare. Sempre con giudizi lucidi come lame Wilson osserva: “Nel soliloquio di Mrs. Bloom Joyce ci ha offerto un’altra estasi creativa, la rapsodia della carne. (…) Mrs. Bloom è come la terra, che a ogni cosa comunica la stessa vitalità: e nutre una materna affinità con tutte le creature viventi. Ha pietà dei poveri ciuchini sfruttati su per la ripida strada di Gibilterra, della sentinella davanti alla casa del governatore che si arrostisce al sole”.

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Il fiore che ha dato inizio alla serie di pensieri e fantasie proiettandoli all’infinito, la rosa che è diventata la donna torna adesso rosa, per ornare la bellezza femminile. Da bianco – la “rosa bianca” – lo sfondo si fa rosso: rosso il tramonto, rossa la rosa quando Molly ricorda di averla messa tra i capelli come le ragazze di Gibilterra yes when I put the rose in my hair like the Andalusian girls used or shall I wear a red rose and how he kissed me under the Moorish wall, “sì quando mi misi la rosa nei capelli come facevano le ragazze andaluse o ne porterò una rossa sì e come mi baciò sotto il muro moresco”.

Il bacio condensa il contenuto del monologo di Molly, per gran parte evocazione della sua vita amorosa e intima: per Penelope-Molly la sessualità è fondamento, scopo, aspettativa e nel corso della storia ha assunto il ruolo stesso della natura, che si basa sull’impulso sessuale per proseguire. En passant qui confonde due uomini, il sottotenente Mulvey sulla rocca di Gibilterra e il marito Leopold sul promontorio di Howth, ma per effetto di condensazione onirica la figura maschile è solo he, “lui”.

Sotto il cielo porpora Molly, scopertasi riflessa in un fiore, arriva al riconoscimento finale del divino e della felicità in una sola cosa. Nella sua mente il paesaggio mediterraneo si stende una volta ancora presso l’antico muro moresco, sulla collina a strapiombo sul mare. Ustionata dalle limitazioni del presente, torna indietro di sedici anni, vorrebbe fuggire il tempo e il luogo che sta vivendo, il letto meschino su cui si sta riposando, ed essere restituita al suo paradiso perduto e all’amore: and then I asked him with my eyes to ask again yes and then he asked me would I yes to say yes my mountain flower and first I put my arms around him yes and drew him down to me so he could feel my beasts alla perfume yes and his heart was going mad and yes I said yes I will Yes, “e poi gli chiesi con gli occhi di chiedere ancora e allora mi chiese se lo volevo sì dire di sì io fior di montagna e per prima cosa lo abbracciai sì e me lo tirai addosso così che mi sentisse il petto tutto profumato sì e il suo cuore batteva impazzito e sì dissi sì voglio Sì.”

Nel giorno d’estate sul mare Mediterraneo, Molly dice sì alla felicità e all’universo, con adesione incondizionata alla vita, incanto, gloria della contemplazione. Sulla pagina si sperde un’ultima sibilante e l’ultimo Sì è maiuscolo – come Fiore.

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Se Joyce pensava a questo quadro finale come al giardino dell’Eden, è uno strano Eden che ci rappresenta: Molly potrebbe sostenere la parte di Eva ma non c’è un Adamo, tranne nel suo ricordo, a farle da compagno. Non c’è un serpente, non c’è peccato. Invece di essere amaro, il ricordo di questa “caduta” è il ricordo più dolce, un serto profumato di aspirazioni, memorie, sensualità e tutto ciò di cui si compone il cosmo neo-pagano scaturito da un compatto fluire di parole (circa 25 mila), pensieri e idee senza argini, nell’alveo vagante della mente di una donna.

Il punto conclusivo lo mette il ‘terribile’, ‘sciamanico’ Wilson: “Questo corpo massiccio, il corpo dell’umanità, su cui posa l’intera struttura di Ulysses – ancora palpitante di un ritmo fortissimo in mezzo all’oscenità, la banalità, lo squallore – si affanna nel travaglio di dar vita a una conoscenza e una bellezza in virtù delle quali riuscire a trascendere se stesso” (p. 198).

Nell’Odissea Penelope è capace di fantasia fervente: “nessuna seppe pensieri come Penelope” (II). Ulysses è un romanzo logocentrico: celebrazione della parola – di Molly Bloom – che crea le cose, il mondo, la vita.

Paola Tonussi

Gruppo MAGOG