03 Agosto 2020

“Nell’ebbrezza delle cose, tu servi la sconfitta, servi lo spirito”. Gottfried Benn, il nichilista assoluto e la “tensione biologica” nella poesia

Era il ’32 quando – di fronte alla crisi politica e di valori che stava ponendo fine alla Repubblica di Weimar – Gottfried Benn imboccò il percorso che lo avrebbe condotto verso un nuovo modo di intendere la “categoria del politico” (Carl Schmitt). Di lì a breve, infatti, si sarebbe pubblicamente esposto a sostegno del movimento nazionalsocialista. L’antimodernismo e la svolta antropologica teorizzate dal nazismo illusero il poeta di poter trovare un terreno comune con la propria concezione del mondo; terreno sul quale costruire una perfetta unione tra spirito e potere. E fu così che, sottovalutandone l’avversità per l’arte, Benn finì per aderire al nazismo; e lo fece attraverso una serie di saggi e articoli (Il nuovo Stato e gli intellettuali 1933, Arte e potere 1934) nei quali guardava al movimento nazionalsocialista con la speranza di vedere l’espressionismo (avanguardia artistica di cui fu uno dei maggiori rappresentati) diventare un valido supporto per la nascita della nuova Germania.  Nel ’33 venne chiamato a dirigere la sezione di poesia dell’Accademia di Prussia, ma la sintesi tra spirito e realtà politica, che gli era così cara, si sarebbe ben presto dimostrata illusoria. Infatti le sue idee cominciarono a creare imbarazzo al regime. Ci avrebbe pensato Alfred Rosenberg a dare uno scossone alle aspettative del poeta, definendo l’espressionismo una manifestazione del “bolscevismo culturale” e del “decadentismo ebraico”.

«Il tutto mi comincia ad apparire come una sceneggiata che annuncia sempre il Faust ma la troupe è appena sufficiente per un’operetta. Con quali toni grandiosi ha esordito e come appare schifoso oggi!». Il 27 agosto del ’34 Benn scriveva queste parole alla poetessa Ina Seidel, manifestando la propria delusione per la brutalità della politica nazista. Da circa due mesi era stato rimosso dalla carica di presidente dell’Accademia e, trovatosi improvvisamente isolato, aveva dovuto controbattere le accuse del regime riguardo le sue presunte origini ebraiche. Intanto, da uomo di principi qual era, aveva reagito all’esilio con la Reichswehr (emigrazione interna), arruolandosi nuovamente nella Wehrmacht. Ciò non impedì ai gerarchi di vietargli qualsiasi pubblicazione (divieto che si protrasse anche dopo la fine della guerra, poiché il nuovo potere democratico censurò la voce di tutti coloro che si erano compromessi con il regime).

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In quegli anni di silenzio forzato Benn continuò la propria riflessione lirica e filosofica intorno al rapporto fra potenza e arte, vita e forma, principio biologico e spirito; riflessione che trovò piena maturità nel saggio Problematica della poesia (1951). Come egli stesso ha scritto, il fine «è il tentativo di cogliere la natura della poesia nel suo concetto e nel suo essere grazie a un’ipotesi nuova e di collocarla all’interno del processo biologico in quanto fenomeno di carattere primario». L’esigenza di dare fondamenta fisiologiche alla poesia, unita a una progressiva riduzione dell’io e della vita a pura biologia, costituiva uno dei cardini del nichilismo benniano. Grazie al supporto della biologia moderna, egli riuscì ad evidenziare come i caratteri regressivi fossero costuditi all’interno dell’io stesso il quale, stratificandosi come i sedimenti rocciosi, portava in sé le tracce di una primitività. La novità scientifica sulla quale Benn costruì le sue teorie riguardava il fondamento biologico della personalità e la scoperta di come non fosse la corteccia cerebrale a custodire la coscienza, ma la parte più interna ad essa, il mesencefalo, nel quale erano racchiusi istinti, emotività e sentimenti. Era l’emotività, dunque, la componente più antica sulla quale si stratificava successivamente la razionalità. Tale prerogativa “geologica” rendeva l’io stesso un involucro dal quale si aprivano improvvise lacerazioni che portavano alla superficie bagliori primitivi. Per questo motivo, sosteneva Benn, lo sviluppo avrebbe dovuto invertire la propria direzione e volgersi all’indietro, verso un passato mitico: “Formazione, e formazione a ritroso. Quando l’anima si sviluppa, essa si forma a ritroso. Demonica questa consapevolezza, per la malinconia con c’è posto, l’Acheronte ha sommerso l’Olimpo, il Gange si mette in moto verso Wittenberg. L’io, sciolto dalla costrizione, nel dissolversi delle funzioni, puro io nell’incendio delle origini, acausale, a priori dell’esperienza, si volge all’indietro, il “sacrilego tentativo di afferrare – all’indietro”, dietro il velo dei Maya”.

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Uno degli argomenti più dibattuti dalla generazione avanguardista, alla quale Benn apparteneva, fu il tema nietzschiano sul destino nichilistico dell’Europa. Nietzsche aveva creduto di poterlo superare affermando l’unità di vita e pensiero. La separazione tra mondo fisico e metafisico era dovuta, secondo il filosofo, ad una valutazione morale della vita. Questa frattura poteva essere ricomposta facendo leva sulla volontà di potenza che animava, allo stesso modo, materia e spirito. Per fare ciò era necessario che la «pianta-uomo» ne generasse una nuova: il «sovra-uomo». Solo questa, recuperati gli istinti premorali e conservata la profondità dello spirito, avrebbe consentito il superamento del nichilismo. Benn percorse, invece, la strada contraria qualificando il pensiero come qualcosa di biologicamente, storicamente e politicamente inutile, tanto da non ritenerlo in grado di invertire il destino dell’uomo occidentale: “La razza bianca è alla fine. Magia tecnica, mille modi per dire profitto, testo standardizzato, partiture di cifre, questo è stato il suo ultimo sogno”.

Egli sosteneva che vita e spirito fossero retti da princìpi diversi – «la metamorfosi è la legge della vita; il fissarsi, il darsi forma, la legge dello spirito» – e perciò in netta opposizione tra loro. L’errore di Nietzsche era stato – secondo Benn – quello di aver cercato una sintesi tra biologia e arte. Il filosofo di Röcken vedeva nell’arte l’ultima attività metafisica che l’uomo potesse praticare per rendere l’esistenza sopportabile trasformandola in fenomeno estetico. Per il poeta tedesco, invece, l’arte – essendo sovrastorica – non stabiliva nessun legame con la vita, dato che quest’ultima era un fenomeno esclusivamente biologico.

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Nostalgico dell’età in cui gli uomini conoscevano «la partecipazione mistica», Benn riteneva tuttavia inarrestabile la progressione del razionalismo moderno, cui cercava di contrapporre un principio artistico. Per compiere questa operazione il poeta doveva dare espressione a quel mondo primordiale che ancora si agitava negli strati profondi della coscienza. D’altronde quel mondo era destinato a scomparire sotto l’avanzata del razionalismo. Il processo di eliminazione degli elementi «mediterranei» della psiche non era, però, del tutto concluso: il canto risultava ancora possibile se il poeta, estraniandosi dalla cultura e dalla storia, fosse riuscito a cogliere i barlumi del primitivo. Solo così la poesia, mai toccata dall’idea del progresso, sarebbe divenuta immortale: “La tensione biologica si risolve nell’arte. L’arte non ha però capacità di disposizione storica, va oltre il tempo e la storia, il suo effetto si proietta sui geni […]. La componente d’intrattenimento e quella politica di alcuni generi particolari, ad esempio il romanzo, ingannano: l’essenza dell’arte è reticenza infinita”.

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Se spirito e arte erano sovrastoriche allora non potevano avere potenza: ciò le rendeva «bio-negative». Benn cercava di dimostrare tale assunto approfondendo le condizioni in cui nasceva il genio e, contrariamente a quanto ipotizzato da Nietzsche, vedeva in esso il frutto della decadenza. Il poeta e saggista tedesco sosteneva che arte e pensiero fossero il prodotto della degenerazione biologica, motivo per il quale risultavano in netta opposizione alla vita. Dunque, il compito del poeta era quello di ricomporre questa tensione sul piano della forma. In ciò consisteva «la salute del nichilista». Dato che la vita era dominata dal male, bisognava evitare di subire la realtà socio-politica tenendosene a distanza. Risultava necessario, quindi, che il poeta si adattasse ai costumi dominanti della società ma senza lasciarsene coinvolgere. Ed era proprio ciò che Benn fece, creandosi una doppia vita: da un lato lo scienziato, l’eminente sifilopatologo che esercitava in modo impeccabile la propria professione; dall’altro il letterato solitario e austero (non a caso Doppia vita è il titolo dell’autobiografia pubblicata nel 1950). Venute meno tutte le connessioni tra realtà, vita e pensiero, ultimo fine dell’arte risultava essere quello della “forma perfetta” nella quale lo spirito avrebbe trovato quiete.

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Benn puntava ormai verso una radicalizzazione assoluta di individualismo e nichilismo che “investiva” fortemente sul linguaggio e sulla sua forza evocativa. Egli non considerava più la lingua come uno strumento per produrre senso condivisibile, bensì come mezzo di dialogo interiore. Radicalizzando la consapevolezza della crisi della parola già indagata da Musil e Kafka (Giuliano Baioni), Benn si spinse oltre denunciando quella fine del senso che apparve come tratto specifico della contemporaneità (Antonhy Giddens). Deriva da ciò la sua estetica concentrata sulla ricerca di una forma perfetta, dove il distacco dal referente diventava totale. Infatti, se guardiamo con attenzione alla sua prosa artistica, al di là della tematica esistenziale, la particolarità si manifesta soprattutto sul fronte della sperimentazione. La propensione biografica dei suoi racconti – a partire da Cervelli (1916) – era un pretesto volto a unire sogni, lirismo descrittivo e divagazioni saggistiche. Per quanto concerne la poesia, superati i tempi dello “scandaloso” Morgue (1912) e dell’alternanza di Flutto Ebbro (poesie scritte tra il ’16 e il ’36 e pubblicate nel ‘49) che imponeva una scelta tra regressione talassale e disciplina dell’arte, Benn giunse, con Poesie statiche (1948), ad una perfezione formale che teneva unicamente conto del suono e del segno nello spazio. Il rapporto con la società, con i simili, era definitivamente sciolto. Dissipate le origini elleniche, esaurita l’energia del Vecchio Mondo, Benn aveva eletto ad unica verità praticabile quella di un nichilismo assoluto: “Tramonti dell’Occidente, autunni della cultura, rigenerazioni comuniste – ma non c’è nessun tramonto e nessuna risurrezione, non c’è nessun marmo e nessuno scalpello, c’è soltanto la coscienza e il nulla”.

Giuseppe Todisco

***

Madre

Ti porto come una ferita
sulla fronte, che non si rimargina.
Non sempre fa male. E il cuore
non ne muore dissanguato.
Solo talvolta sono di colpo accecato e sento
del sangue in bocca.

*

Uomo e donna attraversano il padiglione del cancro

L’uomo:
questa fila qui sono grembi in disfacimento
e mammelle in disfacimento quest’altra.

Fetore di letto in letto. Ogni ora le suore si danno il cambio.

Vieni, solleva pure questa coperta.
Guarda, questa poltiglia di grasso e umori marcescenti
una volta per qualche uomo era una cosa grande
e voleva anche dire ebbrezza e intimità.

Vieni, osserva questa cicatrice sul petto.
Senti il rosario di tubercoli molli?
Palpa bene qui. La carne è frolla e non fa male.
Questa qui sanguina come trenta corpi.

Nessun essere umano ha tanto sangue.
A quest’altra si è tagliato da poco
anche un bambino dal grembo canceroso.

Le lasciano dormire. Giorno e notte. – Alle nuove
dicono: qui ci si risana con il sonno. – Solo di domenica,
per la visita, le tengono un po’ più sveglie.

Pasti poi se ne consumano pochi. Le schiene
sono piagate. Vedi le mosche. Talvolta
la suora le lava. Come si lavano le panche.

Qui, intorno a ogni letto, già si gonfia il campo.
La carne si livella al suolo. La fiamma si spegne.
I liquami stanno per colare. La terra chiama.

*

Cariatide

Sottraiti alla pietra! Fa’ crollare
l’antro che ti soggioga! Prorompi
nella campagna! Schernisci i cornicioni —
guarda: traverso la barba all’ebbro Sileno
da un tumultuante in eterno
chiassoso unico intronato sangue
cola vino sul sesso!
Sputa sulla mania delle colonne: senili
mani di morti uccisi le offersero
tremando a cieli coperti. Fa’ franare
i templi davanti la nostalgia del tuo ginocchio
in cui brama la danza!
Distenditi, fiorisci tutta, oh, lascia sanguinare
la tua tenera aiuola da larghe ferite:
guarda. Venere con le colombe si cinge
di rose la porta d’amore delle anche —
guarda, di quest’estate l’ultimo alito azzurro
che va su mari di asteri alle lontane
sponde brune di alberi; guarda
albeggiare quest’ultima ora fallace di felicità
del nostro sogno di sud
volta immensa.

*

Il tardo io

I

O tu, guarda: onda di violacciocche
cui l’occhio già trabocca,
tu sterile seme, immortale in proprio,
ed è già tardi.
Con ultime rose, poiché la favola
Dell’estate da tempo lasciò la terra —
moi haïssable,
ancor tanto menadico analitico.

 

II

In principio era il flutto. Una zattera di lemuri
trainata dall’alce, la bestia, che pietra ingravidò.
Da regni dei morti, memorie e torturati animali
ci monta Dio.
Tutti i grandi animali: aquile delle coorti,
colombe del Golgota –
tutte le grandi città: bordi di palme e di porpora
fiori del deserto, sogno di Baal.
Frane d’Oriente, guado di Marmara,
Roma, rendi i cavalli di Lisippo –
ultimo sangue del toro bianco su muti altari
e di Anfitrite ultimo mare –
Macerie. Baccanali, profezie.
Barcarole, porcherie.
In principio era il flutto. Una zattera di lemuri
nei mari ultimi avanza.

 

III

O anima, preda alla putredine,
a stento viva, ancora troppo viva,
giacché non polline da campi,
giacché non foglie da boschi
caddero grevi fra le tue ombre.

Le rupi ardono, il Tartaro è azzurro,
l’Ade in colori di oleandro monta
nella palpebra al sonno e i morti brucia
in covoni di mitica felicità.

L’albero della gomma, la canna di bambù,
il lago dilava le tavole degli Incas,
il Mondchâteau: frane, detriti ed ombre
e antichissimi muri tutti azzurri.

Che fraterna felicità Caino e Abele
per i quali Dio varcò le nubi —
causalgenetico, haïssable:
il tardo io.

*

Colui che è solo

Colui che è solo è anche nel mistero
e sempre sta nel fiume delle immagini,
del loro generarsi, germinarsi,
anche le ombre hanno questo fuoco.

Gravido di ogni strato è nel pensiero
di ogni strato ricolmo e non disperso,
in suo potere ha l’annientamento
di ogni umano che si nutre e si accoppia.

Impassibile egli vede la terra
un’altra farsi da quella che fu sua,
non più “muori” e non più “divieni”:
la perfezione, immobile, lo guarda.

*

Mai più solitario

Mai più solitario che in agosto:
la pienezza dell’ora – per le terre
gli incendi del rosso e dell’oro,
ma dov’è l’estasi dei tuoi giardini?

I laghi chiari, i cieli teneri,
i campi puri risplendono lievi,
ma dove sono la vittoria e i segni
del regno che tu rappresenti?

Dove tutto si legittima con il successo
e ci si scambiano lo sguardo e gli anelli
nel profumo del vino, nell’ebbrezza delle cose –
tu servi la sconfitta, servi lo spirito.

*

Ma tu?

Tu, effimero come sei, devi sbarrarti gli occhi,
perché quanto v’irrompe non è certo un Gran Destino,
la sera, nel locale, non è affatto una goduria,
perfino in un tal luogo tu finisci col disfarti.

Ecco che d’un tratto al banco si accomoda un morto,
avvocato, da grave nefrosi affetto,
morto già da due anni, con vedova di bell’aspetto,
e adesso sta bevendo allegro e come risorto.

Spesso anche quel fiore c’era già,
che ora sta nel bar, sul pianoforte,
ognora presente, pure cinquant’anni fa
chissà quando, dov’era sempre estate.

Tutto si perpetua, si rigira da una vecchia
ad una nuova posizione –
tutto resta ciò che fu
ma tu –?

*

Fonti:

Presenza e poesia in Gottfried Benn – Giampiero Moretti
La fisica dell’immagine. Sguardo anatomico e sguardo poetico – Antonino Trizzino
Gottfried Benn e Il nazionalsocialismo – Stefanie Golisch
Flutto ebbro, Gottfried Benn – Ugo Guanda editore, 1989 (a cura di Anna Maria Carpi)
Gottfried Benn e il superamento poetico del nichilismo – Ivan Dimitrijević
Gottfried Benn come discepolo di Nietzsche: il nichilismo e il regno della forma – Ivan Dimitrijević
L’Acheronte ha sommerso l’Olimpo: il mito in Gottfried Benn – Manuela Casalboni
Lo smalto sul nulla, Gottfried Benn – Adelphi Edizioni, 1992
Il declino del soggetto narratore, da “Sparire a se stessi” – Adolfo Fattori

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