20 Settembre 2019

“È un distruttore formidabile di stupidità”: quando Guido Ceronetti tradusse il “Viaggio” di Céline in versi (completiamo l’opera?). Un pensiero ad Alex Alexis, che si tuffò nel linguaggio di Louis-Ferdinand prima di tutti, fu a Fiume con D’Annunzio e morì misero e solo

Il libraio, come sempre m’ha fregato. Mi mostra la prima edizione italiana di Viaggio al termine della notte. Numero 31 della collana ‘Scrittori di tutto il mondo’. “Finito di stampare… il 31 maggio 1933”. Edizioni Corbaccio, Milano. La copertina, sobria, ha un cerchio rosso, in basso, forse fu ipnosi nipponica. Con rapidità record il romanzo di Louis-Ferdinand Céline, pubblico in Francia nel 1932, approda in Italia. A tradurlo, Alex Alexis, un nome da romanzo russo, da generale ad Austerlitz, da avventuriero. In effetti, avventuriero lo fu, Alex Alexis.

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La traduzione è abbastanza illeggibile – eppure, ci sono voluti decenni, il 1992, per la nuova traduzione di Ernesto Ferrero, che riconosce al predecessore, “non ha dovuto lottare soltanto contro il tempo tiranno. Si è ritrovato in una situazione addirittura drammatica, perché non aveva una lingua in cui trasporre le novità perturbanti dello stile di Céline”. Mi tengo stretta la placca, in epigrafe: “Viaggiare è utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto non è che delusioni e fatiche. Il nostro viaggio è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, tutto è inventato. È un romanzo, null’altro che una storia fittizia. Lo dice Littré, che non si sbaglia mai. E poi, tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi. È dall’altro lato della vita”.

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Di Alex Alexis, non c’è mistero, sappiamo il nome – Luigi Alessio, piemontese, classe 1902 –, la vita, le circostanze di quella traduzione. Alcuni dettagli mi sembrano utili: orfano a nove anni, dannunziano a Fiume nel 1920 – una propensione per le avventure terminali –, fonda riviste (“Teatro”, a Torino, nel 1923), una casa editrice (Rinascimento); si appassiona alla Francia – sta a Parigi dal 1927 al 1939 – torna al paese nel 1960, erede di un altro mondo, economicamente in sfascio, e muore, solo, nel 1962. Scrisse biografie (un Bismarck per Corbaccio nel 1939; un Pitagora l’anno dopo), testi per il teatro, romanzi (come Alex Alexis, tra gli altri, Piccola sirena, nel 1935 e, in Francia, Amours a Montparnasse, 1937). Redasse un Vocabolario dell’argot e del linguaggio popolare parigino (Petrini, 1939), segno che di Céline ne capiva; di Céline tradusse anche gli invalicabili, Bagatelles pou un massacre e L’école des cadavers. Per Corbaccio, nel 1939, diede una versione del Don Giovanni di Byron. La sua vita, sempre nella tempesta, pare una pièce di Céline.

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Tra i céliniani, come si sa, c’è anche Guido Ceronetti. Nella postfazione al Dottor Semmelweis, “Semmelweis, Céline, la morte” (stampa Adelphi), Ceronetti mette le cose in chiaro (“Trovo il filosemitismo di Bloy più ripugnante dell’antisemitismo di Céline”) e scrive – come sempre – alcune cose indicative. “Céline ci evita, brutalmente, di perdere tempo, d’infettarci in una parola col collare, di allontanarci dalla verità, dalle emozioni, dalla musica, dalla vita e dalla morte. È un distruttore formidabile di stupidità, d’inutilità, di vuoto stilistico, un vendicatore furioso della parola, un autentico e veridico oracolo. Ha l’utilità pericolosa di una Bibbia, ed è un atleta antibiblico non indegno di contorcersi e di morire tra i suoi tentacoli detestati. Certamente la Bibbia è molto più forte di Ferdinand, uomo di solitudine, ma schiaccia, anche se invalido, un atleta, non un verme. Non capì mai la Scrittura, Céline lo scrittore. La vedeva con occhi involterianati, resi dalla sua paranoia più cupi, come una mostruosità disumana, l’uovo del male, la calamita semitica di tutte le malvagità possibili”.

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Nel 1986, in un libro prezioso, Come un talismano – stampa sempre Adelphi – Ceronetti raccoglie le traduzioni dei poeti che ama, da Wilfred Owen a William Blake, da Saffo a Rilke, da Villon a Lucrezio e Melville. Lo metteva tra i “manuali di difesa mentale dall’invasione e dalla guerra incessante delle Tenebre”, quel libro. Tra i poeti, appunto, tra il Corano e Zaccaria, Ceronetti installa Céline, distillandolo in lirica. Che genio, capire che lo stile sincopato di LFC funziona andando a capo, come una petite musique. Ceronetti traduce due capoversi del “Viaggio”, dall’edizione francese. Così:

Più amaro è domandarsi come riesci
Come la trovi la forza di continuare
A ripetere l’oggi anche domani,
Come trovi la forza di rifare
Gesti idioti, progetti che mai a niente
Arriveranno… Abortisco tutti
I tentativi per svincolarsi
Dall’oppressione della necessità;
Culmina tutto nella persuasione
Che mai lo sormonti il destino,
Che ai piedi della muraglia
Ricaschiamo ogni sera,
E nella stretta di un più precario
Di un più sordido ancora, domani.

E anche sopravviene, traditora,
L’età, e ci minaccia il peggio.
Per rianimare il ballo della vita
Ci resta, dentro, più poca musica.
Ai confini del mondo, per morire
Dove è il silenzio e la verità,
Tutta la giovinezza è già fuggita.
E poi, io dico, dove andare, quando
Del necessario capitale di delirio
Non resta niente più, dentro di noi?
La verità è un’interminabile agonia.
La morte è la verità di questo mondo.
Bisogna scegliere: o morire o mentire.

Che bellezza: Céline in versi. Lo facciamo integrale, un viaggio lirico nel “Viaggio”? (d.b.)

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