
E. M. Forster, o del fascino ineguagliabile dell’introverso
Letterature
Silvano Calzini
D’estate se vado al mare non leggo libri sul mare, del mare mi sembra di saperne abbastanza, sicuramente a torto, e per di più di recente, secondo le cronache, ogni cosa sembra accadere sul mare, anche per questo, per voltarmi le spalle, ma ne sono andato in montagna e quando ci vado cerco qualche libro sulla montagna, perché se una idea su cosa sia il mare, che possa aiutarmi a dare un nome a quello che mi ci accade, ce l’ho, su cosa sia la montagna non ne ho nessuna: se non avessi letto Alpi ribelli di Enrico Camanni, nell’edizione Economica Laterza, mi sarei orientato meno; non che mi sia orientato del tutto, certo.
Le seraccate, le crode, le maniglie jumar, i maggenghi: i libri ti danno le parole per strappare le cose alla loro imprendibilità. Finché non sai dare un nome a quello che ti circonda ti senti circondato ma come da una nebbia, da un mondo di fantasia che non nega tanto la sua esistenza quanto la tua che ti puoi aggirare al suo interno come in una casa degli specchi che rimanda indietro tutte le immagini meno che la tua, se non conosci l’alfabeto minimo per interloquirci. Per sentirsi dei fantasmi basta poco, basta non conoscere le parole per definire il luogo, e il tempo, in cui sei e di conseguenza per ritagliarti una forma entro il suo contesto. Poi più diventi padrone delle parole più ti conquisti indipendenza dal contesto per cui sono state inizialmente formulate. È la lingua che ci fa di carne più della carne stessa.
Tra l’altro dubito che a Camanni sarei potuto risultare simpatico, essendo io esattamente uno che ricava agio della “banalizzazione e mercificazione della montagna”. Alla montagna ci arrivo a seguito del suo addomesticamento, grazie alle autostrade e agli impianti che hanno reso accessibili le ‘terre alte’ anche a chi come me arriva da quelle bassissime, a malapena al di sopra del livello del mare, anzi, che sempre più spesso ci finiscono sotto. “Come aveva profetizzato Leslie Stephen, padre di Virginia Woolf, le Alpi sono diventate il più grande parco giochi della città”. Lo confermo: io in montagna ci sono andato con lo spirito di abnegazione di chi è disposto ad aspettare le ore in fila prima di salire sulla giostrina, mica con quello dello scalatore disposto a conoscere i suoi limiti, superandoli, a costo di precipitare nel vuoto anche di fatto nel tentativo. Tanti altri nel vuoto ci precipitano comunque, però senza darselo mai a vedere.
Per Camanni ormai “Si possono sfiorare i quattromila metri con il cappotto e le scarpe da città, perfino con i tacchi se si prevede una serata elegante. Mangiare alla valdostana in un ristorante a Courmayeur, volare sopra il Monte Bianco e cenare con una savoiarda a Chamonix” e questo è un esempio evidente di quello che è stato fatto alle montagne, come al mondo in generale: gli uomini hanno deciso di essere la misura di tutte le cose perciò per fare in modo che le montagne fossero alla loro altezza le hanno abbassate, le hanno ridotte a terrazze panoramiche, e in effetti quello che scrive Camanni a me si adatta alla perfezione, tacchi a parte, tra l’altro magari averci un cappotto quando sono stato sbarcato sulla Punta Helbronner, con i suoi quattro gradi d’agosto: ero in pantaloncini e tshirt di cotone, e il Bianco è rimasto nascosto dietro un bel po’ di nuvole, come a ricordarmi che non basta pagare un biglietto per rivendicare il diritto di vedere l’indiscrezione della bellezza.
Ho scelto le Alpi per la mia estate perché, come scrive Camanni nella sua introduzione, Le Alpi non esistono. Del resto in Italia non è rimasto niente di più reale di ciò per cui si fa di tutto per negarne l’esistenza. In Italia non esistono le mafie, non esiste l’imbarbarimento civile, di totalmente libera c’è la sua caduta, allora come possono esistere le Alpi? Le Alpi non esistono perché non sono fatte esistere: esistono cioè fin dove conviene al solito potere pacchianotto e tanto più provinciale quanto più è centralizzato, che essendo economico è politico a più non posso. Aggiungo che ho scelto la montagna perché non avrei sopportato il grande clamore che si fa in quel cimitero tuttora chiamato semplicemente mare. Non sapendo nulla della montagna infatti non sapevo che grande cimitero sia da sempre anche lei, e come certi silenzi possano riuscire più indecenti del clamore.
“Eppure nel ventennio del benessere italiano, tra i Sessanta e gli Ottanta del Novecento, il fenomeno migratorio raggiungeva dimensioni sconvolgenti sulle Alpi piemontesi, in particolare nelle valli cuneesi: la Val Grana perdeva il 75 per cento degli abitanti, la Valle Stura il 71 e la Val Maira l’83. Un’ecatombe”. Sarebbe potuto essere così evidente ai miei occhi che però si sono schiariti solo tramite la guida di Camanni: comuni di duecento persone, di cento persone, di cinquanta persone, ma mi erano propinati come dei bellissimi-borghi-italiani, vincitori di questa o quella manifestazione, premiati per le fiorate o per gli allestimenti storici: toh, guarda, ecco come facevano i cardatori, come i fabbri, ecco come facevano i battitori della paglia. Toh guarda, ecco in che condizioni vivevano i poveri, con gli zoccoli di legno e le pentolacce di rame, quando ancora esistevano i poveri, pensa! Mi aggiravo nei cimiteri turistici nel giorno prolungato di Ognissanti che è il periodo-estivo. Bisognerebbe ripassare tra qualche mese, durante l’inverno, quando gli scheletri potranno togliersi maschere e costumi e tornarsene nei loculi a cui sono legati, in attesa del prossimo carnevale blasfemo. Ma come, anche qui, dall’altra parte del mare, ci trovo le storie inclementi dell’emigrazione? Tanto valeva andarsene al mare se tutte le fughe conducono inesorabilmente alla realtà che annaspa, fin quando le va bene.
“La povertà alimenta il bisogno di emigrare, perché la terra è poca e la gente è tanta”. I montanari di ieri, come quelli di oggi, affratellati ai migranti di ora e di sempre? La montagna, come il mare, come tutti i luoghi invisibili, è un altro scenario della nuova epica, quella che verrà cantata soltanto tra qualche secolo perché nel frattempo è tutto in svolgimento e ancora non è chiaro chi saranno i sopravvissuti che verranno incaricati del dovere del racconto che è quel che nasce dall’innesto tra la brutalità della memoria e la soavità dell’invenzione, dando vita a una indimenticabilità possibile? Io, parola mia, volevo spassarmela tra crespelle e selfie in alpeggio, certo non rivivere le storie che la scrittura richiama indietro dell’erebo del chissenefrega.
La memoria, da sola, non ce la può fare. Mettiamo il ricordo di Franz Thaler riportato da Camanni, uno tra gli altri ricordi delle vite facilmente rimosse per non guastarsi l’estasi ferale di una esistenza riservata ai suoi sbocchi di ferie, quando ti dice grassa e dunque le ferie ce l’hai assieme a un lavoro che un po’ te ne assicura; sono tutti ricordi brucianti e che soltanto i pavidi per convenienza definirebbero leggendari. Franz nasce nel Sud Tirolo al tempo delle Opzioni germaniche progettate da Himmler, non vuole emigrare nel Terzo Reich e si dà alla macchia in montagna, ma il suo rifiuto lo condusse a Dachau in quanto o si costituiva lui o ci mandavano i suoi genitori e “Fu così che mio padre mi cercò e piangendo mi supplicò di costituirmi”. Di Dachau Franz ricorda come lui e gli altri: “Riuscivamo a stabilire se quelle bruciate erano vittime novelle con ancora un po’ di grasso attorno ai fianchi, perché il fumo era giallo-nero”. Un ricordo così non può essere trasmesso, provoca troppo strazio, è comprensibile venga espulso, obliato, disinnescato facendone una fake news da buonisti avanti lettera. Se non interviene l’azione di trasformazione della letteratura nulla può restare, non che la letteratura mistifichi le cose ma sa cogliere di ogni veleno la sua fragranza come di madeleine, per dirla di nuovo con Proust, o come di fetta di salame tagliata di sghimbescio per svecchiarsi e dirla con l’Aldo Busi di L’altra mammella delle vacche amiche.
Camanni è un valente saggista ma le sue storie, per come le racconta, non sono sopportabili, come non lo sono quelle riportate della pur valente giornalista Cecilia Sala nell’articolo Quella frontiera sulle Alpi letto anche lui mentre credevo bastasse salire di altitudine per scampare al cedimento strutturale ed emotivo collettivo e per forza di cose anche mio. Cecilia Sala scrive “In primavera si scioglie la neve e affiorano i corpi. Sono i migranti che hanno provato ad attraversare il confine durante l’inverno”. Il mare e la montagna si incontrano nei corpi e nella morte degli uomini che li uniscono tramite i loro tragitti. Poco lontano da dove io andavo arrancando per completare i sentieri di difficoltà turistica debitamente tracciati da questa o quella regione con statuto più o meno speciale si erano avventurati uomini e donne praticamente apolidi e con loro altri uomini e donne accusabili di reato-di-solidarietà, che rischiamo multe o il carcere se “portano un paio di scarponcini Decathlon a un migrante in ciabatte nella neve”.
Scrive Enrico Camanni: “La ritirata di Russia e la guerra di resistenza sono state entrambe un problema di scarpe”. Le scarpe in montagna fanno la differenza tra la vita e la morte. Ne so qualcosina persino io: mi si sono rotti gli scarponcini del trekking durante una escursione, via la gommatura spessa dal tallone, poco dopo la tomaia era a vista, infine me la sono cavata con un passabilissimo indolenzimento ai piedi, d’altronde non mi sarei fatto aiutare da nessuno in nessun caso: mai vorrei che qualcuno finisse in galera per aver commesso lo sproposito di avermi voluto aiutare durante un momento di indiscutibile difficoltà.
L’ultimo capitolo di Alpi ribelli s’intitola L’ultimo ribelle e ha per protagonista il ritorno del lupo, il quale a ben vedere abitava la montagna ben prima di chi l’ha scacciato: “Il lupo ha inventato il trekking prima dell’uomo”. Il lupo secondo Camanni incarna bene tutte le contraddizioni attuali: “Ogni partito ha le sue ragioni, anche se si scrivono e raccontano un sacco di sciocchezze: che i lupi sono migliaia, che agiscono in branco contro le persone, che attaccano gli escursionisti. In campagna elettorale un politico cuneese ha perfino scambiato il numero dei lupi con quello delle pecore. A tali assurdità si contrappone la semplificazione romantica di alcuni osservatori esterni, che non hanno pecore da difendere e vivono la montagna come la proiezione festiva di un sogno. Per questi cittadini, che probabilmente non lo incontreranno mai, il lupo è sempre quello delle favole, ma è diventato buono e giusto”. Ed è stato leggendo questo pezzo che m’è venuta come una vertigine d’alta quota e il dubbio se stessi leggendo ancora il saggio sulle Alpi di Camanni o se un inedito di Esopo, quello scafatissimo moralista favoloso.
Antonio Coda