Il caos dell’era attuale è imputabile a un collasso delle identità. Esempio. Giuseppe Conte. Chi è? L’attuale Presidente del Consiglio dei ministri. Per me, il solo Giuseppe Conte è il poeta ligure, autore di libri importanti (L’ultimo aprile bianco, L’oceano e il ragazzo, Le stagioni), il traduttore di Shelley, di Lawrence, di Whitman e di William Blake. Pensate che bello se ci fosse lui, l’autentico Giuseppe Conte, il poeta, alla guida del Governo: allora sì, davvero, sarebbe il governo del cambiamento.
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Ulteriore sbilanciamento di identità. In questi giorni non si fa che parlare di Kavanaugh, Brett Kavanaugh, nominato da Donald Trump alla Corte Suprema americana, nomina ‘stoppata’ perché il giudice, nei primi anni Ottanta, al liceo, avrebbe allungato le mani su una procace compagna. Siamo in pieno delirio politico-ormonale, avete ragione, tanto che il mio caro amico Bruno Giurato, che fa l’Empedocle a Milano mi fa, che palle Brett Kavanaugh, ma perché non parli un po’ di Patrick Kavanagh? Anche in questo caso, in effetti, il difetto è nello scambio di nomi. Da ciò che mi insegnano i compari d’Irlanda, Kavanaugh equivale a Kavanagh, entrambi sono la traduzione dell’irlandese Caomhánach. Ma vi rendete conto che bellezza, se alla Corte Suprema americana avessimo un poeta al posto di un giudice che ha avuto una adolescenza da sessomane?
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Patrick Kavanagh è tra i grandi poeti del secolo passato, il più grande poeta irlandese insieme a William Butler Yeats. Non lo dico io – l’opinione di un passante – ma un genio e un fatto. Il genio è Seamus Heaney, Nobel per la letteratura nel 1995, che in tutte le sedi e in tutte le salse ha dichiarato il proprio debito lirico nei riguardi di Patrick Kavanagh. Ad esempio, in Frontiere della scrittura, raccolto nell’essenziale La riparazione della poesia: “…sentivamo la necessità di mettere in parole certe realtà uniche, quasi sub culturali, della vita dell’Ulster, e tutti imparammo qualcosa dai colleghi e dall’esempio di altre generazioni. Io imparai da Patrick Kavanagh delle particolari certezze e indicazioni che non avrei potuto ricavare da Gerard Manley Hopkins o Dylan Thomas”. Il fatto è questo. Nel 2000 l’Irish Times stila la lista delle poesie più amate scritte da poeti d’Irlanda. Dieci poesie su cinquanta sono di Kavanagh. Insieme a Yeats è il poeta più amato e citato dai lettori.
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La storia di Kavanagh è poco poetica. Figlio di un contadino, Patrick lascia la scuola a 13 anni, impara a fare le scarpe (senza molto successo), si applica nella fattoria di famiglia, scrive. Non c’è nulla di romantico nella sua disciplina da ‘poeta contadino’ – “…contadino, di fatto, è chi vive sotto un certo livello di consapevolezza, è chi vive nella oscura caverna dell’inconscio e grida quando vede la luce” – come nella sua poesia, intrisa di quotidiano e di mistero ‘rurale’, che nasce, sorprendendo, nel 1936, con la raccolta Ploughman and Other Poems. La vita di Kavanagh si trascina tra Dublino e Belfast, come pubblicista, aiutante in un bar, bevitore formidabile. Intorno alla sua vita, “donchisciottesca”, da maudit all’irlandese, ha scritto un buon libro Antoinette Quinn, Patrick Kavanagh. A Biography (2001). Il cancro ai polmoni, diagnosticato nel 1954, a cui seguì una cura, modifica lo sguardo del poeta sul mondo, ne affina la forza poetica, che si concretizza in Come Dance with Kitty Stobling (1960) e nel volume che raccoglie i Collected Poems (1964), sintetizzato nella didascalia in cui Kavanagh descrive se stesso: “un uomo, innocentemente, gioca con parole e rime, e scopre che lì è tutta la sua vita”.
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La fama di Patrick Kavanagh, in un Paese che ama i suoi poeti come fossero trofei nazionali, esula dai confini meramente letterari. La poesia On Raglan Road, pubblicata in origine nel 1946 su The Irish Press, è diventata una canzone interpretata, tra i tanti, da Van Morrison, Sinéad O’Connor, Mark Knopfler. In Italia il poeta è tradotto da piccoli editori di qualità: Solfanelli, in Fama e altre poesie (a cura di Giuseppe Serpillo; 1004) e Ancora, in Andremo a rubare in cielo (a cura di Saverio Simonelli; 2009). Certo, sarebbe necessaria un’edizione più ampia delle poesie di Kavanagh, per grandi editori, ma, come si dice, che ve lo dico a fare? Continuiamo a occuparci di Kavanaugh, il Kavanagh sbagliato. (d.b.)
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Innocenza
Ridevano di ciò che amavo –
la collina triangolare che cadeva
sotto il Big Foth. Dicevano
che ero imprigionato dal biancospino
della piccola fattoria e che non conoscevo il mondo.
Ma sapevo che l’amore spalanca alla vita
ovunque è quella l’unica porta.
Mi vergognavo di amare
l’ho sradicato da me chiamandolo fosso
anche se mi sorrideva con le viole.
Ma ora sono ancora tra le sue braccia spinate
la rugiada di una estate indiana giace
su tralci di patate bianche
quanti anni ho?
Non conosco la mia età,
non ho età mortale;
non so nulla di donne,
niente di città,
non posso morire
se non cammino
oltre il biancospino.
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Una stella
La bellezza era quella
fiamma lontana evanescente
chiamala stella
se vuoi un bel nome.
E fissala fissala
sbadatamente finché
non resta nulla se non
una collina grigia come uno spettro.
Aspetto qui
sul bordo del mondo
allungando le mani
ai Serafini.
Patrick Kavanagh